La foresta di Ojmjakon

Benvenuti a Ojmjakon

Costantino della Gherardesca

Una cittadina piagata dalla natura avversa per i suoi abitanti è la più bella del mondo. Come in Italia

Nella propaggine più estrema della Siberia, in una landa desolata nota solo a chi gioca a Risiko, c’è un paesino di appena ottocento abitanti. Si chiama Ojmjakon ed è sorto durante gli anni del terrore staliniano, giusto perché i soldati avevano bisogno di un posto dove riposarsi tra una deportazione e l’altra. La cittadina, infatti, è nata lungo la rotta che collegava i gulag in quella gelida area dimenticata da dio, e la strada che si percorre per raggiungerla è disseminata delle ossa dei poveri cristi morti durante la sua realizzazione. Leggenda vuole che, per ogni metro di strada, ci sia un morto impastato all’asfalto. In pratica, per arrivare nella ridente Ojmjakon, si deve letteralmente passare sopra i resti di almeno un milione di prigionieri politici crollati sotto il gelo.

 

 

Con una temperatura che in inverno raggiunge i -62° C, Ojmjakon è considerato il centro abitato più freddo del nostro pianeta (nella piazza centrale c’è un monumento che ricorda il record storico, raggiunto negli anni Venti, di -71,2° C). Così freddo che la popolazione locale non può nemmeno permettersi di avere acqua corrente, dato che le tubature si congelerebbero all’istante. Ogni casa, infatti, è fornita all’esterno – a fianco della tradizionale catasta di fascine e ceppi di legno – di un’ordinata pila di blocchi di ghiaccio, blocchi che di volta in volta gli abitanti sciolgono in un pentolino per ricavarne acqua per ogni necessità: bere, cucinare, lavarsi, fare pulizie eccetera.

 

Inutile dire che, in assenza di acqua corrente, anche i servizi igienici sono un sogno a occhi aperti. Se vi scappa di andare in bagno nel cuore della notte, vi tocca uscire nel buio della tundra e accovacciarvi sull’intonsa coltre di neve. Gelarsi le chiappe è solo uno dei tanti comfort del vivere a Ojmjakon.

 

Il clima è talmente spietato che, per ordine delle autorità, le scuole sono aperte solo quando la temperatura “sale” a -54° C: sotto questo livello è troppo rischioso uscire di casa, soprattutto per i bambini. C’è da dire, però, che l’evoluzione è venuta incontro ai poveri abitanti della zona i quali, nel corso dei decenni, si sono sempre più accorciati: un fisico tracagnotto espone meno superficie al freddo e disperde meno calore, cosa che permette agli ojmjakoniani di potersi godere al massimo l’impagabile gioia di vivere in un inferno di ghiaccio.

 

Anche gli animali hanno dovuto adattarsi alle esigenze di questo clima così infame. Qui, infatti, l’unica bestia che si può allevare è il cavallo Yakut, una sorta di pony irsuto e tozzo che è alla base dell’alimentazione locale e che ha ormai sviluppato un rapporto di dipendenza dagli esseri umani. A causa delle temperature, la schiena di questi poveri cavalli si gela periodicamente, cosa che costringe i loro allevatori a sbrinarli ogni mese, neanche fossero dei congelatori difettosi.

 

Come se tutte queste sfighe non bastassero, Ojmjakon può anche fregiarsi di estati da incubo, con il clima che passa drasticamente dal freddo polare a 35° C sopra lo zero: uno sbalzo di temperatura che porta con sé disumani livelli di umidità e che attira spaventosi sciami di zanzare. Si racconta che all’epoca dei gulag, quando la temperatura saliva a questi livelli, non era più necessario sprecare pallottole per le esecuzioni: era sufficiente lasciare all’aperto i prigionieri. L’afa e le zanzare avevano la meglio su qualsiasi dissidente.

 

Eppure, come testimonia un breve documentario della tv australiana, c’è chi per nulla al mondo si allontanerebbe da questo disagiato incubo climatico. Si tratta della signora Tamara, nata e cresciuta a Ojmjakon, che davanti all’osservazione dell’intervistatore: “Deve essere moto difficile vivere qui”, ha risposto seraficamente: “Ci sono difficoltà nella vita di chiunque, ma se mi chiedessero di scegliere, anche se potessi vivere in qualsiasi posto del mondo, vivrei qui”.

 

Quella della signora Tamara (che qui chiamo “signora”, ma che probabilmente sarà una trentenne su cui il gelo ha ricamato una vecchiaia precoce), è una storia che mi ha colpito molto. Non fatevi illusioni: non sono rimasto affascinato dall’orgoglioso legame tra questa donna resiliente e la sua terra inospitale. Per quanto l’età mi abbia rammollito, la mia trasformazione in Erri De Luca è ancora molto lontana.

 

No, a colpirmi di questa storia sono i preoccupanti punti di contatto con la nostra italianissima realtà. “Ma quali punti in comune ci sono tra un posto in cui si deve sciogliere la neve sulla stufa per potersi lavare le mutande e il nostro radioso Paese del Sole?”, mi chiederete. Semplice: stando a quello che dicono i sondaggi, siamo una nazione che – nonostante le pezze al culo e una recessione rampante – è piena di gente orgogliosissima dello sfacelo in cui vive, preoccupata non tanto dalla crisi in cui sta sprofondando, ma dalla minaccia di un crudele globalismo orchestrato da francesi senza fede e da tedeschi senza cuore (con la complicità del potentissimo avamposto maltese) che riempiono le nostre strade di stranieri cattivoni che vogliono strappare i crocifissi dalle scuole e imporre il cuscus nelle mense aziendali.

 

Siamo diventati un Paese di Signore Tamare. Anziché guardare a realtà come Singapore, dove i bambini studiano cibernetica e gli anziani vengono assistiti da tecnologie avveniristiche, il nostro spirito nazionale si sta allineando a quello di un paesotto di ottocento anime, sorto lungo un crocevia tra campi di prigionia e in cui gli abitanti non hanno idea, anche grazie ai nostri meravigliosi media, di quel che succede nel resto del mondo che si estende dall’altra parte della tundra.

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