Facce dispari

Luca Olivieri: “Settant'anni di archeologia italiana in Pakistan sulle orme di Tucci”

Francesco Palmieri

L'archeologo romano guida la Missione italiana nel paese asiatico: "È la più longeva al di fuori del Mediterraneo e del vicino Oriente". L'arte della scoperta? "Bisogna avere l’animo aperto del fanciullo che entra in un bosco senza scopi e vi trova le cose più nascoste proprio perché non cerca niente di preciso"

Chissà se nel 1955 il grande orientalista Giuseppe Tucci, mentre inaugurava la Missione archeologica italiana in Pakistan, immaginava che sarebbe durata fino a oggi conseguendo straordinarie scoperte nella Valle dello Swat, dove l’Occidente incontrò l’Oriente sui sogni di conquista di Alessandro Magno. Il settantesimo anniversario della Missione, gestita dall’ISMEO e dall’ateneo veneziano Ca’ Foscari, sarà celebrato il 13 dicembre a Castel Madama dopo essere stato festeggiato il 25 ottobre a Saidu Sharif, con una vasta eco locale e la partecipazione (avverrà anche per l’evento italiano) del principe ereditario della famiglia Miangul, che regnò sullo Swat fino al 1969.

From Tucci to Olivieri” ha titolato un giornale pakistano, perché dal 2011 alla direzione della Missione c’è Luca Maria Olivieri, archeologo romano che fu chiamato appena laureato, nel 1987, a lavorare nello Swat e attualmente è anche professore a Ca’ Foscari di Archeologia del Gandhara e delle Vie della Seta.

 

La stampa pakistana ha ricordato che la Missione italiana ha resistito a terremoti, inondazioni e alla rivolta talebana di cui fece le spese nel 2007 anche il famoso Buddha di Jahanabad, che voi avete restaurato.

La tutela del patrimonio pakistano è sempre stata centrale nella filosofia della Missione, sin da quando Tucci intuì la necessità di affiancare agli scavi un museo: fu inaugurato nel 1963 con fondi italiani e pakistani su un terreno offerto dal re dello Swat ma fu distrutto nel 2008 da un attentato dei talebani che colpì un dormitorio vicino, per cui dovemmo ricostruirlo ed è stato nuovamente inaugurato nel 2013. Oggi espone 2.200 pezzi e oltre 60 mila sono in magazzino.

 

La Casa della Missione è intatta?

È come fare un salto nell’Italia degli anni Cinquanta perché abbiamo preservato persino gli arredi originali, e poi i documenti, la biblioteca, l’archivio, i laboratori. È la missione archeologica italiana più longeva al di fuori del Mediterraneo e del vicino Oriente e la più continuativa tra le missioni straniere nell’area ricompresa tra l’Iran e il Giappone.

 

I suoi predecessori sono stati grandi nomi dell’archeologia: Maurizio Taddei, Domenico Faccenna, Pierfrancesco Callieri. Cosa la portò nello Swat?

Si cercava un archeologo formato sulle nuove tecniche di documentazione stratigrafica introdotte da Edward Harris e diffuse in Italia da Andrea Carandini. Arrivai in Pakistan per questo ma non nutrivo interessi etnografici né fascinazioni orientalistiche, l’Oriente mi ha appassionato dopo. Avevano appena avviato il grande scavo di Barikot, l’antica Bazira di Alessandro Magno, su cui lavoriamo tuttora.

 

Lo Swat, l’antico Uddiyana, suscitò l’interesse di Tucci perché era stato culla del buddhismo e la terra da cui partì Padmasambhava nell’ottavo secolo per convertire i tibetani.

Quando non poté più tornare nel Tibet occupato dalla Cina, Tucci si rivolse allo Swat per rintracciare le radici del buddhismo himalayano, come a chiudere il cerchio della sua biografia scientifica. Siddharta, il Buddha storico, non vi mise mai piede, ma il racconto di alcune sue vite precedenti lo colloca nello Swat; qui soggiogò un naga, una delle mitiche divinità preposte al governo delle acque, e lo stesso potere fu successivamente attribuito a Padmasambhava. La capacità di regolare i cicli dell’agricoltura accrebbe l’autorevolezza del buddhismo. Oggi abbiamo la certezza che Alessandro Magno passò nello Swat per rifornirsi di derrate prima dell’impresa indiana: la valle, grazie al suo microclima, fu il granaio del Gandhara perché permette un doppio raccolto. A maggio grano e orzo, a settembre il riso.

 

Qual è la scoperta che l’ha emozionata maggiormente?

L’arte rupestre con il ritrovamento di oltre sessanta ripari dipinti dall’età del bronzo a età tardoantica, perché è stata una sorpresa sortita mentre eravamo concentrati sullo scavo dei monumenti buddhisti. Spesso accade che mentre sei intento a un lavoro non ti accorgi di qualche altra cosa importante lì vicino, perché ciascuno cerca ciò che già conosce. Bisogna avere l’animo aperto del fanciullo che entra in un bosco senza scopi e vi trova le cose più nascoste proprio perché non cerca niente di preciso. Le pitture rupestri sono trasmissioni dirette della psiche umana: a differenza delle opere architettoniche sono prive della mediazione delle forme. Quando ripassi sui fogli di plastica quei segni stabilisci un contatto con anime ancestrali: un’esperienza straniante, come captare pulsar di altre galassie.

 

Qual è l’insegnamento di Giuseppe Tucci?

La multidisciplinarietà: l’archeologia dialoga con l’arte, la biologia, la botanica. Penso agli studi condotti su 127 individui inumati nello Swat dal 1200 avanti Cristo al 1300 dopo Cristo per indagare la continuità genetica, la demografia e l’economia, oppure ai quasi 50 mila semi emersi dal terreno di Barikot, che hanno permesso di studiare l’alimentazione attraverso tre millenni. La scienza deve offrire un quadro tridimensionale.

 

La Missione è reputata, in Pakistan, una “cornerstone” delle relazioni tra i due Paesi. Si estenderà oltre lo Swat?

Nuove attività riguarderanno la provincia del Sindh, ma al di là del Pakistan il filone inaugurato da Tucci interessa tutt’oggi il mondo buddhista: il 30 novembre ho ricevuto a Casa Italia la visita inattesa di una delegazione del Bhutan alla ricerca di elementi storici su Padmasambhava. Combinazione ha voluto che fosse anche il giorno in cui, secondo il calendario tibetano, quel grande personaggio arrivò in Tibet. Le intuizioni di Tucci ci parlano ancora.

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