Facce dispari
Guri Schwarz: “Il nuovo pericolo è l'antisemitismo dei buoni sentimenti”
Per lo storico, il conflitto in Medio Oriente alimenta una nuova giudeofobia post-nazista, mascherata da antirazzismo e antisionismo. Un fenomeno eterogeneo che mette in discussione il ruolo stesso della Shoah nello spazio pubblico
Il conflitto in Medio Oriente ha alimentato una nuova specie di “antisemitismo dei buoni sentimenti”, frutto di posizioni eterogenee e di una lettura che riduce la realtà a un confronto tra buoni e cattivi, rimettendo in discussione l’efficacia stessa della memoria della Shoah. Ne è convinto Guri Schwarz, professore di Storia contemporanea all’Università di Genova, dove dirige il Centro per la storia del razzismo e dell’antirazzismo nell’Italia contemporanea.
La preoccupa l’ondata di antisemitismo che sta attraversando l’Italia? È prodotta solamente dalla vicenda palestinese?
Un sondaggio Swg del settembre scorso riportava che il 15% degli intervistati ritenesse giustificati atti di violenza contro persone per la loro religione ebraica in relazione al conflitto in Medio Oriente. Direi che la preoccupazione non può non esserci. Sono però necessarie due precisazioni. L’antisemitismo è una tradizione, il fenomeno si è rafforzato ma non è nuovo. Inoltre, l’empatia per la tragedia di Gaza non è di per sé antisemita, anche se può mobilitare codici di matrice antiebraica. Uno dei dati da cui partire è che la maggior parte delle persone che oggi mobilitano retoriche antisemite spesso non si riconosce come tale. Questo anche perché – per effetto di decenni di politiche della memoria – tendiamo a identificare l’antisemitismo solo col razzismo nazista. Invece ci troviamo di fronte a quella che Pierre-André Taguieff ha definito una “nuova giudeofobia”, decisamente post-nazista, che fa perno su un antisionismo radicale, per cui Israele è una incarnazione del male, ovvero del volto peggiore di un Occidente rapace e spietato.
Si tratta di un sistema ideologico coerente?
Per nulla. Vi possono convergere parti della destra estrema, componenti della sinistra anticapitalista e elementi dei mondi islamici.
Quali sono le sue caratteristiche?
Prima di tutto l’antirazzismo: coloro che si identificano nella causa considerano Israele e chi si associa a esso come i veri razzisti; in secondo luogo una visione del mondo cospirazionista; e poi uno sguardo decoloniale che appiattisce la lettura del reale su uno schema binario (oppressori/vittime e bianchi/non bianchi). La sociologa Eva Illouz ha parlato di “odio virtuoso”: chi vi partecipa si sente dalla parte giusta poiché prende posizione non contro un governo, e nemmeno contro uno stato o una politica, ma contro una incarnazione del male assoluto. Quest’ultima categoria ci riporta ancora al nazismo. Ciò a cui assistiamo è per alcuni versi una crisi di memoria. Le rappresentazioni di ebrei e nazisti che hanno dominato l’immaginario collettivo per decenni entrano in risonanza con la copertura mediatica del conflitto a Gaza. La retorica dei “nazisionisti”, l’immagine perturbante di quelle che sono percepite come vittime che si fanno carnefici, scuote le coscienze. Quelle formule non rivelano la realtà del conflitto, piuttosto dicono qualcosa di noi e dei nostri schemi concettuali. Contribuiscono a creare un impasto in cui gli ebrei di oggi e di ieri, quelli reali e quelli immaginari, della diaspora e gli israeliani (che non sono tutti ebrei) si confondono. E dalla critica, drammaticamente doverosa, alle politiche di un governo, si può scivolare rapidamente agli anatemi contro tutto il mondo ebraico.
Perché su alcuni episodi di violenza la sinistra italiana appare tiepida o divisa nella condanna?
Non credo che la sinistra sia tiepida nel condannare la violenza. C’è piuttosto una difficoltà di elaborazione che deriva dalle traslazioni simboliche evocate sopra. Un quadro dell’immaginario costruito sull’empatia per delle vittime idealizzate esplode quando queste sembrano non essere più tali. È anche l’esito della propensione, che non è solo della sinistra, a sostituire la politica con la morale: non si riconoscono più gli attori sociali, ciascuno con le sue specificità e interessi, ma si trasformano i soggetti in figurine bidimensionali collocate in un teatro del male.
Cosa si può fare per spegnere il rigurgito di antisemitismo? Cosa non si è fatto?L’antisemitismo e il razzismo non si battono con le norme repressive. Condivido la posizione della storica Deborah Lipstadt, inviato speciale dell’amministrazione Biden per il monitoraggio dell’antisemitismo, quando ha detto di “tremare” all’idea che spetti ai politici definire cosa si può dire e cosa non si può dire. Per un’ecologia del dibattito, sarebbe utile una maggiore consapevolezza circa la genesi del sistema attuale. Dagli anni Novanta le istituzioni europee e quelle nazionali portano avanti due pratiche intrecciate nel segno dell’antirazzismo: introducono politiche memoriali e norme repressive. Pedagogia e sanzioni sono due parti dello stesso progetto volto a dare un ancoraggio alle società dopo la fine della guerra fredda e a tutelare la democrazia. La definizione di antisemitismo dell’IHRA, l’International Holocaust Remembrance Alliance, di cui si discute ora, nasce proprio da quell’intreccio di iniziative che all’epoca furono prese dalle sinistre, e oggi vengono strumentalizzate in un contesto diverso. Basti ricordare la conferenza di Stoccolma del 2000, che contribuì alla genesi dei Giorni della Memoria e delle nuove iniziative di monitoraggio dell’antisemitismo e del razzismo. I protagonisti di quell’incontro intergovernativo furono D’Alema, Havel, Jospin, Shröeder, Clinton. Da lì sarebbe nata poi l’IHRA. Rileggersi i discorsi di allora e il documento finale è istruttivo: ruotano intorno all’idea che la memoria della Shoah possa essere la chiave per lottare contro il razzismo. A distanza di venticinque anni è il caso di interrogarsi sull’efficacia e la tenuta di quella visione.