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Nuove uscite
Di Segni, Lerner e gli ebrei in guerra, o quasi, sulla guerra di Israele
Difendere il buon nome dell’ebraismo senza attaccare Israele, senza scusarsi di essere ebrei davanti ai disastri della guerra di Gaza, pur non approvando l’operato di Netanyahu, è possibile. Un libro
Il dialogo fra il rabbino e il giornalista (Ebrei in guerra, di Riccardo Di Segni e Gad Lerner, Feltrinelli, 176 pp., 16 euro) inizia con un chiarimento, con la cancellazione di un malinteso che però, come tutti i malintesi di questi tempi, aveva preso la forma di un’accusa pesante: Lerner chiede ragione al rabbino capo della comunità di Roma, Riccardo Di Segni, della denuncia avanzata da Anna Foa, e cioè che nella libreria ebraica del ghetto, che fa capo alla comunità, non si vendano i libri critici nei confronti di Israele, come quello di Lerner o di Anna Foa stessa, mentre in vetrina campeggiano tutti quelli a favore. Di Segni risponde accompagnando il messaggio con una foto del libro di Lerner insieme allo scontrino della libreria che porta la data del giorno stesso. I libri ci sono, e sono in vendita se richiesti, ma non sono esposti perché contrari alla linea della libreria. Se è concessa un’osservazione personale vorrei ricordare qui, sommessamente, che in questi mesi ho visto campeggiare nelle vetrine di tutte le librerie della penisola solo i libri di Foa, Lerner, Albanese… e mai uno di linea interpretativa diversa. E non mi sembra che nessuno abbia mai protestato.
Il dialogo fra i due esponenti dell’ebraismo italiano, quasi coetanei, come ricorda Lerner, con storie familiari per alcuni aspetti simili, si sviluppa all’inizio in questa modalità: Lerner attacca, con passione e con la forza di chi ha dalla sua parte la maggioranza dell’opinione pubblica, Di Segni si difende con pacatezza, schivando sempre la scorciatoia politica. Dimostra cioè che si possono difendere il buon nome dell’ebraismo senza attaccare Israele, senza scusarsi di essere ebrei davanti ai disastri della guerra di Gaza, pur non approvando l’operato di Netanyahu, o alcune delle sue decisioni, in particolare le parole sciagurate di alcuni dei ministri del suo governo. Chiaramente, le radici di questi due opposti atteggiamenti – di chi come Lerner pensa di salvare dalle critiche Israele e quindi gli ebrei attaccando il governo attuale, e quello di coloro che dall’altra parte pensano che invece difendere gli ebrei richieda comunque capire le ragioni del governo israeliano – tali radici, dicevo, stanno nella diversa spiegazione che le due parti danno della recente ondata di antisemitismo che sta dilagando nella società europea e anche italiana.
Per Lerner il rinato antisemitismo è perlopiù causato dal comportamento di Israele, dal disastro di Gaza, ma soprattutto è enfatizzato in modo strumentale per minimizzare gli attacchi che sono in realtà rivolti al governo israeliano. Per Di Segni, invece, “non è che la gente che vede che Israele è cattivo diventa antisemita”; in realtà, a quel punto, vedendo come stanno le cose, molti cominciano a manifestare apertamente un antisemitismo in realtà latente da tempo. La posta in gioco, secondo Di Segni, è più alta, e non si può ridurre alle reazioni al conflitto in corso, ed è proprio per questo che la situazione si presenta come potenzialmente pericolosa per le comunità ebraiche. Fanno bene dunque le comunità a cercare di presentare un fronte comune: “Gli ebrei in Italia non sono un gregge di pecore, ognuno ha la sua idea, anche sulle politiche del governo israeliano. Se i dissensi non emergono moto mediaticamente è perché prioritaria è la preoccupazione per la sicurezza dello stato e degli stessi ebrei della diaspora. Si aggiunga poi la consapevolezza che in ogni caso anche le eventuali critiche al governo israeliano non sarebbero mai in grado di far calare il livello di antisemitismo. Anzi, una tale denuncia verrebbe di sicuro usata come ulteriore prova della malvagità ebraica “, dice il rabbino. Per quanto mi riguarda non esito a confessarlo: mi sento spinta a dare più spazio alle ragioni di Di Segni per un motivo semplice: quelle di Lerner sono oggi scandite nelle piazze, ripetute nei dibattiti televisivi, e in gran parte dai giornali. Ascoltare una voce che si difende e che non ha abitualmente ascolto mi sembra più importante.
Lerner introduce anche un problema che per entrambi i dialoganti ha importanza, soprattutto per ragioni generazionali (entrambi hanno militato a sinistra negli anni delle rivolte studentesche) e familiari (provengono tutti e due da famiglie impegnate nell’antifascismo): quello dell’opposizione della sinistra alle ragioni ebraiche. Opposizione che, ricordano entrambi, è iniziata ai tempi della guerra del Libano nell’82 e non si è più interrotta. Opposizione che, per certi aspetti, ha portato le comunità ebraiche a un accordo con le destre, nonostante il loro passato antisemitismo. Un nodo politico difficile da risolvere, che risale alla propaganda sovietica antiebraica degli anni Cinquanta, e resta senza soluzione.
L’aspetto comunque più nuovo è la voce di Di Segni, il suo punto di vista al di là degli interventi ufficiali, il suo accettare di mettersi in gioco con forza e pazienza, mosso dal dolore che lo attraversa a causa del conflitto apertosi fra gli ebrei italiani. Per i lettori – ebrei e no – le sue sono senza dubbio ragioni inedite, ragioni da scoprire. Colpisce soprattutto la consapevolezza del rabbino di rappresentare un universo complesso in cui mille sono le idee e le interpretazioni, un mondo in difficile equilibrio fra una appartenenza religiosa vissuta in certi casi anche in modo esasperato, e una identità ebraica che si riconosce solo come laica. Una comunità complessa e conflittuale anche qui nella diaspora, ma che ha un obiettivo comune da affrontare con urgenza, quello di sconfiggere al più presto il nuovo antisemitismo.

Il Foglio Weekend