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Il Foglio Weekend
La dolce vita di Alberto: alla Festa del cinema di Roma un documentario su Arbasino
A cinque anni dalla morte, quanto ci manca, e non passa giorno che non ci chiediamo cosa direbbe e cosa scriverebbe oggi di casi, casotti, questioni, “tormentoni”, per altro parola inventata da lui, dell’Italia quotidiana e del mondo
Come ci manca. Aveva creato un mito, una piccola setta di adoratori che si scambiavano i suoi pezzi su Repubblica e Corriere (ma anche il Giorno, agli sgoccioli) coi reportage da Cape Cod e le critiche feroci e divertenti anche a pezzi grossi della cultura normalmente intoccabili e intoccati come Strehler o Moravia o Visconti. E poi i libri, nelle edizioni rare o rarissime che scatenavano cacce e collezionismi da feticisti.
A cinque anni dalla morte, chissà quanti si ricordano di Alberto Arbasino (1930-2020): noi nel nostro piccolo si è fatto un filmino, diretto insieme ad Antongiulio Panizzi (già regista del doc su Berlusconi “My Way”) e che esordisce in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma e poi andrà sulla Rai che lo produce, insieme alla sublime Maria Carolina Terzi della Mad che molto ci ha creduto fin dall’inizio, nel progetto arbasiniano, e poi pure Luca Guadagnino; scusate l’auto-marchetta, ma è anche un po’ servizio pubblico; e poi farà (pure!) un salto alla Scala a Milano la settimana prossima, luogo dove tutto è partito, dove sembrerà di vedere il Young Arba dell’”Anonimo lombardo”, romanzo epistolare anni ‘50 tra un concerto e l’altro della Divina (Callas). Però, sì, quanto ci manca, e non passa giorno che non ci chiediamo cosa direbbe e cosa scriverebbe oggi di casi, casotti, questioni, “tormentoni”, per altro parola inventata da lui, dell’Italia quotidiana e del mondo. Cosa direbbe per esempio della flotilla? Immaginiamo già un rap. Già, i Rap, per i più piccini, i suoi Rap poi raccolti in un doppio tascabile erano poemi d’occasione nella tradizione di “Matinée” (il suo libro più bello, che andrebbe tanto ristampato); cronache culturali in versi e “in tempo reale” , uno dei tanti strati di quella meravigliosa Saint Honoré che era AA: scrittore - saggista - romanziere - diplomatico mancato - amuseur plurilingue - viaggiatore.
E pure politico per una breve parentesi. Indipendente nel Pri, il partito più sartoriale d’Italia, usava così, un tempo, un giro in parlamento si faceva. Record di presenze, arrivava prestissimo e rimaneva malissimo dei colleghi che giungevano dopo ore. Era stato assegnato alla “Commissione Affari interni e di culto”, e poi relegato a far le fotocopie, insieme alla collega di disavventura Natalia Ginzburg, come racconta nel doc Silvia Arbasino, figlia del fratello Mario, che abbiamo stalkerato tra Voghera e Milano per farci aprire case e archivi. Voghera è un altro pannello di quella grande costruzione labirintica che era AA: non solo set dell’infanzia delle “Piccole vacanze”, e dei racconti dell’educazione sentimentale lombarda; nella breve e deludente parentesi parlamentare si era dato da fare non su astruse proposte di legge come ci si aspetterebbe da un letterato bensì molto “sul territorio”, per la sua “constituency”, all’americana; e dunque per un allargamento del tribunale del luogo, e per altre questioni locali.
Un altro tormentone era il mancato riconoscimento della “casalinga di Voghera” primigenia, cioè la vogherese Carolina Invernizio, scrittrice all’epoca “infamous” fino a essere definita “l’onesta gallina della letteratura italiana” nientepopodimeno che da Antonio Gramsci, perché scriveva romanzetti rosa-dark tipo “Il bacio di una morta”, mentre oggi sarebbe la regina del “romance” (pronunciato all’italiana, ‘ròmans’, e anche qui chissà che rap avrebbe fatto Alberto) e sarebbe ospite fissa da Fazio, e certamente le farebbero subito il Meridiano. Ma lui con la sensibilità anche pop che lo contraddistingueva aveva fiutato il prodotto e il paradosso (e pure Umberto Eco, che, come racconta lo stesso Arbasino in una puntata di “Match”, programma leggendario condotto dal Nostro, “non è qui con noi perché sta tenendo una importantissima lezione in una importantissima università americana su Carolina Invernizio”). La gagliarda sindaca di Voghera, Paola Garlaschelli, ci ha portato invece tra le strade della sua cittadina per svelarci uno scoop: una strada intitolata alla precursora di tutte le casalinghe esiste, è stata dunque fatta.
Ma la mancanza assoluta di “occhio” e “orecchio” per il pop era uno dei tanti rimproveri che Alberto faceva agli intellettuali italiani che fortemente lottavano per il popolo senza però conoscere le canzoni in voga tra le masse. E Roberto Longhi, storico dell’arte e saggista, era molto criticato dai suoi perché amava invece Mina e osava pure canticchiarne le canzoni. Per Alberto, Longhi era “il più grande stilista del Novecento italiano, insieme a Gadda”, dove per stilista intendiamo scrittore, non sarto (non confondiamolo per esempio con Valentino Garavani, altro vogherese di successo). Longhi è punto di riferimento per due notevoli personaggi che intervistiamo, il primo è Giovanni Agosti, che peraltro sta lavorando a una versione “cult” del romanzo stracult di Alberto, “Fratelli d’Italia”. Come gli adepti di questa strana setta sanno, romanzo sottoposto a variazioni e riscritture almeno quanto i Promessi sposi, ma Agosti, che nel mondo degli appassionati arbasiniani possiede già un feticcio come le bozze originali di quel tomo, vuole chiudere un cerchio, perché a novembre farà uscire per Feltrinelli la prima versione, quella smilza del 1963, annotata e impupata come solo lui sa fare, con quel sistema fichissimo di prendere un libro e costruircene un altro attorno, insomma il format usato già per “Luchino”, esplorazione viscontiana a partire da un testo di Testori uscito tre anni fa (dalla St. Honoré a un gustoso Arba club sandwich).
C’è poi un sommo allievo di Longhi, Alvar González-Palacios, uno dei massimi storici dell’arte e della decorazione, che abbiamo braccato nel suo gattopardesco appartamento romano (perché questo è un film anche e soprattutto di case. Del resto su quella di Agosti la Triennale di Milano fece una mostra apposita qualche tempo fa). Il formidabile cubano racconta anche la fascinazione di Alberto per le principesse e in particolare per una che poi era stata trasfigurata nella “Desideria” che è un po’ la Oriane de Guermantes dei “Fratelli d’Italia”. Protagonista di una scena “clou”, a una riunione mondana, quando una “commoner” le chiede “scusi signora”, ella risponde sdegnata: “Signora sarà lei” (abituata a sentirsi dare piuttosto dell’eccellenza, o magari a spassarsela con tipacci veramente trucidi, nella finzione, non sopportando solo ciò che sta in mezzo, perché come insegna il baron de Charlus, “detesto il genere medio. O le principesse o la farsaccia”).
Nel film scopriremo finalmente dove e quando avvenne, l’increscioso episodio, nella realtà (non a Spoleto! Choc per gli arbasiniani!). Bellissima e ricchissima e coltissima in un settore, quello delle principesse romane, generalmente un po’ smandrappate, la “vera” Domietta aveva fatto l’arredatrice in qualche film di Visconti (“Gattopardo” e l’episodio “Il Lavoro” di “Boccaccio ‘70” con Romy Schneider) ed era vista con sospetto nella capitale dalle sue omologhe meno international. E qui si apre il solito angosciante dilemma: a parte Domietta-Desideria, che ci trovava AA in queste principesse e duchesse e contesse appunto smandrappate? Secondo Masolino D’Amico, figlio di Suso, la sceneggiatrice (nada vota) del Gattopardo, e grande amico di Domietta, in realtà Alberto con quelle dame si annoiava. Marisela Federici tenne alla sua leggendaria villa Furibonda varie feste a cui Alberto era presente, una nello specifico dedicata al vescovo esorcista Milingo - da cui subito un Rap - che veramente sembra pura “Dolce vita” (compreso il monsignore africano che benedice Gianfranco Fini e donna Assunta Almirante). Secondo Marisela, Alberto in quei party prendeva spunti importanti, e non c’è dubbio che la mondanità più o meno principesca – tra gli altri strati di questa enorme barretta proteica che è stato Alberto per la letteratura italiana – era un suo magico ingrediente per poi comporre la sua “Recherche” del Grande Raccordo Anulare. La mondanità poi simmetricamente era anche uno dei capi d’accusa mossi contro di lui dal “sistema”, che non l’ha mai veramente integrato né digerito.
Il giovane studioso Pier Giovanni Adamo si chiede come sia stato possibile che non sia mai stato fatto in Italia un convegno universitario dedicato al Nostro, ma forse sfuggire all’accademia è stata paradossalmente la sua salvezza. Famoso in una nicchia, mitizzato dagli ammiratori e i lettori, Arbasino non è mai diventato, diremmo oggi, “mainstream”: troppo elegante, benestante (magari poi meno di tanti altri che però affettavano la povertà, come si dovrebbe fare anche oggi), pochissimo gregario, non interessato ad ambientare romanzi nel classico format del realismo magico “nonna-testamento-sud riarso ed aspro”, ma anzi in un’Italia industriale e contemporanea; né soprattutto disposto a firmare gli appelli giornalieri dei “giusti”, che allora come oggi qualificano The Real Italian Writer (de Sinistra), con i premi e gli onori conseguenti. E l’Impegno che oggi scorre su Instagram e TikTok in comode “card” già pronte sul tema del momento, ma allora chiedeva soprattutto “firme. Due, tre, dieci al giorno, su tutti gli argomenti e tutti i paesi: Grecia, Bolivia, Malesia, Messico, Cecoslovacchia, Costarica, India, Persia, Brasile, Filippine, Guatemala, Nicaragua, Cuba, Haiti, Libia, Paraguay, i due Vietnam, le due Irlande, le due Germanie, le due Coree, venti o trenta nuovi Stati africani oppressi o iniqui, la crisi del cinema, le nuove tendenze del teatro, le nuove forme del romanzo, gli spazi verdi, i movimenti dell’avanguardia, gli aiuti per le rivoluzioni, i sussidi per le ribellioni, le sovvenzioni per le insurrezioni, i versamenti anticipati per le rivolte, le biennali, triennali, e quadriennali, i festival, i convegni, le iniziative, le manifestazioni, le partecipazioni, i coinvolgimenti, i dibattiti, e tutti i problemi dei giovani. Moravia ha sempre già firmato”.
Moravia ha sempre già firmato! Questo pezzo è degli anni Sessanta, per dire, quando Moravia era il capo delle lettere italiane. Il risultato: Arba sarà sempre considerato un “originale”, un “eccentrico” come del resto in vita l’altro suo maestro Gadda, mai scrittore veramente “serio” in un paese dove peraltro il comico è ammesso magari dai letterati esteri, ma lo scrittore italiano quello no, deve essere necessariamente palloso, “perché il lettore sennò ha sempre il dubbio che si rida di lui”. Lui invece faceva molto ridere. Pur avendo scritto anche di cose serissime, come i saggi sul caso Moro. E poi spietato col giornalismo cialtrone, coi tic dementi, con gli inutili eventi. Ecco un altro Rap sul tema fondamentale della gratuità del lavoro culturale e i seccatori: “Grazie per il cortese invito / al Vs programma”, “Roba di pochi minuti” / per il servizio “Non remunerati”. Rispondendo solo a una impegnativa / di una V/s amministrazione competente / o controllata / anch’io Vi invito a un Evento / ancora più esclusivo e intrigante / nel mio appartamento. L’allestimento / consiste nel pulire il pavimento / lavare le tende degli anni Trenta / rivisitare le molle dei letti / degli anni Quaranta / e riparare tutti i rubinetti / degli anni Cinquanta. Al Vs. intervento / ci tiene specialmente / la Sora Cecia, vecchia lavorante come quella serva / della Vs. mamma”.
Ai dibattiti verbosi (magari su libri usciti nei rispettivi paesi trent’anni prima, da cui la famosa “Gita a Chiasso”, cioè il consiglio di mettere il naso fuori ogni tanto), preferiva prender su e andare, e magari stare sei mesi in California tornando poi con reportage ancor oggi pazzeschi, con dentro Isherwood e Kissinger e Capote che qui nessuno conosceva (e giù altre invidie dei colleghi ciancicati e impegnati). Oppure semplicemente stava chiuso a lavorare, nell’attico comprato in tempi in cui si poteva, o almeno lui poteva, in via Gianturco 4, a Roma, indirizzo mitico per noi appassionati; sul citofono ci sono ancora le sue iniziali, ma purtroppo i nuovi proprietari non ci hanno fatto accedere, e la casa è stata ribaltata, ma gli arredi di Alberto sono stati quasi interamente ricostruiti al Gabinetto Vieusseux di Firenze, dove siamo andati all’inaugurazione. E lì, esperienza “immersiva”; la poltrona Eames su cui scriveva, l’Olivetti elettrica, e soprattutto il leggendario fax-segreteria con cui si schermava dagli scocciatori (che sogno, sarebbe, oggi). Con messaggi registrati del tipo: “Gentili e Pregiati Utenti e Corrispondenti, a causa dell’eccessivo traffico urbano di richieste e domande nelle abitazioni private, in mancanza di enti o uffici per smistarle si prega di rivolgere ogni questione unicamente attraverso il fax”; o ancora: “Gentili Amici, Amiche, Istituzioni, Associazioni, Fondazioni, Iniziative, Enti ed Eventi, ecc. a causa dell’accresciuto flusso quotidiano di innumerevoli richieste di varie incombenze e prestazioni per chicchessia, ciascuna con incessanti seguiti di corrispondenze loquaci, si fa ben educatamente presente che non è umanamente possibile dar corso o via libera a ulteriori verbosi scambi di cortesi telefonate e lettere!”.
Un altro filtro con l’esterno erano le cartoline, che ho usato come “medium” e “fil rouge”, parole che Alberto odiava, inserite in un elenco che comprendeva “punta dell’iceberg” e “filo del rasoio” o l’onnipresente “Gotha” (chissà cosa direbbe oggi di “apericena” e “smart working” e “normalizzare” e “letteralmente” e tutti i tic dello stupidario 2025). Ne accumulava a centinaia di cartoline, nei frequenti viaggi oppure anche semplicemente dal Duomo di Milano, e poi mandava la fida governante Graziella a spedirle, ad amici e conoscenti. Il possesso della o delle cartoline oggi certifica i veri arbasiniani dagli spuri postumi (come la citazione nel testamento-opera d’arte, che comprendeva regali a tutti con vari ordini e gradi); la cartolina poteva fungere da ringraziamento per un pranzo (che lui chiamava colazione) o una cena (dunque, pranzo); oppure per una recensione di giornale; oppure come segnalazione di qualcosa di notevole che aveva visto (Agosti spulciando tra le sue centinaia di cartoline arbasiniane ritrova un Poussin fondamentale, che poi andrà sulla copertina del “Fratelli d’Italia” ultima versione Adelphi). Ma altre recavano dipinti visti in qualche museo e di cui Arbasino componeva, fittissimo, un mini saggio nello spazio ristretto di quella pagina postale. La scrittura negli ultimi anni si restringeva sempre più, mentre la malattia e l’età procedevano spietate. Fino a raggiungere il massimo della rarefazione nel suo “classico” (per gli amici) “Auguvi! Auguvi! Gvazie, gvazie!”.