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La retata nel ghetto di Roma

16 ottobre 1943. La data spartiacque nel calendario civile d'Italia

Alberto Galimberti

Il libro curato da Yael Calò, Lia Toaff e Luciano Zani, "Il nemico numero uno", ripercorre la retata nel ghetto di Roma valorizzando la ricerca storica, la conoscenza piena dei fatti e il dovere della memoria. Erigendo un baluardo di civiltà contro le configurazioni di antisemitismo, antiche e attuali

"All’alba le famiglie ebraiche vennero svegliate da urla, calci dei fucili sulle porte delle case, violenza e frastuono. Alcuni ebrei, soprattutto coloro che credevano di essere più a rischio di deportazione, quindi uomini giovani, si erano allontanati dalla città; la maggior parte delle vittime rastrellate in quel sabato mattina furono donne, bambini e anziani”. Sono scoccate le 5.30 del 16 ottobre 1943, quando al comando del colonnello Herbert Kappler comincia la retata del ghetto ebraico romano e si consuma una delle pagine più nere della nostra storia contemporanea. Oltre mille ebrei vengono arrestati, rinchiusi nel Collegio militare, caricati sul treno che dalla Stazione Tiburtina è diretto ad Auschwitz-Birkenau, dove troveranno la morte. Il nemico numero uno. La retata del 16 ottobre 1943 e la sua memoria nell’Italia repubblicana (Viella, 204 pp., 20 euro), curato da Yael Calò, Lia Toaff e Luciano Zani, ripercorre questa data spartiacque nel “calendario civile del paese”; valorizzando la ricerca storica, la conoscenza piena dei fatti e il dovere della memoria. Erigendo un baluardo di civiltà contro le configurazioni di antisemitismo, antiche e attuali.

 

La miscellanea di saggi restituisce, nel fluire del racconto corale, le sfaccettature di una vicenda tanto complessa quanto drammatica; tra leggi razziali e sterminio, consenso al regime e cultura antisemita, odio e oblio: “Non solo l’ex Ghetto, ma tutta Roma e la società romana, non solo gli ebrei, ma anche i carabinieri, non solo le SS e i poliziotti tedeschi, ma anche gli italiani, resistenti, fascisti e collaborazionisti, non solo i fatti del 1943-44, ma alcune proiezioni nella memoria dell’Italia repubblicana”. Tutto si tiene, dunque. La persecuzione degli ebrei d’Italia introdotta nell’estate 1938 per volontà di Benito Mussolini e con l’avallo di Vittorio Emanuele III di Savoia. L’armistizio dell’8 settembre e la feroce caccia all’ebreo nella capitale occupata dai nazisti e dai fascisti della Rsi. Il disarmo, la cattura e la deportazione dei carabinieri del Lazio. La proditoria estorsione alla comunità ebraica di 50 chili d’oro, sotto la minaccia della morte e il miraggio della salvezza. L’anonimo e vile editoriale pubblicato su il Messaggero che giustifica a priori il sequestro di cittadini italiani ebrei inermi, stigmatizzati come “il nemico più inesorabile”. I dubbi divenuti brutale certezza davanti al rastrellamento, un eccidio pianificato nei minimi dettagli: “La città venne divisa in 26 zone e tutte dovevano essere pattugliate, le vittime dovevano essere scovate e catturate nelle loro abitazioni”.

 

E poi il dopo: affrontare l’emergenza; elaborare il lutto; posare la prima pietra della memoria. Accettando la verità che “chi non è ancora tornato, non tornerà più”, misurando “l’enormità della tragedia”, rientrando nella “pedagogia civile e costituzionale” dei discorsi dei presidenti della Repubblica. Condannando, infine, la banalizzazione della Shoah, umiliata nell’immondo tentativo di trasformare le vittime di allora nei carnefici di oggi.

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