L'italia della banca

    Roma, 31 maggio 2019

    Autorità, signori partecipanti, signore, signori, il sistema di istituzioni sovranazionali e di regole multilaterali che dal dopoguerra ha sostenuto l'integrazione e lo sviluppo economico mondiale è entrato in una fase di grave difficoltà. La tendenza all'apertura degli scambi, accentuatasi negli ultimi decenni, si è arrestata. La brusca frenata del commercio internazionale osservata nel corso del 2018 ha riflesso le tensioni connesse, in primo luogo, con la nuova strategia protezionistica perseguita dagli Stati Uniti.

    La quota dei beni intermedi realizzati fuori dai confini nazionali è ampia; le misure protezionistiche, aumentando il costo dei fattori di produzione, finiscono per ritorcersi sulle aziende nazionali e amplificano gli effetti dei dazi sui consumatori. Le ripercussioni sull'attività produttiva non si limitano a quelle direttamente prodotte dalle barriere agli scambi, ma derivano anche dal peggioramento della fiducia delle imprese, dalla revisione al ribasso dei piani di investimento, dalla maggiore volatilità dei mercati finanziari internazionali.

    Il Fondo monetario internazionale prevede che la crescita globale si riduca quest'anno al 3,3 per cento, il valore più basso dalla contrazione del 2009. L'indebolimento è di uso, interessa aree che rappresentano oltre il 70 per cento dell'economia mondiale. Le proiezioni prefigurano una ripresa dalla metà dell'anno, sostenuta dalle politiche economiche espansive nei principali paesi e dal conseguente miglioramento delle condizioni nei mercati finanziari. Restano però rilevanti i rischi, anche di natura geopolitica.

    Il rallentamento interessa soprattutto l'economia dell'area dell'euro, più aperta agli scambi internazionali rispetto a Stati Uniti e Giappone. La dipendenza dalla domanda estera è particolarmente elevata in Germania, la nazione più vulnerabile sotto questo profilo, ma anche in Francia, Italia e Spagna, paesi molto integrati nelle catene globali del valore, incluse quelle intra-europee. La forte diminuzione della fiducia delle imprese frena gli investimenti. Al deterioramento del quadro macroeconomico ha contribuito, nel secondo semestre del 2018, la cessione dell'attività nell'industria automobilistica.

    Le proiezioni di crescita per l'area dell'euro sono state progressivamente riviste al ribasso. Secondo le principali istituzioni internazionali l'espansione del prodotto sarebbe pari a poco più dell'1 per cento quest'anno e attorno all'1,5 nel 2020; non è trascurabile il rischio di un andamento meno favorevole. La debolezza dell'attività produttiva ha inciso sull'inflazione effettiva e su quella attesa nei mercati. A questi sviluppi corrisponde la previsione della Banca centrale europea di una più lenta convergenza della crescita dei prezzi verso l'obiettivo di un livello prossimo al 2 per cento. […]

    In Italia il prodotto è leggermente diminuito nella seconda metà del 2018. Considerando l'intero anno la crescita è stata dello 0,9 per cento, poco più della metà di quella del 2017. Hanno influito negativamente la decelerazione dell'attività in Germania e l'aumento dell'incertezza, che ha risentito dell'acuirsi delle tensioni sui titoli pubblici. Ne è risultato un brusco ridimensionamento dei piani di investimento delle imprese. Anche la spesa delle famiglie ha rallentato, riflettendo il deterioramento delle prospettive economiche e lo stallo dell'occupazione registrato dall'estate.

    Nel settore privato è ripreso l'aumento dei contratti a tempo indeterminato, sospinto dalle trasformazioni di quelli a termine. Su queste ultime hanno influito nella seconda metà dell'anno le limitazioni introdotte dal “decreto dignità”. Insieme con il peggioramento del quadro congiunturale, i nuovi vincoli contribuiscono tuttavia a ridurre la probabilità di rimanere occupati allo scadere di un contratto a termine.

    Nel 2018 l'inflazione è stata pari all'1,2 per cento; la componente di fondo, al netto di prodotti energetici e alimentari, è rimasta al di sotto dell'1 per cento. La dinamica dei prezzi si è mantenuta inferiore a quella dell'area dell'euro; il costo del lavoro e i margini di profitto delle imprese hanno risentito dell'indebolimento dell'economia.

    Anche se nel primo trimestre il prodotto ha segnato un lieve aumento, vi è un consenso di uso intorno a previsioni di una crescita quest'anno ben inferiore a quella, già modesta, del 2018. Il ritorno a tassi di investimento più sostenuti e a una spesa per consumi più robusta richiede che si plachino le tensioni commerciali e che rimangano favorevoli le condizioni dei mercati finanziari globali; richiede, soprattutto, che risalga la fiducia di famiglie e imprese.

    Nelle valutazioni ufficiali l'introduzione del reddito di cittadinanza e le nuove misure in materia pensionistica porterebbero, senza considerare gli effetti restrittivi delle relative coperture, a un aumento del prodotto di circa 0,6 punti percentuali nel complesso del triennio 2019-2021. Nell'ipotesi di spesa integrale dei fondi stanziati, queste valutazioni sono condivisibili. Quelle relative agli effetti sull'occupazione, che sarebbe di mezzo punto percentuale più alta nel 2021, presentano invece ampi margini di incertezza.

    Sulle prospettive di crescita pesano le tensioni sul mercato delle obbligazioni pubbliche italiane. Il rendimento dei titoli decennali è di quasi un punto percentuale più alto dei valori osservati nel mese di aprile dello scorso anno; il differenziale rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi è aumentato di 160 punti base, a circa 280; quello nei confronti dei titoli spagnoli di 140 punti, a 190. I premi sui credit default swaps indicano che sia il rischio di credito sia quello di ridenominazione del debito in una valuta diversa dall'euro continuano a spingere verso l'alto i rendimenti dei titoli di stato italiani; sono rischi strettamente collegati che in situazioni di tensione possono acuirsi, nella percezione dei mercati, in modo repentino.

    Finora la trasmissione del maggiore costo dei titoli pubblici a quello dei prestiti delle banche a imprese e famiglie è stata limitata, grazie all'ampia liquidità e alle migliori condizioni dei bilanci degli intermediari. Cominciano tuttavia a emergere segnali di tensione: secondo i sondaggi, le politiche di offerta dei prestiti, pur rimanendo nel complesso distese, si stanno gradualmente irrigidendo, soprattutto per le piccole imprese, a seguito del deterioramento del quadro macroeconomico e dell'aumento dei costi di provvista delle banche. Si stima che a parità di altre condizioni, e senza tenere conto degli effetti negativi sulla fiducia di famiglie e imprese, rendimenti delle obbligazioni pubbliche di 100 punti base più alti determinino una riduzione del prodotto dello 0,7 per cento nell'arco di tre anni.

    Come riconosciuto anche nel Documento di economia e finanza (Def), il rallentamento congiunturale tende ad accrescere il disavanzo pubblico per l'anno in corso. L'aumento dell'incidenza del debito sul pil potrebbe superare quello indicato nei programmi del governo (pari a quasi mezzo punto percentuale), che scontano incassi da privatizzazioni per circa 18 miliardi (un punto percentuale del prodotto).

    Le difficoltà strutturali dell'economia italiana

    Il nostro paese può fare affidamento su punti di forza in grado di sostenere l'attività in una congiuntura sfavorevole. Nel decennio in corso le esportazioni di beni hanno tenuto il passo della domanda estera, interrompendo la precedente lunga fase di calo della quota di mercato mondiale. Il saldo delle partite correnti è tornato positivo dal 2013 e l'avanzo si attesta ormai da tre anni intorno al 2,5 per cento del pil; la posizione netta sull'estero è pressoché in pareggio. La capacità di competere sui mercati internazionali ha beneficiato della ricomposizione delle esportazioni verso produzioni meno esposte alle pressioni dei paesi emergenti e realizzate da imprese più efficienti e più grandi.

    Alla fine dello scorso anno l'indebitamento delle famiglie era pari al 41 per cento del pil, contro il 61 dell'insieme degli altri paesi dell'area dell'euro; il valore del risparmio accumulato, per oltre il 60 per cento in immobili, superava 8 volte il reddito, a fronte di una stima di 7 per il resto dell'area. Anche il debito delle imprese è contenuto: la sua incidenza sul pil era del 69 per cento, contro il 112 degli altri paesi.

    Nel complesso l'economia fatica però a riprendersi dalla doppia recessione. Il prodotto è ancora di oltre 4 punti percentuali inferiore ai valori del 2007, di 7 in termini pro capite. Il tasso di occupazione, pur risalito al livello del 59 per cento registrato in quell'anno, è inferiore di 9 punti alla media dell'area dell'euro. E' aumentato il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, dove la disoccupazione supera il 18 per cento delle forze di lavoro, contro il 7 nel Centro-Nord; il divario è 4 punti più alto che nel 2007. […]

    Limitarsi alla ricerca di un sollievo congiunturale mediante l'aumento del disavanzo pubblico può rivelarsi poco efficace, addirittura controproducente qualora determini un peggioramento delle condizioni finanziarie e della fiducia delle famiglie e delle imprese. Il rischio di una “espansione restrittiva” non è da sottovalutare; l'effetto espansivo di una manovra di bilancio può essere più che compensato da quello restrittivo legato all'aumento del costo dei finanziamenti per lo stato e per l'economia.

    L'elevato rapporto tra debito pubblico e pil rimane un vincolo stringente; per allentarlo non si può ritardare nel definire una strategia rigorosa e credibile per la sua riduzione nel medio termine. Rispetto al resto dell'area dell'euro, da noi il costo del debito è più elevato, la crescita economica più bassa. Nella media degli ultimi quattro anni l'Italia è l'unico paese, con la Grecia, a presentare un divario positivo e ampio tra queste due variabili, pari a un punto percentuale, un divario dal quale deriva una spinta all'aumento del rapporto tra debito e prodotto pari a 1,3 punti all'anno. Nello stesso periodo la crescita del prodotto ha superato di 0,3 punti percentuali l'onere medio del debito in Francia, di un punto in Spagna. Quando il divario tra costo del debito e crescita economica è positivo occorre un avanzo primario – entrate superiori alle spese al netto di quella per interessi – anche solo per stabilizzare il debito; più ampio è il divario, maggiore è l'avanzo necessario.

    L'aumento di un punto percentuale del tasso di interesse medio all'emissione dei titoli di stato italiani registrato nel corso del 2018 ha fatto seguito a una diminuzione di circa tre punti tra il 2012 e il 2017. Bisogna contrastare il rischio di un ulteriore ampliamento della differenza tra l'onere del debito e il tasso di crescita del prodotto. Solo un'attenta disciplina di bilancio e solide prospettive di ritorno a più alti tassi di crescita dell'economia possono far risalire la fiducia nel mercato dei titoli pubblici e ridurre i rendimenti verso quelli prevalenti nel resto dell'area dell'euro.

    Affinché il bilancio pubblico possa contribuire a un aumento duraturo del tasso di crescita del prodotto servono interventi profondi sulla composizione della spesa e delle entrate. Uno spazio più ampio andrebbe destinato, più che a sussidi e trasferimenti, ai programmi maggiormente in grado di stimolare l'attività economica. Questi andrebbero accompagnati da misure volte al contenimento delle distorsioni indotte dalla tassazione, in particolare nel mercato del lavoro, e a potenziare l'azione di contrasto all'evasione. Aumenti della spesa pubblica o riduzioni di entrate vanno però inseriti in un quadro che ne garantisca la sostenibilità finanziaria e ne precisi intenti, priorità e fonti di finanziamento. La spesa per investimenti pubblici è pari a circa il 2 per cento del pil, un terzo in meno che all'inizio di questo decennio. L'obiettivo di recuperare in tre anni la metà del terreno perduto, con aumenti programmati di spesa dell'ordine del 10 per cento all'anno, presuppone un miglioramento notevole della capacità di passare dall'individuazione delle opere alla loro effettiva realizzazione.