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Studio del nemico e arte della dissimulazione. Venezia salvata dalle spie
Così la Serenissima affrontò le potenze pronte a schiacciarla. La città attraeva denari e intellettuali, profughi di ogni tipo. Aveva, grazie ai suoi ambasciatori, la più formidabile rete di intelligence dell’epoca. All’occorrenza, ordivano anche assassinii mirati. Roba da fare invidia al Mossad
Sulla scena internazionale il momento era molto delicato. Era “a mess”, un casino, per dirla con Trump. E’ sempre molto delicato per chi deve destreggiarsi tra litiganti più grandi e grossi. Una guerra, partita da un conflitto apparentemente locale e circoscritto, si era rapidamente trasformata in guerra che devastava tutta l’Europa. Anziché concludersi rapidamente, come molti avevano pensato, si sarebbe protratta per trenta lunghi anni. Per concludersi, infine, come tutte le guerre, con un compromesso. Il conflitto era costato perdite umane, distruzioni, somme enormi. La pressione fiscale per finanziarlo avrebbe fatto esplodere ovunque sanguinose rivolte popolari, separatiste e sovraniste.
Per sopravvivere, era essenziale essere informati delle intenzioni degli altri. E dissimulare le proprie. Venezia fu maestra in questo. Se la cavò, riuscì a non venire schiacciata dai colossi che la circondavano, perché navigava e mercanteggiava. Perché attraeva denari e intellettuali, profughi di ogni tipo (persino gli ebrei, persino i pirati musulmani in pensione…). Perché era il posto dove si poteva stampare di tutto. Ma soprattutto perché spiava. Aveva, grazie ai suoi ambasciatori, la più formidabile rete di intelligence dell’epoca. All’occorrenza, ordivano anche assassinii mirati. Roba da fare invidia al Mossad. Venezia nazione di spie, navigatori, imprenditori, editori, mediatori internazionali, mi verrebbe da parafrasare. Non fosse che l’originale, scolpito sulla facciata del Colosseo quadrato all’Eur (“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”), viene da un discorso di Benito Mussolini del 1935.
Ce ne dà uno squarcio il libro che Andrea di Robilant ha dedicato a Giovan Battista Ramusio, formidabile raccoglitore di manoscritti, diari, resoconti di viaggi in un’epoca che, dopo la scoperta delle Americhe, si apriva a tutto il mondo (L’Atlante di Ramusio. Vita di un geografo veneziano, Corbaccio 2025). Di comparabile allo sforzo enciclopedico del Ramusio c’è solo la raccolta The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and Discoveries of the English Nation di Richard Hakluy. Di comparabile alla competenza degli agenti di Venezia c’era solo quella dei missionari gesuiti. Venezia, che a differenza dell’Inghilterra, degli spagnoli e dei portoghesi, navigava e commerciava solo nel Mediterraneo, era svantaggiata. Ma si dava un gran da fare a scoprire alternative. Pensavano in grande, pensavano globale. Per contrastare l’espansione portoghese, avevano rispolverato l’idea di costruire un canale che collegasse il Mediterraneo al mar Rosso (con molti secoli di anticipo sul canale di Suez). Incaricarono i propri emissari di attirare a Venezia Sebastiano Caboto, per fargli sputare fuori i segreti della rotta alternativa a nord ovest per raggiungere la Cina, che era sfuggita a suo padre Giovanni. Nessuno allora poteva immaginare che il mitico passaggio tra i ghiacci sarebbe diventato attuale nel nostro millennio, e avrebbe generato, tra l’altro, le pretese di Trump sul Canada e sulla Groenlandia.
E così via, un’illuminazione, una suggestione, un nome, un fatto poco conosciuto (forse troppi e troppo insieme) a ogni pagina del libro. L’autore lo avevo conosciuto nel secolo scorso a Washington, lui allora era un giovanissimo corrispondente destinato a una brillante carriera nei giornali, carriera cui aveva rinunciato per darsi, invece, alla scrittura. Tra le moltissime “spie” di Venezia sguinzagliate a caccia di informazioni, notizie, pettegolezzi, analisi, c’era lo stesso Ramusio. Faceva parte del cursus honorum di un nobile veneziano. Senatore, alto funzionario della repubblica, amico dei più prestigiosi intellettuali della sua epoca, Ramusio aveva una marcia in più rispetto a tutti gli altri. Era legato al più grande editore del suo tempo, Aldo Manuzio. I segreti non si limitava a scoprirli e riferirli. Li pubblicava a stampa.
Tra le prime missioni di Ramusio in gioventù, nella veste di assistente dell’ambasciatore Alvise Mocenigo alla Corte di Francia, ci fu quella di impedire un avvicinamento tra Francia e Austria a spese di Venezia. Compito immane, quanto sarebbe quello di impedire un avvicinamento tra la Russia di Putin e l’America di Trump ai danni dell’Europa. Allora non ci erano riusciti. Il patto stipulato a Cambrai tra la Francia, l’Impero asburgico e il Papa agli inizi del 500 avrebbe portato Venezia sull’orlo dell’annientamento. Le armate imperiali e dei loro alleati erano arrivate sul ciglio della Laguna. Fu quasi una crociata. Tutti addosso alla Serenissima “per far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni che i Veneziani hanno arrecato non solo alla Santa Sede Apostolica, ma al Santo Romano Impero, alla Casa d’Austria, ai duchi di Milano, ai re di Napoli e a molti altri principi occupando e tirannicamente usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella, come se cospirato avessero per il male di tutti”. Così suonava l’appello-manifesto dell’imperatore Massimiliano. Gli accordi segreti prevedevano lo spezzettamento dei domini veneziani. All’imperatore l’intero Veneto, il Friuli e l’Istria; alla Francia, che in quel momento già occupava Milano, la Lombardia orientale; i porti pugliesi sarebbero tornati agli Aragonesi; il Papa avrebbe riavuto le città romagnole; il Polesine sarebbe andato al duca di Ferrara; al marchese di Mantova spettava Peschiera. Cipro al Ducato di Savoia; la Dalmazia all’Ungheria. Uno spezzatino come la spartizione della Polonia tra Stalin e Hitler, o quel che Mosca vorrebbe fare dell’Ucraina. Non andò così. A scompaginare i piani non fu un rovescio sul campo, l’arresto che Bartolomeo d’Aviano aveva inflitto all’avanzata degli imperiali in Cadore. Fu un rovescio diplomatico. Il papa che aveva promosso la Lega di Cambrai, Giulio II, giunse alla conclusione che il pericolo maggiore per la stabilità nella penisola non era Venezia, ma era la Francia. Come avranno fatto i veneziani a fargli cambiare idea? Finirono per coalizzarsi tutti, Venezia compresa, contro la Francia.
Le alleanze andavano e venivano. Anche allora. A Lepanto (1571) i veneziani, che avevano fornito metà della flotta anti-turca, si erano trovati a fianco degli spagnoli e dei genovesi. La Francia invece era alleata strategica degli ottomani. Il nemico giurato dell’Inghilterra di Elisabetta non erano i turchi ma la Spagna. Il supercattivo nell’Otello di Shakespeare si chiama Jago, è spagnolo. Venezia si trovava un po’ nella situazione in cui si trova oggigiorno l’Europa. Ricchissima, prosperosa, coltissima, forte del suo formidabile Arsenale e della sua flotta, non poteva permettersi di venire fagocitata, spezzettata da nessuna delle grandi potenze rivali. Un decoupling dai commerci con la potenza turca non era possibile né auspicabile. Come non lo è oggi un decoupling con la Cina. Checché se ne dica nemmeno per l’America. La Repubblica era interessata ai traffici marittimi, agli affari. Oltre che, ovviamente, a preservare la propria indipendenza e il proprio sistema di governo. Non alle beghe ideologiche o religiose che laceravano il continente. Il terrore di Venezia non era affatto “l’orgoglio musulmano”. Non erano i pirati Uscocchi (profughi cristiani dall’avanzata turca nei Balcani, che infestavano l’Adriatico). E nemmeno i pirati barbareschi al servizio dei sultani di Istanbul. Il peggiore incubo di Venezia non erano i turchi. L’incubo era che si coalizzassero a suo danno gli altri occidentali.
All’epoca della Guerra dei trent’anni, nel 1600, le cose erano ancora più complicate che nel 1500. All’arte dell’intelligence e della persuasione diplomatica si aggiungeva la necessità di esercitare l’arte della dissimulazione. Rosario Villari, grande storico dell’età barocca, nel suo classico Elogio della dissimulazione, cita un avvincente scambio di lettere, reperito negli archivi dal suo allievo Francesco Gui. Nel 1620, un intellettuale di Norimberga chiede all’amico, un nobile boemo, quali siano le opzioni possibili per le città libere della Germania. Parteggiare per l’imperatore cattolico, o per il re di Boemia eletto dai ribelli anti-cattolici, o restare neutrali? L’interlocutore gli risponde che le opzioni non sono solo tre, bensì sette: c’è anche quella di schierarsi apertamente a favore di uno e aiutare occultamente l’altro; oppure simulare neutralitatem, ma parteggiare sotto sotto per uno dei due. Non toglie nulla alla bellezza del verso che lo scambio in realtà fosse un falso confezionato dall’ex protestante divenuto agente spagnolo Kaspar Schoppe, e diffuso dai cattolici per mettere in cattiva luce la duplicità dei protestanti.
Campione di “dissimulazione costruttiva” – se così si può dire – fu Galileo Galilei. Conteso fino a un attimo prima da tutti i principi e tutte le corti d’Italia e d’Europa, protetto dai Papi e persino dai potentissimi gesuiti, oltre che dal suo principale datore di lavoro, il Granduca di Toscana, aveva rischiato all’improvviso di finire sul rogo. Devo a un saggio di Davis Marshall Miller, della Yale University, The Thirty Years War and the Galileo Affair, la suggestione che a cogliere alla sprovvista il grande matematico fosse non tanto l’opposizione conservatrice alle teorie copernicane (la terra che gira attorno al sole, perbacco!, un insulto alle Sacre scritture), quanto gli sviluppi militari nella Guerra dei trent’anni, che mettevano in difficoltà i suoi protettori, a cominciare dal suo antico amico, ammiratore e protettore Maffeo Barberini, divenuto papa Urbano VIII. Quella fu una delle guerre più complicate della storia del nostro continente. All’inizio sembrava stessero prevalendo i cattolici sui protestanti. Il conflitto era iniziato nel 1618, quando gli autonomisti Boemi protestanti (i nazionalisti ucraini dell’epoca?) avevano buttato giù dalle finestre del Castello di Praga i legati dell’imperatore cattolico. L’offesa era stata abbondantemente vendicata massacrando i ribelli nella battaglia della Montagna bianca. La guerra era proseguita con fortune alterne, cambi repentini di alleanze, avvicendamenti misteriosi dei comandanti più famosi. E non solo perché facevano la cresta sulla paga dei soldati (il caso Wallenstein, fatto arrestare e ammazzare dal suo re, fa impallidire il caso Yermak). Nel 1630-32 l’esercito svedese, guidato dal re protestante Gustavo Adolfo, aveva capovolto la situazione sul campo. Era finanziato dalla Francia. Aveva rapidamente portato dalla sua i principi protestanti tedeschi e le rispettive truppe. Aveva spezzato in due i domini asburgici e spagnoli. Aveva invaso la Baviera, caposaldo cattolico. Minacciava di dilagare addirittura in Italia, dopo essersi assicurato il passaggio attraverso il cantone svizzero dei Grigioni.
Il Papa era alle strette. Alla litigiosità tradizionale degli ordini religiosi in competizione tra di loro, si aggiungeva la frattura determinata dalle rispettive fedeltà internazionali. Nel Concistoro del marzo 1632, l’ambasciatore di Spagna a Roma, il cardinale Gasparo Borgia, aveva letto una dichiarazione che dava la colpa dei rovesci subiti “dalla Religione cattolica” direttamente a “Sua santità”. Ne era seguita una vera e propria rissa tra vescovi e cardinali, sedata solo con l’intervento della Guardia svizzera. Sembrava Montecitorio. I partigiani degli Asburgo e degli spagnoli sostenevano che il Papa fosse segretamente in combutta con i protestanti. Spingevano perché il Papa, notoriamente francofilo, convincesse la Francia a rompere con gli svedesi. Mentre il primo ministro di Francia, il cardinale Richelieu, minacciava di rompere con la Chiesa se ciò fosse avvenuto. Come se non bastasse, infuriava in tutta Italia la peste, quella manzoniana, portata dai lanzichenecchi imperiali che avevano attraversato la Lombardia governata dagli spagnoli. In quest’anno di grazia 2025 che sta volgendo al termine ci siamo già quasi del tutto dimenticati del Covid che sembrava promettere la fine del mondo, appena ieri.
Insomma, Galileo aveva scelto un gran brutto momento per far vendere, proprio nel febbraio 1632, le prime copie del suo Dialogo sui massimi sistemi. A Firenze e non Roma, perché la peste aveva interrotto le comunicazioni. Il Papa suo amico aveva dato non molto tempo prima la sua approvazione. Ma ora aveva ben altri guai. Fu lui stesso a dire che, a causa dell’abbondanza di spie spagnole in Vaticano, non poteva ormai parlare se non sussurrando. A causa dell’accumulo di preoccupazioni non riusciva più a dormire di notte, tanto che fece uccidere tutti gli uccelli dei suoi giardini, perché non lo disturbassero col loro cinguettio mattutino.
Era già tanto che papa Urbano si fosse opposto all’accanimento giudiziario che gli veniva sollecitato da più parti, a che Galileo fosse torturato come il rito inquisitorio prescriveva, a che fosse processato esplicitamente per eresia, cosa che avrebbe potuto mandarlo sul rogo. Nessuno dei potenti che Galileo si era premurato così sapientemente di ingraziarsi nel corso della sua carriera era più in grado di aiutarlo. Non sarebbe bastato che promettesse, come aveva fatto in passato, “segreti particolari”, nuovi strepitosi congegni a uso militare, o “curiosità e meraviglie” per rendere più favolosi gli spettacoli teatrali offerti dal principe (come prima di lui aveva fatto Leonardo per essere accettato alla corte di Francia). Armi e show, insomma, anche a quei tempi.
Galileo era un cortigiano nel senso proprio della parola, che a quell’epoca non aveva nulla di offensivo. Non si andava da nessuna parte se non ci si adeguava al galateo nel trattare con i potenti (e con i loro segretari, che filtravano l’accesso ai potenti). Lo racconta con dovizia di fonti, compresi i manuali su come scrivere le lettere loro indirizzate (i cv dell’epoca), lo studio di Mario Biagioli su Galileo cortigiano (Einaudi, 1995). Galileo era anche un imprenditore nato. Aveva fatto fortuna e acquisito fama in tutta Europa producendo e vendendo cannocchiali. Si era dato sempre un gran da fare nelle public relations. Ma forse peccava di ingenuità. “Sento che vien qua il Galilei… Al principio che io venni qua ce lo trovai et egli stette alcuni giorni in questa casa…”, scrive al suo superiore Francesco Guicciardini, ambasciatore di Firenze a Roma. E, accorto di malizie politiche qual è, aggiunge: “Io non so se sia mutato di dottrina o d’humore: so bene che alcuni frati di San Domenico, che han gran parte nel Santo Offizio, et altri, gli hanno male animo addosso; e questo non è paese da venire a disputare della luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove”.
Se a uno, per genio che fosse, veniva meno il patrocinio dei potenti, era perduto. Senza santi in paradiso, o per meglio dire amici a corte, non c’è scienza che tenga. Ne seppe qualcosa anche Johannes Keplero, astronomo imperiale e scopritore delle orbite ellittiche dei pianeti, il quale, al culmine della carriera scientifica, nel 1615 si era trovato a dover difendere la madre dall’accusa di stregoneria. Era riuscito a salvarla dal boia, dopo sei anni di tribolazioni, solo perché aveva l’appoggio del principe del suo Württemberg. Per non fare la fine di Giordano Bruno (bruciato a Campo de’ Fiori solo qualche anno addietro), non venire torturato dall’Inquisizione come Tommaso Campanella (liberato nel 1626 solo dopo 27 anni trascorsi nella segrete napoletane di Castel Nuovo), non venire emarginato come i suoi amici e corrispondenti veneziani Francesco Sagredo e Paolo Sarpi, Galileo non aveva altra scelta che abbozzare.
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