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Per Zadie Smith il dovere di scrittrici e scrittori è "difenderci dall'imperialismo americano"

Giuseppe Fantasia

“L’unica cosa sicura è la vita umana e adesso è messa in pericolo. Quando si scrive, si tende spesso a caratterizzare il nemico in maniera permanente e questo accade a volte anche nella vita reale”, dice la scrittrice inglese

“Sono convinta che il dovere delle scrittrici e degli scrittori - di tutti coloro che scrivono -  sia quello di difenderci dall’imperialismo americano che coinvolge e costringe le nostre idee e la nostra cultura. È arrivato il momento di ribellarci a tutto questo. Stare attaccati al nostro pezzettino di mondo senza dimenticare quello che ci succede attorno, è quello che possiamo fare, descrivendolo così come è”.

Da più di venti anni Zadie Smith lo fa nei suoi libri (Denti Bianchi in primis, il suo bestseller più conosciuto e tradotto al mondo, e a seguire gli altri, Della bellezza, NW, Swing Time, L’ambasciata di Cambogia e altri, tutti pubblicati in Italia da Mondadori), ricchi di storie “di gente radicate a terra, alla realtà, non perché lo vogliano, ma perché è così”, spiega durante il suo incontro romano, super ospite della 13esima edizione di Libri Come, la Festa del Libro e della Letteratura, la prima dal vivo dopo due anni di pandemia. Della guerra, della situazione in Ucraina, Russia e Putin non vuole parlare, perché sua intenzione è distrarci e farci pensare ad altro, senza mai dimenticare (o abbandonare) le sue prese di posizioni forti di una persona intelligente quale è. “L’unica cosa sicura è la vita umana e adesso è messa in pericolo. Quando si scrive, si tende spesso a caratterizzare il nemico in maniera permanente e questo accade a volte anche nella vita reale”.

 

“Qualche mese fa – aggiunge -  ricordo gli attacchi incomprensibili che ha ricevuto una cantante molto nota come Adéle per aver indossato un bikini con i colori giamaicani al carnevale di Notthing Hill, a Londra. Forse gli americani che hanno twittato così duramente contro di lei non sapevano che vive lì da sempre e si sente parte di quel quartiere. È un posto vero, uno di quelli dove tutto si mescola”.

Un po’ come accade nel suo neighbourhood, come lo chiama intervallando l’inglese all’italiano che ha deciso di studiare anni fa. Nata da madre giamaicana e padre inglese, Smith è cresciuta infatti nel quartiere di Brent, a Nord ovest di Londra, e da allora non lo ha mai lasciato. Ha frequentato lì la scuola pubblica, ha lì i suoi amici di sempre ed è lì che vive con la sua famiglia. Quando aveva quattordici anni, decise di cambiare il suo nome da Sadie in Zadie per aggiungere un tocco esotico e crearsi un’identità diversa, “perché lì era possibile”, precisa. “C’erano tante persone più povere di me, ma in ognuno di noi c’era questo lato che ci rendeva interessanti, nella musica come nel modo di vestire. Meglio essere un po’ lontani dal centro, ai margini. Io, personalmente, lo trovo più divertente”. 

 

Vive nel suo stesso quartiere anche Alvita, la protagonista del suo nuovo libro, La donna di Willesden (Mondadori, trad.ne di Dario Diofebi), che segna il suo debutto come drammaturga e che presenta a Roma in anteprima. È una donna sui cinquant’anni che dall’alto delle sue Jimmy Choo (che Smith, e gli editor poco attenti, nel testo, confondono con le Louboutin), lavora in un pub poco distante da Kilburn High Road, dimostra tutta la sua schiettezza e indipendenza dal punto di vista sociale, culturale, lavorativo e sessuale. Di mariti ne ha avuti cinque ed è a loro che si rivolge nel libro, costruito rivisitando il Racconto della donna di Bath di Geoffrey Chaucer, ambientandolo però nella periferia nord di Londra del XXI secolo. “Io ero e sono qui per voi, ma voi dovete fare qualcosa per me, voglio il piacere, questo è il vostro debito. (…) il vostro corpo è come un giocattolo, è per me, non per voi. Così ho capito che mi sta bene”.

“Scrivere – ha detto più volte Smith che non ha mai frequentato un corso di scrittura creativa, ma è diventata lo stesso un caso editoriale quando di anni ne aveva 23 - è l’esatto opposto della terapia. La cosa migliore, l’unico allenamento consiste nel leggere i libri degli altri”. Nel frattempo, ballava il tip tap sognando di diventare una ballerina di musical (“ho smesso quando mi sono accorta che i musical non li faceva più nessuno”, ha dichiarato ironicamente), ma a diciott’anni si trasferì al King’s College di Cambridge per studiare letteratura inglese, col progetto di diventare una giornalista o una docente universitaria.

Tante le letture - Kafka, George Eliot, Nabokov ma soprattutto Edward Morgan Forster, suo mito – piccole pubblicazioni di racconti e poi il decisivo incontro con un editor (nonché suo futuro marito), Nick Laird. Da lì a Denti Bianchi è stato un attimo (“o quasi”, ci disse lei l’ultima volta che l’abbiamo incontrata). Percorrendo quasi tutto il secolo, quel romanzo racconta la storia dei due amici, Archie (inglese) e Samad (bengalese e musulmano osservante), e delle loro strampalate famiglie con Londra protagonista.

Il resto è storia (la sua).

 

Denti Bianchi fu da molti descritto come un romanzo sull’integrazione razziale, ma è la rappresentazione ossessiva della difficile ricerca della propria identità.

“Per quanti di noi hanno subito pregiudizi sul genere di appartenenza – continua l’autrice, che rivediamo dopo due anni e mezzo senza il suo caratteristico foulard sul capo - per me è chiaro che non si può essere squalificati in modo permanente, immutabile, come se fosse una specie di fato. Come scrittrice e persona non mi va di attaccare questo stato permanente addosso agli altri. Se tu inchiodi una persona a quello che è pensando ‘sei questo e lo sarai per sempre', è una cosa molto pericolosa. Le persone cambiano e proprio per questo ci può essere giustizia a volte senza che lo sappiamo”.

Prima di salutarci, il suo attacco alle riviste femminili, in particolare a Cosmopolitan, attaccato ben tre volte. Il motivo? “Riviste come quella sono il massimo dell’aberrazione e della repressione nei confronti delle donne. Donne che se non sono state marginali, sono state al margine”. Il suo riferimento è a una discussione avuta in merito con la collega nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie che sulla copertina ci è finita. “C’è questo cliché dell’essere visti e dell’essere oggi sempre tutti al centro dell’attenzione, come so che non essere visti significa essere ignorati, ma è stata ed è questa la forza dell’uomo bianco. Da donna nera, quando parlo di donne come me – e lo faccio sempre – mi sento a disagio a dover scrivere di loro con un’etichetta attaccata addosso. Un bianco - rispetto a uno di colore - ha potere, ha sicurezza e privacy e nessuno ti può definire: anche a me piacerebbe avere tutto ciò, ma purtroppo, almeno per ora, non è così”.

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