Zadie Smith (Getty Images). il suo ultimo libro, la raccolta di saggi “Dead and Alive”, è in uscita in Italia presso Mondadori
L'intervista
Sotto il ciliegio in fiore di Zadie Smith
La dolorosa sincerità di una scrittrice che cerca di catturare attraverso il linguaggio la bellezza del mondo. I film più amati e la cotta per James Stewart. Le letture onnivore, la musica e il ritmo, la buona prosa che non è tutto. Una conversazione
Dietro l’apparenza altera, perfino brusca, Zadie Smith ha un animo estremamente sensibile e capace di grande generosità. L’eclettismo della sua notevole cultura nasce dalla curiosità e i suoi numerosi talenti passano in secondo piano rispetto al suo carisma: è una di quelle persone che si impossessa del luogo in cui si trova, attirando su di sé l’attenzione di tutti. L’ho conosciuta insieme a David Foster Wallace, di cui è stata grande amica, nell’anno in cui vennero entrambi alle Conversazioni a Capri insieme a Jonathan Franzen, Jeffrey Eugenides e Nathan Englander. C’era un irripetibile clima di spensieratezza che culminò in una partita a pallanuoto, alla quale parteciparono tutti con entusiasmo. “Mai visti tanti scrittori in una stessa piscina”, commentò Zadie, prima di partecipare alla sfida con un agonismo sorprendente. Era l’anno dei mondiali di calcio in Germania, e vedevamo le partite tutti insieme: il più divertito era Foster Wallace, rapito dal tifo caotico degli italiani per la nazionale, il più scientifico Franzen, che esaminava con cura ogni singola azione, i più sportivi Englander ed Eugenides, che apprezzavano i momenti di agonismo tifando sempre per squadre opposte, ma la più impetuosa era Zadie, che seguiva con passione le vicende non esaltanti della sua Inghilterra. Fu in quella occasione che mi risultarono chiari altri elementi della sua personalità: il legame sincero con le proprie radici e la capacità di non aggravare il piacere con considerazioni intellettuali. E’ diventata una star della letteratura a venticinque anni con "Denti bianchi", riuscendo a difendersi da ogni tipo di pressione grazie a un carattere forte e una solida struttura familiare composta dal marito, il poeta Nick Laird, e i due figli Harvey e Katherine, chiamata così in onore di Katharine Hepburn, la sua attrice preferita.
Qualche anno fa le chiesi di parlarmi dei film che avevano segnato la sua vita e mi colpì l’interesse nei confronti del mezzo cinematografico e la volontà di analizzare la specificità di un altro linguaggio. Volle partire da due film che non sopporta, L’anno scorso a Marienbad e La moglie dell’aviatore di Éric Rohmer, e quando le feci notare che erano entrambi francesi mi disse che era un caso, ma poi spiegò che non digeriva “l’intellettualismo” del primo, mentre sul secondo spese qualche parola in più: “Nulla, ma letteralmente nulla, mi interessa meno delle vite romantiche della media borghesia parigina”. Una dichiarazione che ancora oggi sconcerterebbe i cinephiles e che venne rinforzata da quello che disse subito dopo: “Per me l’essenza del cinema è azione e piacere, e detesto i film che rifiutano perversamente questi princìpi”. Ero affascinato da tanta libertà intellettuale, ma a quel punto mi spiazzò dichiarando che uno dei suoi film preferiti è L’eclisse di Michelangelo Antonioni: “Ti stupirà forse dopo quello che ho appena detto, ma devo riconoscere che quel film ha cambiato il modo in cui ragionavo rispetto alla narrazione. Inoltre sono estasiata dalla bellezza del volto di Monica Vitti: ecco, quella è una cosa che può dare solo il cinema”. Poi aggiunse: “Un simile sconvolgimento sul piano della narrazione l’ho provato quando ho visto per la prima volta Pulp Fiction, in quel caso accompagnato dal divertimento allo stato puro, ma se devo dirti quali sono i film del cuore partirei da Brian di Nazareth dei Monty Python, Taxi Driver e poi Scandalo a Filadelfia: in quel film sono attratta irresistibilmente dalla Hepburn, volitiva, contraddittoria, intelligente, rompiscatole, illusa e coraggiosa. E ho una cotta per James Stewart: ha rappresentato la mia prima idea di uomo attraente, e la sua silhouette ha ossessionato la mia vita romantica”.
E’ importante ricordare il suo retroterra culturale: Zadie è nata con il nome di Sadie Adeline Smith a Brent, nella zona nord-ovest di Londra, come testimonia il titolo del suo romanzo NW. Il padre, l’inglese Harvey Smith, era di trent’anni più anziano della madre Yvonne, emigrata dalla Giamaica pochi anni prima della sua nascita. Nel suo libro Sulla bellezza c’è un passaggio eloquente su come si pone rispetto all’essere il frutto di un matrimonio misto: “Smetti di preoccuparti della tua identità e preoccupati delle persone a cui vuoi bene, delle idee che ti interessano, del credo per cui lotti (…). E’ un modo di star al mondo duro, complicato e più solitario di quanto tu possa immaginare. Ma devi vivere, e non puoi farlo attraverso slogan, idee morte, stereotipi o bandiere nazionali. Trovare un’identità è facile. E’ una facile scappatoia”. Il cambio del nome in Zadie avvenne all’epoca del divorzio dei genitori, e la scelta di dedicare la propria vita alla scrittura risale a quando andò a studiare a Cambridge. “Il motivo per cui scrivo è per non fare la sonnambula tutta la vita”, ha dichiarato, e in un saggio ha aggiunto “per sentirmi meno sola, ed entrare in contatto con la mia coscienza e non solo con me stessa”. La forza di tutti questi differenti modi di esprimersi è nella sua dolorosa sincerità, come ha dichiarato al Guardian, che le chiedeva un decalogo di consigli per uno scrittore: “Dì la verità attraverso il velo che hai a disposizione, ma dilla. E rassegnati alla tristezza perenne che proviene dal non essere mai soddisfatto”. E’ un’affermazione illuminante per una persona che ha posto la creazione artistica al centro della propria esistenza, e che va messa in rapporto con altre dichiarazioni, che sembrano sottolineare la fallacia della percezione umana e dei sentimenti: “Ogni avvenimento avviene due volte: dentro e fuori, e sono due strade diverse”, sostiene, e in Sulla bellezza ha scritto: “La più grande bugia sull’amore è che ti liberi”, ma anche “sono davvero molto egoista, ho vissuto per l’amore”. Poche settimane fa è diventato virale un video nella quale esibisce notevoli doti canore, e quando gliene parlo sorride con lo stesso piacere con cui ascolta i complimenti per il suo ultimo libro, Dead and Alive, una magnifica raccolta di saggi in uscita in Italia presso Mondadori.
Vorrei iniziare chiedendole come è diventata una scrittrice.
Onestamente ritengo che si nasca scrittori. Non si tratta di qualcosa che qualcuno possa diventare, o piuttosto, determinare da solo. Penso che lo scrivere romanzi sia una risposta a un certo tipo di dinamica familiare, a un certo tipo di genitori e in particolare a un certo tipo di madre. Il dramma del bambino dotato, di Alice Miller, è un testo molto intelligente sulla formazione di bambini “di talento”.
Quali libri leggeva quando andava a scuola?
Qualunque cosa trovassi a casa. Molti libri per bambini, ma anche numerosi testi di mia madre su teorie femministe, e tanta narrativa esistenzialista degli anni Cinquanta e Sessanta che appartenevano a mio padre. Poi anche libri di scrittori afroamericani, moltissimo Shakespeare, la Bibbia, una biografia di Mishima… letteralmente ogni cosa che trovavo.
Esiste un libro fondamentale nella sua formazione?
Il dito magico di Roald Dahl.
Perché è stato così importante?
E’ una storia kafkiana di una famiglia che ama cacciare le anatre. Finché un giorno la figlia dei vicini – che odia il fatto che caccino le anatre – fa un incantesimo con il suo dito magico e la famiglia inverte il proprio posto con quegli uccelli. Le anatre vivono nella loro casa e la famiglia sugli alberi, mentre le anatre cominciano a cacciare esseri umani. Una bella lezione.
C’è un libro che lei ha amato quando l’ha letto e ora non apprezza più?
Immagino che ci sia molto di quello che ha scritto Nabokov che oggi mi irriterebbe, ma devo essere sincera: non ho tentato di rileggerlo.
C’è qualche libro che lei non ha apprezzato quando lo ha letto e invece adesso ama?
Non parlerei di amore, ma mi sto impegnando ad apprezzare Dostoevskij, e capisco che in uno scrittore ci sono cose più importanti della buona prosa.
E’ vero che quand’era una teenager sognava di diventare una ballerina?
Volevo esibirmi sui palcoscenici di Broadway, cantare e danzare in un musical. Fare tutto quello che serve per essere una ballerina completa e di alto livello. La danza che amavo di più era il tip tap.
Esiste un punto di contatto tra il suo amore per la danza e la sua scrittura?
Il ritmo! Per scrivere c’è bisogno di un buon orecchio per la musica e per il ritmo del linguaggio nel quale scrivi. Molti romanzieri e poeti – ma davvero tanti – sono anche buoni musicisti, o sono bravi in uno sport che richiede il ritmo, come il tennis o il ping pong.
Lei segue una particolare routine? Scrive ogni giorno? Quante ore e dove?
Non scrivo da mesi, davvero da tanto tempo, e non ho una routine. Scrivo ovunque, ma sempre su un computer portatile e un brown noise nelle mie orecchie. Non ho alcun tipo di superstizione o necessità riguardo allo scrivere, e non mi importa che avvenga in un bell’ufficio o di fronte a una bella vista. Quello di cui ho bisogno è il programma word e il brown noise.
C’è uno scrittore che ammira nonostante detesti le sue idee o il suo atteggiamento?
V. S. Naipaul.
Sto chiedendo agli scrittori che intervisto se ritengono che il linguaggio delle immagini abbia cambiato il linguaggio delle parole.
Io credo che lo abbia cambiato. Non ha senso usare le parole per descrivere ciò che la macchina da presa definisce meglio. E’ il motivo per cui i romanzi contemporanei non tendono più a iniziare con una descrizione di quattro pagine dell’ambientazione.
Lei ha vissuto 15 anni a New York: cosa le manca di più della città e di quella cultura?
Oh, tutto. La gente, l’energia, gli artisti, i musicisti, gli attori, i comici, gli scrittori, gli impiegati negli uffici, le persone che ti fanno le consegne a casa, i tipi che gestiscono i deli, le librerie, la luce, l’acqua, le feste, il parco, gli spazi angusti, le viste, Manhattanhenge, il fenomeno naturale con il sole che tramonta allineato con le strade della griglia di Manhattan, i cani con indosso gli abiti… tutto. Credo che l’unica cosa che non mi manchi sono coloro che lavorano nel settore delle tecnologie finanziarie.
Qual è stata la lezione più importante che ha imparato a New York?
Come fare un dry Martini al limone.
Qual è la prima cosa che associa al concetto di gioia?
Danzare.
Nel suo romanzo più recente, L’Impostore, lei ha tracciato un ritratto molto controverso di Charles Dickens: cos’è che non le piace?
Io lo amo! Non credo che ci sia nulla di controverso nel mettere in evidenza alcuni elementi che riguardano una persona. Dickens era un uomo sentimentale e le sue idee politiche potevano essere sentimentali, paternalistiche e limitate. Ha fatto tutto quello che era in suo potere per aiutare a Londra le donne “perdute”, salvandole dalla prostituzione giovanile, e aiutandole ad avere un luogo dove vivere e un’educazione. E questo è splendido. Poi, però, a proposito della schiavitù, riteneva che i Caraibi fossero un caos non cristiano rispetto al quale era meglio non perdere tempo. Meno splendido. Tuttavia, quando ha visitato l’America, e si è avventurato a sud, al di sotto della linea Mason e Dixon, ha reagito con repulsione alla schiavitù, e ha deciso di non presentare mai più i propri libri al di sotto di quella linea. Dickens era questo tipo di uomo: aveva bisogno di vedere le cose di persona prima di comprenderle. E io non amo né disprezzo questo suo aspetto: ne sono semplicemente interessata come imprescindibile dato caratteriale.
Gabriel Garcia Márquez ha dichiarato che i suoi romanzi provengono spesso da una singola immagine. Ad esempio l’anziano protagonista che muore nel suo palazzo nell’Autunno del Patriarca. E’ così anche per lei?
Una volta, quando avevo sei o sette anni, mi è capitato di trovarmi sotto un albero di ciliegie nel pieno della fioritura, e sono rimasta sopraffatta dall’intensa bellezza del mondo. I ciliegi in fiore appaiono spesso nei miei lavori di narrativa, e io spesso cerco di catturare attraverso il linguaggio quella prima manifestazione della bellezza del mondo.
Cosa rappresenta per lei la scrittura? Urgenza, necessità, tormento, piacere…
Tutto quello che ha appena elencato. E’ una lista molto accurata.
Qual è la sua posizione sulla fede e la religione?
La mia posizione è che non è possibile rispondere a una questione del genere in uno spazio limitato. Ma per dirlo in breve, e mettendo a lato le domande metafisiche – sempre per ragioni di brevità – io provo una grande ammirazione per la religione come filosofia etica. Della fede non posso parlare perché non si tratta di una cosa che può essere comunicata o invocata attraverso il linguaggio.
TRA WILDERNESS E DEMOCRAZIA. PERCHé L'EUROPA è UN'ALTRA COSA
Vivace e sconvolgente. La Natura che rende l'America un occidente diverso