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il miglior libro del mondo

Manuel Vilas riflette sulla morte, ma sempre con i piedi piantati per terra

Marco Archetti

Con “Il miglior libro del mondo” lo scrittore spagnolo si reinventa postumo, fingendosi suicida al compimento del sessantesimo anno di età. Pagine dopo pagine snocciola elenchi: gli oggetti, i soldi, le cose

Quell’oggetto del desiderio, e mica tanto oscuro. Anzi, chiarissimo. E dichiarato: Manuel Vilas torna con “Il miglior libro del mondo” (Guanda, pp. 345, euro 20) e la buona notizia è che è sempre lui. “Cioè un morto di fame”. Così si è definito in un’intervista per “Tercer acto”, un podcast del Pais, giornale sul quale scrive. Ma proprio per questo, “la mia missione in questa vita – scrive – è cadere in ginocchio per l’ammirazione davanti a cose che la gente non guarda nemmeno”. Pagina dopo pagina, snocciola elenchi: la macchina Nespresso e le sue “ipotesi raggianti”, ossia la gran varietà di marche di caffé; e poi il frigo, i fornelli, la tv, il microonde. I supermercati, luoghi di ammirazione quantitativa. Gli alberghi e il meraviglioso buffet mattutino. Cose del presente e cose del passato come la Seat 1430 dei genitori. Argentata, capote nera, targa HU-1666-A, e tutti i ricordi d’infanzia là dentro, impregnati di fumo materno e di una canzone di Roberto Carlos, Un gatto nel blu, dal lettore Stereo8.

 

Gli oggetti, i soldi, le cose: il mondo di Manuel Vilas, anche se rimanda sempre a un’identità profonda e a una fibra spirituale, lo fa attraverso la luce della materia. “Cos’è l’universo se non una dipendenza dalla materia?”, si chiede nel capitolo (uno dei tanti in cui è diviso il libro, che si compone di quattro parti) intitolato “Le droghe”. “Toccare la materia, a sessant’anni, è importante, mette in fuga il fantasma dell’irrealtà.” E’ sempre la materia – la sacra materia – la protagonista dei vagabondaggi mentali in forma para-romanzesca che sono poi i romanzi troppo manuelvilasiani di Manuel Vilas. Non esiste scrittore che sia scrittore di cose più di lui, uno capace di comporre una splendida dichiarazione d’amore alla vita, in fila dentro un McDonald’s. E di intitolarlo proprio, “McDonald’s”, questo sprazzo di felicità terrena in versi. Vilas ama stare al mondo perché il mondo si tocca, e non perché lo si immagina e basta. Perché ha odori e corpo. E non teme sviolinate naïf. “Quanto poco so di penumatici e quanto devo loro,” scrive. E se vede i morti, Lou Reed compreso (ci ha anche parlato, sostiene che questa capacità gli sia stata trasmessa dalla madre), sa benissimo vedere i vivi. Soprattutto i vivi. Se ne sta al mondo coi piedi ben piantati a terra e lo sguardo altrove: ogni cosa, ogni oggetto, ogni manufatto, ogni traccia visibile e concreta del mondo, per Vilas, è travalicante, è qui e ora ma porta via. Non a Dio, che – sospetta – non esiste e che semmai è un’invenzione di Johann Sebastian Bach. Ma a un modo più denso di amare sé stessi e di incrementare la relazione con l’esistenza. Vilas ama la vita come un folle e la vita lo ricambia, col suo mistero palpabilissimo.

 

Con “Il miglior libro del mondo” si reinventa postumo, fingendosi suicida al compimento del sessantesimo anno di età, gettatosi nel vuoto dal campanile della Chiesa della città romena di Bistrita. Del resto, “ogni essere umano, specialmente uno scrittore, a partire dai sessant’anni comincia a dialogare con la data della propria morte”. Il libro che leggiamo è la sua riflessione (sempre verbosa, sempre leale, e toccante) sull’impossibilità di scriverlo, il miglior libro del mondo. E sarà vero che cerchiamo facile consolazione tra i disgraziati delle Lettere e che alla fine bisogna dimenticare tutto, anche la letteratura, tuttavia Vilas non rinuncia a farsene salvare. Con una consapevolezza: gli scrittori degli ultimi cinquant’anni, rispetto ai grandi maledetti, sono turisti in vacanza nella storia della letteratura. Detto, fatto: sul finale si fa periegetico e ci porta con sé dentro epoche e alberghi di ogni continente, nelle gelaterie di Jaén e a Roma, città del demonio, e a Parigi, con la sua Metro sepolcrale.

 

Ultima scena proprio a Bistrita, con “un desiderio di morte naturale, di fine”. Perché la verità è l’addio, ed è come se l’avesse detto Sixto Rodriguez, fallito geniale. Il miglior libro del mondo – bella notizia, brutta notizia – è sempre la vita.

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