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“Lady Macbeth” alla Scala
Shostakovich, un genio della musica martirizzato da stalin
Quando l’opera andò in scena al Bolshoi, il dittatore non gradì. L’accusa infame e le persecuzioni. Così la macchina del terrore sovietico divorò la vita del compositore
Le disgrazie del grande musicista e compositore Dmitri Dmitriyevich Shostakovich cominciarono la sera del 26 gennaio 1936 al Bolshoi, alla prima moscovita di “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, l’opera che il 7 dicembre inaugurerà la stagione della Scala di Milano. Un’opera vibrante e nuova, che tanto successo stava riscuotendo in tutta la Russia sovietizzata e che perciò tanta curiosità aveva attizzato tra i vertici onnipotenti del Cremlino. Quella sera doveva essere un evento trionfale. C’erano i colonnelli della nomenklatura Molotov, Mikojan e Zdanov sul palco delle autorità. Qualcosa però stava visibilmente andando storto: quei tre ridacchiavano, si davano di gomito e davano segni di insofferenza. Ma soprattutto c’era il tiranno in persona, Giuseppe Stalin, nascosto dietro una piccola tenda, invisibile ma incombente, schermato ma osservatore di ogni minimo movimento, in sala e nell’orchestra. L’opera non era evidentemente di suo gradimento politico e, sdegnato, il Padre dei Popoli se ne andò prima della fine: l’inizio della fine di Shostakovich, il preludio di un lugubre destino. Era un’epoca “carnivora”, come l’aveva definita Anna Achmatova, e il compositore con quel gesto di plateale ripudio di Stalin cominciò a sentire sul collo il fiato dei cannibali spietati.
E infatti, tre giorni dopo arrivò la sentenza inappellabile della “Pravda”, con un articolo intitolato “Caos, non musica”. “Fin dal primo momento”, scrisse il sicario incaricato dell’esecuzione, “l’ascoltatore è urtato da un flusso confuso di suoni deliberatamente dissonanti”, un miscuglio insopportabile di “frastuono, stridore, urlo” e “questa musica porta nel teatro i tratti più negativi del meyercholdismo”.
Dunque, pollice all’ingiù: “Confusione sinistroide invece di una musica umana”, nientemeno, in cui “il pericolo per la musica sovietica è chiaro” e “le innovazioni piccolo-borghesi conducono a una rottura con la vera arte, la vera scienza, e la vera letteratura. Tutto ciò è volgare e primitivo”. “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” - chissà se ne è al corrente la mondanità che alla Scala occuperà platea e loggioni - diventò ipso facto, con questa sentenza, un monumento del più bieco “formalismo”. E la stessa parola “formalismo” costituiva il cuore di un’accusa tremenda, il nome terrorizzante di una condotta delittuosa nell’universo paranoico del sovietismo “carnivoro”. Non una banale deviazione estetica o ideologica, ma un crimine, un sabotaggio, una resa al nemico. Del resto, anche prima della codificazione di ogni evento artistico e letterario nella soffocante gabbia fanatica del “realismo socialista” persino l’eretico Trockij nel 1922 aveva attaccato la Achmatova e Marina Cvetaeva che con il loro “formalismo” si dimostravano “irrilevanti per l’Ottobre”. E nel 1918, ha scritto Orlando Figes nel suo La danza di Natasha, “a Chagall che aveva decorato le strade di Vitebsk per il primo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, certi funzionari locali chiesero: ‘Perché la vacca è verde e perché il cavallo vola nel cielo? Che rapporto c’è con Marx ed Engels?”. Un delitto, il solito “formalismo” (sinistroide, controrivoluzionario, piccolo-borghese, cosmopolita e via scomunicando).
Per il “formalista” Shostakovich si apre una stagione fosca, dove si agitano in un gioco crudele non il successo o il fallimento, ma la vita e la morte di chi viene schiacciato dalla macchina del terrore. Prima del ‘36 il grande compositore si era barcamenato tra compromessi, piccole audacie immediatamente compensate da prudenti ritirate, un accomodamento continuo che lo teneva a galla, tollerato. Obtorto collo, ma pur sempre tollerato. E in quei tempi terribili, la tolleranza nel comunismo “carnivoro” voleva dire sopravvivenza, e niente gulag. Aveva scritto discrete colonne musicali per quasi trenta film al tempo del muto. Aveva prudentemente intitolato “Il primo maggio” la sua “Terza Sinfonia” in onore del paradiso dei lavoratori. Ma ora non era più tempo di mediazioni e mediocri compromessi. Ora lo spartito era cambiato, ora anche lui era nel mirino del potere sovietico che stendeva la sua ombra terroristica sulle vite degli artisti, “ingegneri dell’anima” secondo il dogma enunciato dallo stesso Stalin. Per dire il clima, Vsevelod Meyerhold, l’esponente più illustre dell’avanguardia teatrale russa, si era permesso di difendere il formalista Shostakovich: prima fu linciato sulla solita “Pravda” come “straniero” anche se cercherà disperatamente di salvarsi allestendo in teatro il classico del realismo socialista “Come fu temprato l’acciaio”. Poi fu arrestato e picchiato, seviziato (il giudice istruttore mi aveva “urinato in bocca”, riuscì a testimoniare prima della morte), torturato con crudeltà inaudita, colpito “con lo stesso bastone su ecchimosi rosso-azzurro-gialle” provocate da un pestaggio disumano affinché confessasse di essere una spia al servizio dei britannici o, a scelta, dei giapponesi. E infine fucilato nel 1940, proprio pochi giorni dopo il ritrovamento nel suo appartamento della moglie, l’attrice Zinaida Rajch, trucidata con diciassette pugnalate. Il destino finora era stato benevolo con Shostakovich. Ma non con Marina Cvetaeva, che si era impiccata a un chiodo con indosso il grembiule delle pulizie, e la cui figlia Ariadna, arrestata nel 1939, trascorrerà ben sedici anni nel Gulag con imputazioni tragicamente risibili. Non con Anna Achmatova, il cui primo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, fu fucilato nel 1921 dagli sgherri della Ceka con l’accusa grottesca di aver partecipato a una “cospirazione monarchica” e il cui figlio Lev fu a sua volta condannato a diciotto anni di lavori forzati, colpevole di aver letto in pubblico una poesia proibita di Osip Mandel’stam. Mandel’stam, appunto, che per aver deriso Stalin come “il montanaro del Cremlino” con “i baffi da scarafaggio” circondato da una “marmaglia di mezzi uomini adulatori” fu prima sequestrato nei sotterranei della tortura della Lubjanka, poi spedito nel Gulag, peraltro mai raggiunto perché il poeta morì durante la deportazione.
Ora, dopo la bomba “deviazionista” di “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, poteva essere giunto il suo turno per il patibolo. Racconta Julian Barnes nel libro Il rumore del tempo dedicato al compositore che, vista l’abitudine metodica di “venire sempre a prenderti nel cuore della notte” con una banda della onnipresente polizia politica, Shostakovich, “piuttosto che farsi trascinare fuori dall’appartamento in pigiama, o essere costretto a vestirsi sotto lo sguardo sprezzante e imperturbabile di un agente del Nkvd, preferiva coricarsi vestito sopra le coperte, con la valigetta pronta per terra accanto al letto. Non dormiva quasi mai, e se ne stava sdraiato a immaginare le cose più tremende”, e perciò alla fine decise di essere ancora più radicale: “Aveva stabilito di trascorrere quelle ore inevitabilmente insonni sul pianerottolo accanto all’ascensore” sempre con la valigetta a portata di mano, pronto per consegnarsi nelle mani dei carnefici. Nel frattempo si arrabattava, nuotava senza far rumore per non andare alla deriva, finire in un lager, o in una cella della Lubjanka, tra le grida dei prigionieri torturati a morte. Con la nuova “Quinta Sinfonia” cercò di giocare disperatamente con i chiaroscuri, con le ambiguità, con il doppio registro, dove le fanfare che celebravano l’apoteosi dello stato sovietico si alternavano a tonalità più malinconiche, pericolosamente vicine alla peste “formalista”. Ma i potenti che disponevano della vita e della morte in un totalitarismo perfetto e implacabile non si fidavano, gli misero alle calcagna un servizievole sgherro con il compito quotidiano di impartire al pericoloso controrivoluzionario lezioni di marxismo-leninismo. E Shostakovich, docilmente, imparava la lezione.
Poi arrivò la guerra, ribattezzata la “Grande Guerra Patriottica” da Stalin (l’epopea che a Putin, novello Stalin, piace molto evocare per “denazificare” l’Ucraina che guarda ad Occidente): per Shostakovich addirittura l’occasione di una sperata riabilitazione. Come ha ricordato Martin Amis nel suo formidabile (e in Italia pressoché ignorato) Koba il terribile, “in mezzo al rumore dei cannoni scrive una sinfonia che esprimerà la violenza omicida sulla città assediata”. Durante l’assedio di Leningrado il compositore messo all’indice entra come pompiere nella difesa civile di Leningrado. Come la Achmatova, che con la maschera antigas faceva i turni nella guardia anti-incendi in qualità di soldato regolare e le cui poesie vengono distribuite tra i soldati per galvanizzare lo spirito patriottico. Shostakovich compone marce per le truppe al fronte, partorisce la grandiosa “Settima Sinfonia” in un “alloggetto di due stanze” e, come scrive Orlando Figes, costretto a comporre “su un malconcio pianoforte verticale” termina il movimento finale, prima di scarabocchiare con inchiostro rosso il titolo dell’opera: “Alla città di Leningrado”. Un’opera che ebbe in tutto il paese un “travolgente effetto emotivo”. Fu trasmessa per radio in tutta l’Unione sovietica ed eseguita come simbolo della resistenza a Hitler anche negli Stati Uniti con ben sessantadue concerti. Nelle sue note solenni, si scrisse allora sulla stampa di regime, si percepisce “l’affermazione profetica della nostra fede nel trionfo finale dell’umanità e della luce”. Dopo l’inferno della persecuzione l’alba di una insperata resurrezione.
Ma con la fine della Grande Guerra Patriottica il grande terrore riprende a far funzionare la sua macchina micidiale. Ecco i nuovi soprusi, le nuove discriminazioni, i nuovi, mortificanti atti di sottomissione. Doveva iscriversi all’Unione dei compositori comunisti e accettarne le continue censure. Senza aver compiuto gli atti servili che il regime richiedeva non gli avrebbero nemmeno dato il permesso di lavorare sulla carta pentagrammata concessa a suo insindacabile arbitrio da un pugno di burocrati. Doveva dichiarare la sua fedeltà al regime sovietico. Componeva musica che poteva essere eseguita solo grazie all’improbabile “sì” degli scherani del tiranno. Miracolosamente passò il vaglio della censura la “Tredicesima sinfonia”, con parole di Yevgeny Yevtushenko, dedicata al massacro nazista degli ebrei a Babij Jar, vicino a Kyiv, che la autorità sovietiche volevano ignorare e ignoreranno fino a quando l’Ucraina non conquisterà la sua indipendenza. Compose anche l’“Ottavo quartetto” ufficialmente un omaggio “alle vittime del fascismo”, ma in realtà, come scriverà la figlia dopo la morte del padre, “dedicato a sé stesso”.
Era un uomo costretto a muoversi come un cane al guinzaglio, costretto ad accettare le intimazioni di un padrone dispotico e capriccioso. Anche in tempi “vegetariani”, apparentemente meno feroci di quelli “carnivori”, veniva esibito come un trofeo in tutto il mondo come il fiore all’occhiello del regime. Era solo un ostaggio, e nel 1949 fu costretto dalle autorità comuniste a partecipare a New York a una grottesca “conferenza sulla pace mondiale” dove doveva recitare il copione dell’artista docile e pronto a versare il suo sangue per la causa dello Stato sovietico. Ne venne fuori un clamoroso happening in cui per sovrastare gli applausi della corte degli intellettuali americani filocomunisti, a cominciare da Lillian Hellman e (purtroppo) Arthur Miller, si era formata una rumorosa pattuglia di altri intellettuali, tra cui Mary McCarthy, impegnata a bucare il pallone gonfiato dei propagandisti di Stalin. Durante la conferenza stampa al Waldorf Astoria Shostakovich, pallido, sudato, in evidente e penoso stato di prostrazione, venne raggiunto dalla domanda di uno dei contestatori.
Una domanda insidiosa, che colpiva nella carne viva un compositore che era stato marchiato con gli stessi insulti che già da tempo in Urss e nei paesi del “socialismo reale” avevano trafitto altri suoi colleghi. Gli venne chiesto infatti se fosse d’accordo con l’accusa di “decadente formalismo borghese” lanciata dalla “Pravda” nei confronti dei cosiddetti “lacché del capitalismo imperialista” e cioè i compositori Hindemith, Schoenberg e Stravinsky. Passarono secondi di angoscia mentre gli sgherri russi che scortavano l’ostaggio sbraitavano come ossessi: “Provokatsija! Provokatsjia!” e alla fine Shostakovich, teso, avvilito, quasi balbettando, “rigido come una bambola”, rispose con uno strozzato “Sì”. Nelle sue memorie il compositore scriverà: “Ricordo ancora con orrore quel viaggio negli Stati Uniti”; nella foto “sorrido ma è il sorriso di un condannato. Mi sentivo un uomo morto”. Dopo vent’anni di messa al bando dell’opera considerata un crimine anti-sovietico, un’accozzaglia di suoni e ululati sovversivi e controrivoluzionari, Shostakovich scrisse una tremebonda lettera al ministro della Cultura per ottenere il permesso di eseguire una nuova stesura, più cauta e depotenziata, di “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”. Ma gli sgherri decretarono opposero un no sprezzante. Ogni tanto qualche oscuro funzionario irrompeva nella casa del musicista con uno scritto che sarebbe stato pubblicato all’indomani sulla “Pravda” a sua firma e di cui Shostakovich ignorava persino l’argomento. Una volta nemmeno lo avvisarono che con la sua firma sarebbe stato reso pubblico un violento attacco a Solzenicyn. Non protestò e ingoiò l’ennesima umiliazione. Tempi “vegetariani” anziché “carnivori”, ma in un’atmosfera fosca e lugubre che non sarebbe stata estranea al carattere di Lady Macbeth.