Nan Goldin, The Hug, New York City, 1980 © Nan Goldin - Courtesy Gagosian 

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Di baci e lividi. Le anime che Nan Goldin ha amato e ritratto

Luca Fiore

Alla Hangar Bicocca di Milano, la più completa retrospettiva dedicata all’artista americana rivela la forza inesauribile dei suoi slideshow. Libertà e dannazione, squallore e tenerezza.

In uno strepitoso articolo del New Yorker del 1998, Peter Schjeldahl scriveva: “Nan Goldin è due persone: una sentimentale affamata d’affetto e un’esteta adamantina, che si fondono per farne una delle migliori fotografe d’arte degli ultimi vent’anni. La sentimentale inciampa nelle emozioni: ama teneramente l’umanità in generale mentre si innamora perdutamente di una monotona successione di esseri umani in particolare, ciascuno puntualmente sbagliato. L’esteta, verrebbe quasi da credere, butterebbe fuori da un’auto in corsa persino la propria nonna se questo potesse regalarle uno scorcio di perfezione”. A Schjeldahl va invidiata la lucidità critica, più che l’empatia. Infatti prosegue: “Sentimentali ed esteti sono nati per detestarsi. La sentimentale rifugge le visioni di armonia perfetta dell’esteta, che in teoria servono il cuore umano mentre lo usano con freddo calcolo, e forse persino lo logorano. L’esteta infliggerebbe volentieri alla sentimentale la tortura più atroce per il peccato di presumere di coltivare la ‘creatività’. I due temperamenti sono fuoco e ghiaccio”.

 

Nan Goldin The paw, eclipse 2024 © Nan Goldin Courtesy Gagosian

“This Will Not End Well”, al Pirelli Hangar Bicocca di Milano (visitabile fino al 15 febbraio), è l’occasione perfetta per verificare quanto Schjeldahl avesse ragione. Si tratta, oltre che della più completa retrospettiva dell’artista nata a Washington nel 1953, di un’occasione unica di confrontarsi con il suo lavoro nel suo formato originale, che è quello dello slideshow. Libri, cataloghi, fotografie elegantemente appese in white cube, non potrebbero in nessun modo replicare l’esperienza di assistere in una stanza buia al susseguirsi di immagini proiettate a tutta parete, accompagnate da una colonna sonora composta, di solito, da brani di musica celeberrima. La mostra di Milano, già presentata al Moderna Museet di Stoccolma nel 2022, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 2023, alla Neue Nationalgalerie di Berlino nel 2024 e che l’anno prossimo atterrerà al Gran Palais Rmn di Parigi, presenta otto proiezioni la cui durata varia dai 15 ai 42 minuti, quasi tre ore e mezza in tutto. Se la materia su cui, in un modo o nell’altro, verte tutta l’opera di Goldin non lo sconsigliasse, diremmo che si rischia l’overdose. Ma è un rischio che vale la pena correre con le opportune precauzioni: l’ingresso è gratuito e si può tornare più di una volta.

 

Nan Goldin Young Love, 2024 © Nan Goldin Courtesy Gagosian

La fama di Nan Goldin è legata in modo imprescindibile a “The Ballad of Sexual Dependency”: circa settecento ritratti di persone della cerchia più stretta che l’artista frequentava nella sua bohème a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Boston, Provincetown, Berlino, Londra, ma soprattutto la New York della Bowery. Amici, amanti, star della scena underground dell’epoca: tutti vengono fotografati con cruda tenerezza. Feste, momenti di relax, intimità dentro e fuori le camere da letto quasi sempre squallide. I baci, gli abbracci, il sesso e anche i lividi. Una fisicità ostentata in tutte le sue forme, compreso il mondo ambiguo ed esuberante delle drag queen, ritratto senza paura negli anni immediatamente successivi alle rivolte di Stonewall. Le diapositive, dai colori saturi e densi, si susseguono a mitraglia, senza che l’occhio possa soffermarsi sui particolari. Uno schiaffo dietro l’altro. Quello musicale non è un sottofondo, ma una colonna sonora che interagisce, qui in modo drammatico, là in maniera ironica, con il flusso di immagini: “I’ll be your mirror” dei Velvet Underground, “She hits back” di Yoko Ono, “Sweet blood call” di Louisiana Red. Il riferimento alla musica, in realtà, è già contenuto nel titolo, rubato a quello di un’aria de “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht, posta proprio all’inizio della playlist.

Quello dello slideshow è il modo che da subito Goldin aveva scelto, facendo di necessità virtù – le diapositive costavano meno – per mostrare il proprio lavoro nei club di Manhattan, dove inizialmente il pubblico coincideva con le persone ritratte. A ogni proiezione la sequenza si modificava e arricchiva, così come la musica. La “ballata” esce per la prima volta dal circuito underground quando viene mostrata alla Biennale del Whitney nel 1985 e poi pubblicata l’anno dopo, in versione di libro, da Aperture. La colonna sonora assume la composizione attuale nel 1987, ma la sequenza di diapositive, concepita come diario visivo, continua a mutare. Col passare del tempo il racconto della vita di chi vive “on the wild side”, come canterebbe Lou Reed, deve fare i conti con il moltiplicarsi dei lutti legati all’epidemia di HIV. Quelle stesse bellezze pure e maledette insieme, ritratte solo pochi anni prima, ora sono volti inespressivi dentro una bara. Così la “Ballata”, nella sua versione definitiva, si conclude con la fotografia di un graffito di due scheletri che si abbracciano – Eros e Thanatos –, diventando una lunga elegia per gli amici e amanti scomparsi. Nei titoli di coda ne vengono nominati trenta.

 

Nan Goldin Picnic on the Esplanade, Boston, 1973 © Nan Goldin Courtesy Gagosian

Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che il valore di tale opera epica e lirica insieme si risolva nello “storytelling”. Le radici dell’arte di Nan Goldin affondano nella profondità di alcuni maestri della fotografia americana. Come scrive ancora Schjeldahl: “Walker Evans, Robert Frank e Diane Arbus furono, in misura sempre maggiore, fotografi-laureati della voragine interiore – il desiderare, la mancanza stessa – che definisce la profondità dell’anima americana. Si pensi al genere più vasto dei simboli artistici della nostra nazione: le malinconie della città, della periferia, della cittadina e della fattoria; la “solitude” (non la “loneliness”) di Edward Hopper; i vuoti corali di Jackson Pollock; gli spazi infiniti delle strade, delle praterie, dei fiumi e dell’oceano; il tormento dei blues; la luce sull’acqua da East Egg; la bianchezza della Balena”. Ma nell’elenco dei santi patroni dell’arte americana, il critico del New Yorker si dimentica di inserire un nome certamente minore, ma senza il quale non si potrebbe comprendere la direzione intrapresa da Goldin: Larry Clark, fotografo e regista nato nel 1943 e che nel 1971 ha pubblicato un photobook-scandalo intitolato “Tulsa”. Spiega l’autore: “Sono nato a Tulsa, in Oklahoma, nel 1943. Quando avevo sedici anni ho iniziato a farmi di anfetamine. Mi sono fatto con i miei amici ogni giorno per tre anni, poi ho lasciato la città, ma negli anni ci sono tornato. Una volta che l’ago entra, non esce mai più”. Il libro è la raccolta delle immagini che Clark ha realizzato in quegli anni in cui bellezza e dannazione si mescolano in un elisir tanto inebriante quanto tossico. A differenza di Evans, Frank e Arbus, che osservano l’abisso dall’alto, Clark e Goldin ce lo mostrano mentre vi precipitano dentro.

 

Nan Goldin The crowd, Paternò, 2004 © Nan Goldin Courtesy Gagosian 

Questa genealogia artistica aiuta a capire meglio il filo su cui corre “This Will Not End Well”. L’impressione che si ha alla fine della visione delle otto proiezioni è che “The Ballad of Sexual Dependency” non sia tanto la prima e la meglio riuscita prova dell’artista, ma piuttosto l’inizio di un lavoro mai concluso, che ha prodotto, per gemmazione, tutte le altre opere. Non solo perché vediamo quanto l’autrice attinga, per nutrire le altre sequenze, dal corpus della Ballata, ma perché ciascuno slideshow non è altro che lo svolgimento, in profondità, di uno dei tanti temi già presenti in quella sequenza-guida. Si prenda “The Other Side” (1992-2021), omaggio alle amiche e agli amici transgender con cui Goldin ha abitato all’inizio degli anni Settanta e che, per primi, aveva iniziato a ritrarre e che, per forza di cose, sono al centro anche della Ballata. Lo stesso vale per “Fire Leap” (2010-2022), tenerissima carrellata di bambini, nella quale compaiono i figliocci dell’artista e i figli e le figlie di amici. Le donne incinte (nude, of course), i parti, gli allattamenti, i giochi, gli sguardi che scorrono sullo schermo accompagnati da un coro di voci bianche che canta “Space Oddity” di David Bowie. Lampi di innocenza nel turbine di una vita tanto bella quanto maledetta. 

L’epidemia di HIV non è l’unica che Goldin ha attraversato. C’è stata quella degli oppioidi, nella trappola dei quali è caduta in prima persona. La vicenda, insieme alla carriera parallela di militante prima per i diritti dei malati di AIDS e poi nella campagna contro i finanziamenti alle istituzioni d’arte della famiglia Sackler, responsabile della diffusione del famigerato OxyContin, è stata ben raccontata in “All the Beauty and the Bloodshed”, film di Laura Poitras, Leone d’oro a Venezia nel 2022 e candidato all’Oscar l’anno successivo. “Memory Lost” (2019-2021) è il tentativo di rendere per immagini l’esperienza allucinata che si attraversa nella dipendenza da sostanze. Le fotografie sono sistematicamente fuori fuoco. La claustrofobia degli interni si alterna ad albe e tramonti accesissimi. Si sentono dialoghi telefonici. Musica sghemba. L’attivismo politico che ha segnato la carriera di Goldin trova oggi espressione anche nel sostegno alla causa palestinese, a cui fa riferimento esplicito al termine di ciascuna proiezione.

 

B_Heart-shaped bruise, New York City 1980 Nan Goldin 

“You never did anything wrong” (2024) è invece un film, girato in Super 8 e 16mm, dedicato agli animali. Il titolo è tratto da un’epigrafe di un animale domestico trovata e filmata dall’artista in Portogallo. E’ l’opera più astratta e lirica di Goldin che, per una volta, mette un piede fuori dal suo campo da gioco solito, che è l’autobiografia. “Stendhal Syndrome” (2024) è l’evoluzione di un lavoro iniziato al museo del Louvre, in cui ha iniziato ad accostare fotografie delle opere d’arte a quelle provenienti dal proprio archivio, che rappresentano parenti e amici. Contemporaneamente Goldin mostra la somiglianza, a volte davvero straniante, tra l’arte e la vita e racconta, a suo modo, le storie tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, di Pigmalione, Cupido, Narciso, Diana, Ermafrodito e Orfeo. Un po’ ripasso di cultura classica e di storia dell’arte, un po’ memento del rapporto biunivoco tra arte e vita.

La mostra si conclude nel grande spazio del “cubo” del Pirelli Hangar Bicocca, alto oltre 20 metri, che l’artista americana usa per ospitare “Sisters, Saints, Sibyls” (2002-2022), un’installazione a tre canali video che è un’ode alla sorella maggiore Barbara, morta suicida a 18 anni. Barbara è anche la persona a cui era dedicata, già dagli anni Ottanta, “The Ballad of Sexual Dependency”. Goldin ritorna, di nuovo, come in un’infinita spirale attorno al nodo indissolubile che le stringe l’animo da tutta la vita e che, da sempre, genera l’energia creativa e autodistruttiva che si squaderna in questa grande mostra. Un atto d’accusa verso le responsabilità dei genitori, senza che la sentenza di condanna venga pronunciata, ma che viene lasciata aleggiare nello spazio dalle pareti di cemento armato. Uno spazio al centro del quale viene esposta una scultura che rappresenta l’artista sdraiata nel suo letto, immersa in un sogno o in un incubo a occhi aperti. Il montaggio è calcolato ed efficace e i 35 minuti del racconto per immagini e parole scorrono fluidi, anche se dolenti. Ogni tanto, Goldin cerca l’affondo per crepare anche il più infrangibile cuore di pietra chiedendo aiuto a Johnny Cash, la cui  voce accompagna le immagini di autolesionismo: “I hurt myself today / To see if I still feel. / I focus on the pain / The only thing that’s real”.

Nel finale di “All the Beauty and the Bloodshed” viene mostrata un’intervista che Nan Goldin aveva realizzato ai genitori prima che morissero. A un certo punto, la madre menziona un biglietto trovato tra gli oggetti di Barbara, la figlia suicida, che riportava un brano, scritto a macchina, di “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad: “Che cosa buffa è la vita, questo misterioso espediente della logica spietata per ottenere un futile scopo. Il massimo che ci si possa attendere da essa è una certa conoscenza di se stessi, che arriva troppo tardi, una messe di inestinguibili rimpianti”. E lì, anche alla luce della mostra di Milano, viene il dubbio che in quell’appunto non sia contenuto solo il testamento di Barbara, ma tutta la poetica di sua sorella Nan. Il rimpianto appartiene ai sopravvissuti e Goldin è una sopravvissuta a due tempeste perfette, l’AIDS e l’OxyContin. Se dovessimo dire che cosa l’abbia tenuta in vita, oltre che le energie misteriose dell’universo, verrebbe da dire: quella piccola folla di volti e affetti di cui si è circondata e che lei non ha mai smesso di ritrarre. Come se l’arte, insieme alla capacità di attingere alla conoscenza di se stessi, avesse il potere di affermare un’illogica positività della vita (“Immagini malgrado tutto”, direbbe Georges Didi-Huberman). La vita che, nella sua imprendibile interezza, è il nucleo incandescente che infiamma tutta l’opera di Nan Goldin. Questo è forse il motivo per cui ci conquista anche nella sua durezza. Eppure aleggia, impossibile da ignorare, quel titolo intriso di humor nero: “This will not end well”.

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