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Il rapporto Istat mostra che le scelte individuali contano più dei miracoli

Redazione

L’Italia allo specchio (basta parlare di euro). Una società statica, in invecchiamento, e piena di percettori di reddito a carico della collettività

L’Istituto nazionale di statistica nel suo rapporto annuale ha prodotto lo sforzo di classificare 25.775.000 famiglie per gruppo sociale, l’Italia ha l’occasione di guardarsi allo specchio. La società italiana risulta statica, in invecchiamento, e piena di percettori di reddito a carico della collettività. La lezione generale che si può trarre dal pionieristico tentativo dell’Istat guidato da Giorgio Alleva è che inseguire la ripresa europea per l’Italia – che è sul crinale – dipende soprattutto dalla revisione delle scelte degli individui e della classe dirigente.

 

L’evidenza statistica dovrebbe bastare a consigliare di smettere di vivere in una perpetua dissonanza cognitiva tra le aspettative e la realtà e agire anziché preferire l’attesa di soluzioni miracolistiche. La doppia recessione iniziata nel 2008 – e superata – ha ridotto il numero di imprese attive in tutti i settori favorendo però un processo di distruzione creatrice che ha selezionato le imprese più solide, con strategie coerenti per navigare i mercati mondiali, ed espellendo quelle incapaci di farlo. La persistente debolezza della domanda interna, con consumi altalenanti, ha lasciato indietro il settore dei servizi, che è diventato preponderante rispetto al manifatturiero, ma che con il manifatturiero non riesce a creare filiere produttive, diversamente dalla Germania. La domanda estera invece resiste e ha rafforzato la posizione finanziaria delle imprese internazionalizzate; calano quelle a rischio mentre aumentano quelle fragili e quelle in salute. I settori automobilistico, petrolifero e chimico-farmaceutico sono quelli che hanno maggiormente contribuito a realizzare il maggiore balzo annuale dell’export sui mercati extra-europei dal 2011 (più 14,5 per cento a marzo). Eppure sono i settori più criticati dalla vulgata dei “No a tutto” che s’ispirano al Movimento 5 stelle o che ne sono propaggine.

  

Dice l’Istat che la diversificazione dei mercati di sbocco va di pari passo con la capacità delle imprese di generare redditività. Pare dunque ancor più assurdo ipotizzare che l’uscita dal blocco europeo produca effetti benefici per l’economia come invece suggeriscono i partiti sovranisti e certi economisti. Nel 2015 la Cina – mercato di sbocco italiano in crescita insieme alla Russia – aveva minacciato di annullare i contratti commerciali in Grecia al solo annuncio di un referendum per un possibile ritorno alla dracma. Anziché produrre ostacoli sarebbe utile correggere gli errori. L’espulsione delle imprese inefficienti e il calo delle chiusure aziendali, tornate ai livelli del 2009 secondo la banca dati Cerved, dovrebbero motivare gli istituti bancari ad abbandonare la cattiva prassi di garantire credito a imprese non competitive anziché a quelle che avrebbero bisogno di investire in innovazione per crescere. Lo suggerisce la Banca centrale europea in un report di febbraio in cui evidenzia il deleterio contributo della cattiva allocazione del credito alla (cronicamente bassa) produttività dell’Italia, paese dell’“euro-periferia” distante dal “nucleo” franco-tedesco.

  

Le prospettive di una ripresa a bassa intensità (negli ultimi due trimestri la crescita del pil è ferma allo 0,2 per cento) suggeriscono la necessità di azioni correttive imponenti che devono essere prodotte dalla politica ma anche dagli individui per affrontare un contesto demografico e sociale desolante e il relativo impatto su consumi, lavoro e spesa pubblica. Le nascite hanno toccato un nuovo minimo a gennaio, sono soltanto 474 mila come non accadeva dal Cinquecento. Sette trentaquattrenni su dieci (8,6 milioni) vivono con i genitori, i quali grosso modo appartengono alla generazione del Boom (il 20 per cento della popolazione è over-65) ed escono dalla vita produttiva. Le famiglie in cui il principale percettore di reddito è un operaio in pensione sono in crescita e rappresentano il secondo gruppo sociale dopo gli impiegati per numero di persone incluse; effetto della transizione dall’industria ai servizi. Tutto fa parte di un più ampio fenomeno: il 45 per cento della popolazione infatti percepisce un reddito da non lavoro, è dunque in pensione, inattivo, o beneficia di ammortizzatori. Non serve un reddito di cittadinanza, ci siamo vicini. Peggiore è l’attesa di una soluzione del genere. L’Istat mostra che l’Italia la fanno anche gli italiani.

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