L'Italia dei fratelli d'Italia

Sessant'anni fa il romanzo di Arbasino, che raccontava il boom e scandalizzava i salotti

Michele Masneri

Oggetto di culto, romanzo-conversazione, “da leggere entrando e uscendo come a un party”, sosteneva l’autore. Il manoscritto in cassetta di sicurezza e il mistero del “romanzo nel romanzo”, così simile a “Petrolio”. Poi, mai più fiction

Certo chiedere oggi in libreria “Fratelli d’Italia” rischierebbe di suscitare reazioni improvvise nei commessi fisici riflessivi, e chissà che accoppiamenti e suggerimenti verrebbero fuori invece dall’algoritmo di Amazon (è un attimo che ti arriva “Io sono Giorgia”, o l’opera omnia della Giubilei editori). Però, per i fortunati che ancora non l’avessero scoperto, leggere invece l’opera di Alberto Arbasino che uscì 60 anni fa nel fatale 1963, sarebbe un colpo al cuore.

 
Le avventure molto “Satyricon” di un gruppo di giovanotti molto gay e chic in piena Italia del boom, tra principesse, Capri, Cinecittà, marchette, prime alla Scala, scopate, festival di Spoleto, appassionano certamente più che le tenzoni della corrente “Gabbiani” del Colle Oppio. Oggetto di culto anche fisico, quel romanzo: come si sa, gli arbasiniani sono anche collezionisti, e, inserendosi nel solco manzoniano, “Fratelli d’Italia” uscì in varie edizioni, completamente riscritte, come un organismo che cresce e ingloba tutto. La prima da Feltrinelli, gialla, la stessa del Gattopardo (e Bassani, direttore della collana, non lo voleva); poi in una rinforzata Einaudi ’76 con Poussin in copertina (la preferita dai puristi); infine in quella colossale “monstre” Adelphi nel 1993 di oltre mille pagine (con gran presentazione al casino dell’Aurora dalla principessa nera Ninì Pallavicini). Romanzo-conversazione, “da leggere entrando e uscendo come a un party”, sosteneva l’autore, opera mondo che restaura articoli e saggi reimpastati e riscritti secondo la tecnica imparata dall’amato Edmund Wilson (“articoli che diventano saggi che diventano romanzi”), causò scompensi nelle patrie lettere non solo per l’uso della lingua – quel “sound” parlato che poi l’epigono Pier Vittorio Tondelli gli avrebbe riconosciuto, ma anche per la strepitosa fotografia di quell’Italia lì, quella del paese che cambia, con le automobili, gli industriali, i ragazzi di vita, i cialtroni; e poi invece gli immutabili italiani, gli eventi, le cazzate, le frivolezze, l’intellettualismo ideologico. E’ “Il sorpasso” versione queer (ma invece della Lancia Aurelia B24, una MG “celeste pervinca come i miei begli occhi”). Come tutti i romanzi su Roma, finisce col morto.  


Anche, una strepitosa presa per i fondelli del mondo intellettuale che non è mai cambiato: tra redattori che ti chiamano all’ultimo per chiederti un pensoso pezzo da fare in mezzora quasi gratis, solo che all’epoca precisavano “lo lasci giù in portineria”, e oggi aggiungono invece “tanto è per l’online”. Non c’era ancora l’economia circolare del pdf, per cui ormai chi legge i quotidiani è anche chi vi collabora, ma il demi monde, i dibbbbattiti, la cattiveria e i pettegolezzi erano gli stessi (solo, con più buffet e in appartamenti che si potevano comprare scrivendo, oggi pare incredibile. Come la casa di via Gianturco, off piazza del Popolo, acquistata “senza vergogne commerciali alle spalle”). 


Una gran cultura orale, di chiacchiericcio, di cazzeggio, tra Roma e Milano, che finì tutto in questo romanzo sterminato. Anche, tutto un “chi è chi”, che fece impazzire la società letteraria e i clan (“clan Moravia” e “clan Visconti” per primi), mentre si era nel pieno del “Gruppo ‘63”, tribunale impopolare con gli sberleffi ai padrini della letteratura (per primo, il povero Bassani).  Adesso, a sessant’anni, un po’ di spoiler postumo si potrà fare; ecco dunque l’orrido poeta Elvezio Bustini, a suo agio solo tra i ricchi più conservatori, che è naturalmente Montale, che tutti oggi riconoscono esser stato veramente un mostro. E la sua dante causa, la mitica contessa Gazzaniga, patronessa di tutte le arti, era basata su donna Mimina Brichetto, tenutaria di un leggendario salotto letterario in via Sant’Andrea a Milano, frequentato da Luigi Einaudi, Verga, Montale, Pirandello, Piovene, Croce: la sua foto insieme al filosofo stava sulla scrivania della nipote Letizia Brichetto Moratti quando fu ministro dell’Istruzione, a Roma. La contessa Gazzaniga aveva avuto ospite Somerset Maugham in casa, ma non sapendolo pronunciare non l’aveva neanche riconosciuto, salvo rincorrerlo fino in strada per farsi autografare i libri quando aveva scoperto che quel “Maugham” era in realtà “Mahmmmm”. Finzione o realtà? La Brichetto vera si muoveva tra il castello di Carimate ristrutturato a fine Ottocento in quel gusto eclettico-Harry Potter dell’epoca dal conte Bernardo Arnaboldi Gazzaniga, conte partigiano-golfista (un unicum). Castello poi venduto e trasformato in golf club (da cui la sedia di Vico Magistretti, la Carimate, disegnata per la club house). E il castello invece più piccolo ma ancora di proprietà di Cigognola, con vasti vigneti di Bonarda ancora in funzione, ristrutturato dal “principe degli architetti”, Tomaso Buzzi, quello della villa Volpi a Sabaudia (citato nel romanzo). 


Visto che poi siamo in tempi di anniversari agnelliani è d’obbligo ricordare che la protagonista del romanzo, Desideria,  altri non è che Maria Laudomia del Drago-Hercolani, per gli amici (e i nemici) Domietta. Gran musa d’Arbasino, aristocratica romana peculiare, in grado di fare innamorare l’Avvocato, in quanto più principessa ancora della docile Marella. E capricciosa, curiosa, altera, facile alla noia, insomma un suo alter ego perfetto. Nella fiction che mai nessuno farà su casa Agnelli, un capitolo dovrebbe esser dedicato a lei, con i tucul a Tor San Lorenzo e le fughe a New York coi polsi tagliati, perché quella storia avvocatesca finì nel dramma. 


Milton Gendel nel numero di maggio 1964 di Vogue America ne fece un lungo profilo. Sosteneva che Ian Fleming l’avesse messa in un suo romanzo spionesco. Poi passava a rilevare, con l’enfasi di questo tipo di pubblicistica, che “è subito chiaro che non  è una persona come le altre. L’essenza della sua bellezza appare subito sostenuta e anzi rafforzata dalla forte personalità racchiusa in una così attraente fisicità. Parla fluentemente italiano, inglese e francese e può essere eloquente e intensa indifferentemente con un poeta sconosciuto, un famoso regista o un deputato”. L’articolo, intitolato “Princess Laudomia Hercolani: A Roman Beauty with the Salt of Wit and Generosity”, sottolineava anche che l’eloquente intensità di Domietta poteva immediatamente cessare, lasciando il posto a silenzi anche lunghissimi, come avrei potuto poi verificare io stesso. 


La nascita era monumentale e cupa: era cresciuta, solissima e ricchissima soprattutto da parte di mamma, una delle mitiche sorelle Balestra, in un castello nella campagna romana, con precettori e dame di compagnia; di quegli anni le era rimasta la capacità di parlare correntemente in latino, cosa che stupiva i cardinali. Aveva sposato giovane il bolognese Andrea Hercolani, ottenendone ulteriore blasonatura principesca. Lei la vedevo in piccole colazioni soprattutto a Pasqua da Bianca Riccio con Alberto, cercando di ritrovare dietro l’aspetto austero e il micidiale silenzio la Desideria scatenata dei “Fratelli”. Famosa per i Balenciaga, ai tempi leggendari. Ma quando la vedevo io era soprattutto in nero e Hogan spiritose con brillantini (in questo, buona per uno stile “Fratelli d’Italia” anche per oggi alla Garbatella). E bracciali d’oro massiccio a forma di serpente. Alternando silenzi a battute micidiali degne dell’Avvocato (“ma dove va con quelle calze da infermiera”, e poi  “era sempre in ordine, e allo stesso tempo sempre in disordine”, di una moglie di fondamentale industriale).


Aveva prestato i propri arredi per qualche film dell’amico Visconti (“Il Gattopardo”, sì, ma anche l’episodio magnifico “Il lavoro”, di “Boccaccio ’70”, in cui è tutta roba sua), ma non è quasi mai citata nei credit, non ne aveva bisogno. Ed era stata famosa per i bagni di sole, nuda, sui terrazzi del palazzo del Drago alle Quattro fontane, che per un passaggio genealogico era finito nelle mani dei reali di Spagna (una certa “reina gubernadora”). Lì poi aveva operato in qualità di bibliotecario un certo Winckelmann. Insomma, robba forte. Famosa anche per essere una principessa intellettuale e anticonformista in una città nota per la sua aristocrazia non proprio da esportazione. Faceva regali spiritosi, Domietta. Un’amica mi raccontò d’aver ricevuto, in clinica, invece dei fiori canonici, come dono post partum, un boa di struzzo,  rosa. E qualcun altro narrava che in mancanza di contanti, tra una sciata e l’altra, Domietta si era slacciata il Rolex lasciandolo al Caminetto, a Cortina, in pegno. Capricciosissima, anche: capace di gettare in mare i piatti e tutti i contenuti in un ristorante che non la soddisfaceva, imitata pure da tutta la tavolata internazionale, deliziata di quella trovata. E a Porto Ercole inseguiva sul suo Riva Superacquarama Truman Capote e Gloria Guinness a bordo del panfilo Rosenkavalier (coincidenze: l’opera preferita d’Alberto). Tutte storie poi finite in “Fratelli d’Italia”, dove Desideria butta appunto i piatti in acqua, oppure cambia umore in un secondo, passando dal farsi maltrattare da dei maschi alfa brutaloni “switchando” immediatamente al ruolo di bi-principessa, dunque accettando solo riverenze ed “eccellenza”. 


Mai, comunque, niente di mezzo. Mai “signora”. Anzi, quel “signora sarà lei”, che Desideria ruggisce in faccia a una dama rivale al Festival di Spoleto, che le si era rivolta con un improvvido “signora”,  è tutto vero, cambiati solo i nomi (e la leggenda continua, con certi Schifano incommensurabili lasciati in eredità da Domietta e passati in asta recentemente…). 


Alberto era bravissimo e ossessionatissimo del resto a non cadere nel guaio masochistico in cui tanti finivano, di scrivere la verità. Il capostipite dei masochisti era naturalmente il nemico Truman Capote. Il quale con “Preghiere esaudite” era riuscito a inimicarsi tutte le amiche-cigno che gli davano accesso a barche e aneddoti, facendo capire subito di chi si trattava. Arbasino non finiva mai di ricordarlo, come volendo allontanare da sé quel fantasma. 


Anche “Fratelli d’Italia” entrava di rigore nel novero delle grandi opere gay novecentesche che “uccidono il loro autore” (la morte poteva avvenire sia per la mole del libro che per le sue conseguenze sociali, dunque consunzione del suo scrittore come in Proust con la “Recherche” o per la sua messa al bando come Capote con le “Preghiere esaudite”). “Cosa credete, che fossi lì solo per divertirvi?”, sosteneva Capote, instillando il dubbio che la frequentazione di quei ricchi e potenti fosse finalizzata solo a registrarne tic e cazzate. E chissà se dietro quel terrore di poter anche lui commettere quello sbaglio non ci fosse invece in Alberto una voglia, un desiderio profondo: e se avesse adorato liberarsi di tutte quelle vecchie ricche e sussiegose cui mandava i suoi libri, e che difficilmente sapevano decifrarli? Del resto a Roma non c’è villa o palazzo almeno marchionale che non abbia le opere d’Arbasino firmate e dedicate, tra quei coffee table book segnati dai cerchi dei drink e mai aperti. 

 

Ma lui aveva fatto una scelta di campo; “meglio un marchese coglione che un professore universitario”, almeno nell’uso delle lingue straniere. Però certo, tutte quelle contesse e principesse, che fatica (a loro manca tanto. Recentemente, una mi ha fermato: “ma lo sa che il termine ‘smandrappata’ lo ha coniato per me?”. So’ soddisfazioni). Il povero Truman aveva operato un eccesso di legittima difesa: con quel libro, solo iniziato, tutti si imbufalirono, Marella ci rimase malissimo, qualcun’altra si suicidò: come noto Ann Woodward, cocotte molto erotomane che si era piazzata nella meglio società americana, ma quando il marito scoprì le sue malefatte passate e presenti e volle il divorzio ella preferì ammazzarlo a fucilate, ma finì tutto insabbiato grazie al potere della famiglia acquisita. Salvo che l’amico scrittore anni dopo racconta tutto. E’ una delle tante storie di “Preghiere esaudite”, la digressione lunga 14 pagine, tempo di cottura di un “soufflé Fürstenberg” presso il Côte Basque. Adesso si dovrebbe veder tutto nella prossima serie tv di Ryan Murphy (e chi altri), dove a interpretare Ann Woodward sarà Demi Moore. 


Con Capote e Arbasino, anche, estati in barca e in villa chez Agnelli a Maiorca. A un certo punto arriva un fidanzato molto basico di Capote – e Jas Gawronski recentemente mi diceva che tentò di far conversazione con questo fidanzato malmostoso (“è mai stato in Europa prima?”; e quello, “come no: sono appena stato a Città del Messico”). Capote era colpevole, secondo Alberto, di eccessive adulazioni alla casata torinese, che poi finivano in articoli su Vogue America, in cui l’autore celebrava l’ospitalità Fiat, con biancheria  cambiata freneticamente e interfono per staff operativo accaventiquattro, dettagli considerati cheap e trash  da Arbasino (che del resto sullo stesso Vogue trattava di temi “alti” come le figure femminili nel romanzo di D’Annunzio. Che anni! Che editoria!). 


Ma su Capote lo “stile Alberto” crollava nel bullismo: forse anche quel grande era alla fine invidioso (del successo internazionale, delle entrature, dello “standing” capotiano). Così fa un’introduzione al Meridiano Mondadori dedicato allo scrittore americano di incredibile perfidia. Racconta degli scherzi telefonici cui Capote veniva sottoposto in varie ville fondamentali italiane (“presto! C’è Donna Marella al telefono”, veniva fatto annunciare: lui correva stravolto fino all’apparecchio, e i cattivi poi mettevano giù. Again and again). Oppure, di quando Capote arriva in visita a Roma con la moglie dello sceriffo che l’aveva aiutato nelle ricerche per “A sangue freddo”, e nella loro goffaggine tra taverne romane e centurioni i due sembrano una coppia di turisti americani middle-class (e dunque vengono immediatamente soprannominati “The Trummy and Mommy Show”). 


Anche “Fratelli d’Italia” a un certo punto, come i vari pezzi mai trovati di “Preghiere esaudite”, finì chiuso in cassette di sicurezza. E anche in “Fratelli d’Italia” c’è un piccolo mistero: nell’edizione ultima, quella Adelphi del 1993, c’è uno strano “pezzo” finale, una specie di romanzo nel romanzo che nelle versioni precedenti manca. È lungo circa una sessantina di pagine, ed è diversissimo dal resto del libro: narra di una Roma tra Dolce Vita e scenari postatomici, è una storia che riguarda l’Eni e la fine degli idrocarburi, e c’è dentro tanta politica: insomma, è molto “Petrolio”. Ed è curioso che il romanzo postumo di Pasolini esca nel 1992, mentre questa terza stesura dei “Fratelli” un anno dopo. 


Qualcuno pensa che sia il famoso romanzo “perduto”, quello che Arbasino a un certo punto gettò via per sempre. Perduto nel senso di mai portato a termine: Alberto parlava infatti di un libro mai finito. Qualcuno di cui si fidava gli disse che non era un granché, e lui ringraziò molto di quell’osservazione, e semplicemente lo fece scomparire. Ma non in un posto qualsiasi: risucchiato e inglobato nell’opera a cui aveva dedicato tutta la vita.   
 

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).