Colum McCann (foto Epa, via Ansa)

intervista

La democrazia del racconto in un mondo regolato dalle storie. Intervista a Colum McCann

Antonio Monda 

Lo scrivere e la lezione del padre giornalista. L’Irlanda, i cento mestieri, il successo. Parla l’autore di “Questo bacio vada al mondo intero” 

Quando ha iniziato la sua carriera come giornalista, Colum McCann non ha ascoltato il padre Sean, che avrebbe voluto per lui qualcosa di diverso. Eppure era stato proprio il padre a introdurlo al mondo dell’informazione, portandolo con sé all’Evening Press di Dublino, dove lavorava come caporedattore centrale. Qualche anno dopo, quando lo vide recarsi ovunque con la sua bicicletta per scrivere cronache calcistiche per l’Irish Press, capì che non si trattava di un’infatuazione giovanile: aveva imparato da tempo che l’abnegazione è una delle principali virtù del figlio. “E’ stata un’esperienza estremamente formativa” racconta oggi lo scrittore, prendendo le distanze dal mondo letterario che considera il giornalismo come qualcosa di linguisticamente impuro e artisticamente pericoloso. E’ un uomo di sessant’anni pieno di energia e passione, pronto a mettere a repentaglio la propria incolumità per combattere un’ingiustizia: nell’estate del 2014 è finito in ospedale con una mascella fracassata per aver tentato di difendere una donna aggredita dal compagno. Tuttavia, a incontrarlo, quello che colpisce maggiormente è la contagiosa curiosità intellettuale, che lo ha portato a tuffarsi in avventure di ogni tipo mentre cominciava a scrivere i primi libri: ha vissuto all’interno della comunità Amish, poi con quella Rom e quindi con i nativi americani in New Mexico, prima di trasferirsi per quasi due anni in Giappone in compagnia della moglie Allison. Il tutto mantenendosi come insegnante, tassista, riparatore di biciclette, tutore di ragazzi in riformatorio, guida in territori selvaggi e manovale per barriere anti-incendio in Idaho. Il successo letterario è arrivato con il National Book Award per Let the great world spin, al quale in Italia è stato dato il titolo dolciastro Questo bacio vada al mondo intero, che non ha cambiato nulla nella sua esistenza: oltre ad attività filantropiche e il progetto Narrative4, nato per creare una comunità letteraria intorno al potere del racconto e “sconfiggere il cinismo” del mondo intellettuale, ha scritto testi teatrali, la sceneggiatura di un cortometraggio candidato all’Oscar e persino un balletto. Si schermisce quando gli elenco tutti questi progetti, e scuote la testa quando chiedo come sia diventato uno scrittore.

   

“E chi lo sa come si diventa uno scrittore…”, mi dice sorridendo. “Ci innamoriamo del linguaggio e dell’idea di raccontare storie, e a un certo punto non possiamo più resistere all’idea di comunicare e condividere. Sin da piccolo sono sempre stato interessato agli altri, e mi sono reso conto che il mondo è pieno di storie di altre persone, ed è proprio questo che lo rende prezioso: siamo molto più di noi stessi. Quando da adolescente ho cominciato a lavorare come reporter, ho scoperto un mondo regolato dalle storie. Poi mi sono trasferito negli Stati Uniti e per due anni ho girato l’intero paese in bicicletta: ho imparato ad ascoltare e soprattutto ho appreso come entrare in contatto con le storie, che sono il collante dell’istinto umano”.

 

Ho un ricordo bellissimo di suo padre, ex giocatore di calcio, scrittore e coltivatore di rose: qual è la più grande lezione che le ha insegnato?  

Per me è stato un modello. Ha scritto 27 libri, e i miei preferiti sono i sette per i bambini sul calcio. Quando ero piccolo acconsentiva perfino che io facessi un po’ di editing. La sua più grande lezione è stata che il potere del linguaggio può dare forma al mondo. Era un uomo affascinante: un atleta, un giornalista, un orticoltore, un appassionato di vino e un raccontatore di storie. E’ morto da 12 anni, ma per me ancora esiste nel mondo.

   

Qual è stata invece la lezione più importante che ha ricevuto da sua madre?

L’abilità di ascoltare. La mia scuola era vicino a dove abitavamo così a pranzo scappavo a casa e lei mi preparava da mangiare e ascoltava le mie storie. Aveva la pazienza e la gentilezza che ha ancora a 98 anni. Vive a Dublino e non ha perso nulla della sua attitudine: continua ad ascoltare ed è meravigliosa. 

   

Lei ha sposato una donna di origine italiana e avete tre figli nati in America. Come vi sentite rispetto al fatto che i vostri figli sono americani?

Con l’attuale situazione politica non vogliono essere americani, preferiscono essere irlandesi o italiani. Tuttavia sono americani e quindi non si tirano indietro e fanno in modo che la loro voce sia ascoltata. Avresti dovuto sentire la felicità che sprizzava in casa la sera in cui Zohran Mamdani è stato eletto. C’era fiducia e speranza: è un momento duro per chi è americano, e quella pagnotta rinsecchita alla Casa Bianca lo sta rendendo arduo per tutti. Ma anche questo cambierà, la storia va avanti in maniera circolare: potrà essere anche la fine di un impero, ma qualcosa di nuovo sorgerà. Dateci molti altri Mamdani, per favore. 

 

Quanto è importante per lei la tradizione?

Io ho rispetto per la tradizione, ma non posso dire di osservarla troppo. Ne capisco il valore e l’importanza che ha per tenerci insieme, ma amo l’idea che ogni giorno si svolga in un modo diverso. Essere troppo tradizionali significa non muoversi abbastanza, non cambiare e non crescere. Devo aggiungere però di essermi sono reso conto che la mia risposta è leggermente ipocrita, perché passerò il Natale e il Capodanno con tutti i miei per celebrare il vecchio e il nuovo.

 

Qual è la sua spiegazione al fatto che l’Irlanda è una terra di scrittori? 

Lo scrittore irlandese ha sempre avuto una casa peculiare nel mondo. Per una combinazione di fattori e strategie – andare in esilio, rivoluzionare il linguaggio, cambiare la forma del racconto – è rimasto sempre un provocatore. Essere un artista in una nazione colonizzata è sempre stato di aiuto: abbiamo preso il linguaggio che siamo stati costretti a usare e l’abbiamo cambiato in un gioioso Hiberno-Inglese: i nostri scrittori sono stati sempre entusiasti di trovarsi in un’ambiguità linguistica. La lingua inglese è stata un’arma che i nostri colonizzatori ci hanno imposto, e noi gliel’abbiamo restituita in maniera sferzante. Ovviamente non siamo gli unici a essersi comportati così, ad esempio, gli indiani hanno avuto un enorme successo nell’utilizzare il linguaggio come arma. I britannici ancora tendono a considerare gli irlandesi come dolorosamente poetici o insopportabilmente comici, ma non hanno Joyce o Beckett o Wilde o Yeats o anche Flann O’Brien. La domanda riguarda ovviamente il futuro, tuttavia, gli irlandesi non hanno le risposte e continuano a cambiare le domande.

 

Una volta si è definito un cattolico collassato: qual è la sua posizione sulla fede e la religione?

Ho grande fiducia nella gente. E ho un grande fiducia nell’idea che siamo tutti connessi l’uno con l’altro in maniera profonda. Sebbene non mi allinei con le istituzioni, sono con coloro che credono nella giustizia, l’uguaglianza e la dignità umana. Se questo avviene all’interno di una chiesa, mi allineo con essa. Ma credo che possa avvenire anche al di fuori della Chiesa. 

 

Secondo lei, qual è l’elemento più rivoluzionario del cattolicesimo?

Io mi trovo molto affine con la teologia della liberazione. Ma non credo che essa debba essere considerata rivoluzionaria, ma piuttosto qualcosa di ordinario: in realtà dovrebbe essere il più elementare punto di partenza.

 

Lei ha avuto l’opportunità di incontrare sia Papa Francesco che Papa Leone. Che impressione ha avuto dei due pontefici?

Sono stati tra i momenti più straordinari della mia vita. Non ho mai visto qualcuno ascoltare in maniera così pura e profonda come Papa Francesco. Sembrava che permettesse al linguaggio degli altri di entrare dentro di lui, ma dovrei dire che dava l’impressione di dare quel permesso all’intera vita degli altri. Guardarlo era una cosa straordinariamente commovente: ascoltava non solo con i suoi occhi, ma con tutto sé stesso. E comprendeva non solo le storie che ascoltava, ma l’intera vita di coloro che le raccontavano: è una cosa così rara e bella. Posso dire lo stesso di Papa Leone. Che gioia è stato incontrarlo! Ascoltava anche lui nella maniera più intensa e profonda. Raramente il termine “ordinario” è usato per lodare qualcuno, ma in questo caso lo voglio usare come massimo elogio: Papa Leone mi è sembrato così potentemente ordinario. Il potere non gli interessa, quello che gli sta a cuore è la giustizia: forse il termine ordinario in realtà suggerisce la parola “democratico” e perfino “sacro”.

 

Quali sono i libri che ha letto quando andavo a scuola che hanno tuttora un’importanza per lei?

A dire il vero tutti. Ogni libro che ho letto ha contribuito al mondo nel quale sono fortunato di vivere.

 

Ce n’è uno fondamentale per la sua formazione?

L’Ulisse di Joyce, è il testo per me più prezioso. E’ un compendio dell’esperienza umana, e riesce a essere anche divertente, irriverente e straordinariamente avvincente.

   

Esiste un libro che ha amato quando l’ha letto e ora non apprezza più?
Ho un po’ di paura di rileggere "Sulla Strada" di Kerouac. Temo di non amarlo come l’ho amato quando l’ho letto la prima volta.

 

Capovolgiamo la domanda: esiste un libro che non aveva apprezzato e che adesso ama?

So che potrà sembrare decisamente eretico, ma per molto tempo non avevo interesse nella Bibbia. Ora più passa il tempo e più lo trovo coinvolgente. E’ uno dei grandi testi della storia che parla dell’oggi perché è eterno, oltre a essere un affascinante esperimento letterario.

 

Quando scrive segue una routine?

Magari l’avessi. Il mio sogno è scrivere tutto il giorno. Cominciare alle quattro del mattino e continuare finché non collasso per stanchezza. Era quello che facevo un tempo, specialmente da giovane, ma non ho più questa opportunità.

 

Cosa le manca dell’Irlanda? 

Non mi manca, perché la chiamo ancora casa. E ci vado almeno sei volte l’anno, quindi sono una persona che appartiene a due diverse nazioni.

 

C’è qualcosa che è felice di aver perso e che non le manca affatto?

La mentalità piccola e provinciale che purtroppo a volte l’Irlanda mostra.

   

Nel suo libro "Apeiregon" lei ha narrato le storie di un israeliano e un palestinese che hanno perso le rispettive figlie, ma hanno la forza e il coraggio di allearsi perché il conflitto finisca: un grande segno di speranza che purtroppo sembra non sia ascoltato. 

Io non credo che non venga ascoltato. Può darsi che non lo sia nel modo in cui vorrei fosse ascoltato, ma il messaggio esiste e penso sia profondo: non dobbiamo amare l’altro, in realtà non dobbiamo neanche piacerci, ma dobbiamo, dobbiamo, dobbiamo capire l’altro, altrimenti siamo spacciati.

 

Come ha visto cambiare l’America dall’inizio della seconda amministrazione Trump? 

E’ molto difficile trovare le parole per descrivere una sensazione così tragica e disgustosa. E’ come un’infinita bambola matryoshka ripiena di disastri.

   

Crede che sia a repentaglio il concetto della terra dei liberi di cui parla l’inno?

Assolutamente sì. Ma è da molto tempo che l’America, e purtroppo anche il resto del mondo, non si sono neanche avvicinati al concetto di “libero”. 

   

Come europeo, qual è il suo giudizio sulle recenti posizioni di Trump, e in passato anche di Vance, sull’irrilevanza del nostro continente?

Sono parole di uomini patetici. In realtà, penso che parlino di loro stessi e della rispettiva rabbia che provano nell’essere sempre più irrilevanti. In altre parole, stanno parlando allo specchio: sono piccoli uomini spaventati, che devono lanciare insulti agli altri per allontanare da sé stessi la verità. 

   

I suoi libri hanno argomenti estremamente eclettici: da Rudolph Nureyev (Dancer) alla cultura Rom (Zoli), dal conflitto in Medio Oriente (Apeiregon) al processo di pace in Nord Irlanda (Transatlantic) al gesto funambolico di Pascal Petit che camminò su una fune tesa tra le due torri gemelle (Questo bacio vada al mondo intero). C’è un tema ricorrente? E come sceglie le storie che vuole raccontare? 

Scrivo di quello che mi ossessiona, che non riesco a scuotermi di dosso e che non posso evitare. E scrivo su quello che secondo me il mondo sollecita in quel preciso momento. 

   

In "American Mother", lei ha scritto di Diane Foley, il cui figlio James è stato decapitato dall’Isis mentre lavorava come giornalista in Syria. 

Un giorno mi sono imbattuto in una foto di James Foley che leggeva Let the Great World Spin, e sono rimasto senza parole, ero assolutamente shockato: la foto circolava nei giorni nei quali è stato ucciso. 

 

Qual è il più grande messaggio che hai imparato dalla madre Diane?

Il potere del perdono. E la necessità di guardare anche dall’altra parte.

   

Lei ha dichiarato di credere nella “democrazia del racconto”. Cosa intende?

Alla fine tutti noi abbiamo le nostre storie. Superano le barriere, i confini, i generi, l’economia, la nazionalità. La distanza più breve tra due persone è una storia. Non importa chi, cosa, dove, quando, come e perché.

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