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in libreria
Nel mondo di Octavio Paz, lo scrittore di cui avevano paura i regimi
Un nuovo volume dei Meridiani Mondadori per riscoprire il critico e poeta premio Nobel nel ’90. Fu controllato quasi tutta la vita adulta dai servizi segreti, e i suoi moniti sono oggi quasi profetici
A cosa serve vincere il premio Nobel se non per ottenere almeno un po’ di spazio nella memoria collettiva? E invece scrollando la lista dei laureati escono fuori nomi che ormai a fatica, o per nulla, troviamo sulle mensole delle Feltrinelli, tra gadget coi gattini e libri su Giulio Cesare col Qr-code in copertina (fatta con l’AI). Claude Simon, Odysseas Elytīs… e anche Octavio Paz. “A chi importa oggi leggere uno dei tre o quattro poeti-critici più importanti del XX secolo? A chi importa leggere le opere dell’intellettuale più influente dell’America latina?”, si chiede Massimo Rizzante nell’introduzione-saggio che apre il volume dei Meridiani Mondadori, “Poesie e prose scelte”, dedicato a Paz e appena uscito. Come spesso accade, i Meridiani riempiono dei vuoti, oltre che abbellire e imborghesire le nostre librerie. Nato nel ’14, Nobel nel ’90, morto nel ’98, Paz ha scritto prosa e poesia, ha insegnato ed è andato in tv. Città del Messico come cornice per una vita di grandissimi periodi in giro, tra il Giappone – dove incontra Mishima – e gli Usa e l’India, un po’ in esilio un po’ in servizio diplomatico. Conosce Neruda, Hemingway, Malraux, Camus. Paz non è stato inserito né dentro quel facilone boom sudamericano (Márquez!), e nemmeno in quel ritorno hipster più recente (Cortázar, Bolaño).
Proviamo quindi a rispondere alla domanda del curatore del volume: perché dovremmo leggere oggi Octavio Paz? Forse a renderlo difficilmente incasellabile è quel misto di romanticismo e illuminismo che torna alla Grecia antica, quel misto di Ortega y Gasset e Pound, o l’idea del ruolo di poeta come “traduttore divino”, di difesa della lingua sopra ogni altra cosa. “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati”, diceva. Difensore di un’idea di rivoluzione resta sconvolto dai Gulag sovietici. Quando Sartre gli dice che gli occidentali non possono criticare i russi perché anche loro hanno avuto i loro campi – cioè le colonie, “campi di concentramento della borghesia” – Paz gli risponde: tu eludi l’unica domanda che dovrebbe interessare a un intellettuale di sinistra, e cioè, “qual è la vera natura sociale e storica del regime sovietico?”. I poeti “stalinisti” come Breton gli danno “lo stesso brivido” di certi passaggi dell’Inferno – “cominciarono in buona fede, senza dubbio”, aggiunge.
La storia di Paz ci riporta a un’epoca in cui i regimi avevano paura dei poeti – lui fu controllato quasi tutta la vita adulta dai servizi segreti – e i suoi moniti sono oggi quasi profetici. L’uomo, soprattutto l’uomo mediterraneo, ha dimenticato “il sole della tragedia”, che è la chiave per la “misura”. Ha sostituito il tragico con il criminale. Ha dimenticato Omero, ha dimenticato i classici – Freud leggeva i classici, dice – ha dimenticato che il poeta è un tramite, che l’ispirazione è una rivelazione sovrannaturale. “Dobbiamo imparare a essere aria, sogno di libertà”, scrive. Paz ricorda che in origine danza, poesia e musica erano la stessa cosa, “un tutto unico”. L’opera poetica nasce dal desiderio di “fondare un regno perenne”. Una sua poesia, Retorica, faceva così: “La bellezza non sta / in ciò che dicono le parole / ma in ciò che, senza dirlo, dicono: / non nudi ma attraverso un velo sono desiderabili i seni”.