Ansa
Sembra Joyce ma non lo è
La barca di Jon Fosse è sospesa sull'abisso della nostra coscienza inquieta
Il romanzo "Vaim" racconta storie di mare. E lo fa attraverso il flusso di coscienza che ha lo scopo di lasciare emergere di tanto in tanto grossi, enigmatici pesci argentati, provenienti dalle profondità, che, mentre ci stiamo facendo cullare dal rollare calmo e ripetitivo della sua prosa, ci fanno sobbalzare
A distanza di due anni dal conferimento del Premio Nobel per aver saputo “dire l’indicibile”, il norvegese Jon Fosse torna in libreria con "Vaim" (ed. La nave di Teseo). Questo romanzo breve è concepito per essere il primo di una trilogia ambientata nell’immaginario paese di Vaim, costa occidentale della Norvegia, usuale tenuta di caccia della letteratura di Fosse.
Per quanto lui racconti storie di mare, se dovessi spiegare a chi non l’ha letto come scrive Jon Fosse paragonerei la sua scrittura a un fiume. Anche in Vaim, infatti, ritroviamo il marchio di fabbrica di Fosse: il flusso (letteralmente) ininterrotto della coscienza, dalla prima all’ultima pagina, senza mai le rassicuranti (e riposanti…) isole dei punti fermi. In questo, più che marina, la sua penna si rivela oceanica. Tirando le somme diremo allora che la scrittura di Fosse è un fiume-Oceano, proprio come quello che secondo gli antichi circondava le terre emerse. E cosa c’è in queste terre emerse? Quasi nulla. Uno sfondo norvegese colorato a pastello, che sfuma tra sogno e illusione, e si ripresenta praticamente identico in ogni libro. Poiché non è il saeculum che importa a Fosse: a questo autore così pizzicato dal pensiero della morte sta a cuore soprattutto ciò che del mondo si specchia nel fiume (della nostra coscienza inquieta) e nell’Oceano (della nostra infinita profondità).
Ecco perché Fosse sembra Joyce, ma non lo è. Il suo flusso di coscienza non ha lo scopo di descrivere l’aggrovigliata matassa dell’Io, bensì di lasciare emergere di tanto in tanto grossi, enigmatici pesci argentati, provenienti dalle profondità, che, mentre ci stiamo facendo cullare dal rollare calmo e ripetitivo della sua prosa, ci fanno sobbalzare. La barca di Fosse è sospesa sopra un abisso, come l’uomo secondo Pascal: potere del grande scrittore è proprio il saperlo sondare, e restituirci tesori sparsi, in forma di domande. Quali? Per esempio: perché Jatgeir, il protagonista del primo spezzone di Vaim, non sa dire mai di no? Cosa c’entra questa debolezza col fatto di non essere riuscito a prendersi Eline, la ragazza che ha sempre amato? E questo a sua volta col fatto che una mattina lui, ormai vecchio, esca in cerca di ago e filo, pagandolo a carissimo prezzo, pure senza averne bisogno?
E poi: perché l’unico amico di questo uomo debole è Elias, il bigotto del villaggio che in realtà non ha più fede? E perché proprio Frank, il marito di Eline senza midollo e volontà, trova Dio andando per mare? E come mai, in questo romanzo in cui i maschi sono tutti molli, l’unica donna, Eline, impazza sulle acque come il vento, e non conosce requie, adesca uomini e li irretisce, li molla e se ne va, poi riappare, e vuole fare la donna di mondo (come Klara Gulla dell’inarrivabile L’imperatore di Portugallia, di Selma Lagerlöf), ma poi sogna solo di ritornare a casa? E’ Circe o Ulisse? E’ Armida o soltanto una donna fragile?
E cosa significa che sia Jatgeir che Frank hanno una barca di nome Eline, ma uno ama più la donna (“una barca è sempre il sogno di qualcosa”), l’altro invece la barca? E perché nessuno di questi tre personaggi si chiama davvero così? Perché Eline non vuole che nessuno sappia chi c’è nella sua tomba, per cui sulla lapide userà il proprio vero nome? Ago, filo, nomi che vanno e vengono, che non stanno al loro posto, nomi da rattoppare: verrebbe da dire che Vaim sia un romanzo sul tema dell’identità. E’ vero? Non è vero? Per scoprirlo occorre imbarcarsi, come gli Argonauti nell’ultimo canto del Paradiso di Dante: Fosse è un dio nel suo mare, come lì Nettuno; ma lo stupore questa volta sarà soltanto nostro.