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Lovigino e Peppe Misso, canti di sangue
Dal sogno del riscatto alla lotta tra clan della camorra, al pentimento. Amici e poi rivali, e pure romanzieri e parolieri. Sangue e musica, sangue e letteratura. Binomi impronunciabili. Eppure è andata così
"Un mosaico imbottito di polvere da sparo”: così l’ex boss camorrista Luigi Giuliano definiva Forcella, il quartiere storico di Napoli di cui fu padrone, nella ballata “Era di notte” pubblicata su YouTube giusto sette anni fa, il 25 settembre 2018. Non ha mai difettato di metafore poetiche né di spregiudicatezza criminale Lovigino o Lovegino, soprannome che ne attestava anche i giovanili successi romantici favoriti dagli occhi azzurri e dalla vena artistica: mentre ordiva un omicidio, componeva testi di canzoni diventate classici della produzione neomelodica. Persino quando costituì e capeggiò il cartello Fratellanza napoletana, che avrebbe intrapreso e vinto la cruenta guerra contro la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, Lovigino sedeva al pianoforte su cui una sera l’ex amico d’infanzia, e poi acerrimo rivale Giuseppe Misso, lo sorprese a strimpellare le note del Padrino.
Anche lui, Peppe Misso ’o nasone, è assurto alla storia criminale sovraneggiando su un altro emblematico quartiere, il Rione Sanità, che sta a Napoli come Trastevere a Roma. E anche lui ha coltivato i talenti artistici prima e dopo la collaborazione con la giustizia. Giuliano s’aprì ai magistrati nell’autunno del 2002; Misso tra la fine del 2007 e il 2008: se lo cercate su Wikipedia, lo troverete come “romanziere”. La prima opera, terminata fra arresti e scarcerazioni, fu I leoni di marmo, ristampata dopo essere andata quasi subito esaurita per l’inconsueto interesse di una fascia di lettori che normalmente ignorano le librerie. La consacrazione editoriale di Misso è arrivata però nei mesi più recenti: a novembre 2024 Mondadori gli ha pubblicato il romanzo verità Verso un probabile giorno dopo, la frase che chiudeva I leoni di marmo di cui il nuovo libro è l’ideale prosecuzione. Per lo stesso editore, Teresa Ciabatti è uscita ad aprile scorso con Donnaregina, frutto del suo incontro con l’ex boss e con una realtà per lei remotissima (e noi che credevamo ingenuamente Il vecchio e il mare fosse un capolavoro anche perché Hemingway sapeva pescare).
Frattanto Luigi Giuliano non è rimasto inoperoso: costretto a vivere lontano da Napoli, in Molise, si è diplomato come paroliere con Mogol e nel 2022 ha pubblicato con il giornalista Simone Di Meo Combattere o morire, primo volume di una saga autobiografica intitolata Nuova Famiglia: la vera storia. Se fosse rispettato, il piano dell’opera insidierebbe per mole la Recherche proustiana: il progetto originario prevede altri cinque tomi. Malgrado il pentimento di Lovigino, dei suoi numerosi fratelli e il mutamento degli scenari delinquenziali intervenuto nei decenni, lo stemma araldico dei Giuliano non è stato mai completamente ammainato a Forcella. L’abbondanza delle diramazioni familiari, che portino o meno quel cognome, ha riproposto spesso in cronaca nera qualche nipote, cugino o affine, e i ciclici contrasti parentali hanno spostato gli equilibri ma non hanno estinto l’egemonia. Nella cosiddetta casbah napoletana si perpetuano anche i nomi di battesimo di una stirpe che fondò l’edificio della prosperità sul contrabbando dell’immediato dopoguerra, grazie al capostipite Pio Vittorio e ai suoi fratelli; sicché i Luigi, i Salvatore, i Nunzio si ripetono da una generazione all’altra anche se è tramontata l’epoca dello strapotere sui traffici illeciti cittadini, quando si stappava champagne per Diego Armando Maradona ospite di famiglia.
Eppure, nonostante dissociazioni e pentimenti abbiano sgretolato la mitologia criminale dei Giuliano, il glamour del passato sollecita ancora alcuni animi. Quando nelle settimane scorse si è diffusa la notizia che Lovigino, ormai fuori dal programma di protezione, sarebbe tornato a vivere in quei vicoli, l’opinione pubblica s’è divisa. Chi contro e chi no, però la legge è legge: ora lui può abitare dove vuole e forse, prossimo ai 76 anni, l’ex capoclan intende godersi la vecchiaia laddove nacque e crebbe, nel quartiere il cui vetusto simbolo è la “Y” riproducente la diramazione della strada, che diede il nome a Forcella e ne segnò la successiva ambiguità dei destini. Persino il motto del seggio municipale, “Ad bene agendum nati sumus”, avrà fatto riflettere in più di un’occasione sia l’onesta maggioranza dei residenti sia i malfattori e chi li perseguiva.
E’ arduo giudicare la diramazione di quei sentieri. Solo pochi mesi fa Nunzia Giuliano, figlia di Carmine, fratello di Luigi stroncato da una malattia a cinquantun anni nel 2004, ha lanciato sul mercato la collezione di profumi “’O Liò”. L’etichetta con l’immagine di un leone sulle confezioni fa riferimento al padre, conosciuto appunto col soprannome di ’o lione. La giovane imprenditrice, di un’avvenenza mediterranea tipica della famiglia, ha precisato che l’iniziativa non è un’esaltazione camorristica ma un omaggio al papà di cui è “fiera e orgogliosa”. La maggioranza dei follower, stando ai commenti su Instagram, condivide e apprezza. E’ innegabile un certo consenso popolare che resiste al tempo: quando nel 2011 morì Amalia, mamma di Nunzia, vedova di Carmine e sorella del boss Raffaele Stolder, le strade si riempirono di gente per una cerimonia dalla scenografia sontuosa con il carro funebre tirato da sei cavalli neri. Sarà che a Forcella, come alla Sanità, hanno serbato tradizioni che nemmeno le sognano i “cafoni”: così gli affiliati ai clan del centro storico etichettavano i camorristi dell’Alleanza di Secondigliano, anche quando i boss della periferia napoletana presero il sopravvento (atteggiamento che non impedì alla sorella di Lovigino, Erminia detta Celeste per via degli occhi, di avviare una relazione extraconiugale con Patrizio Bosti, tra i capicosca dei secondiglianesi).
“Quella dei Giuliano non la si può raccontare come una mera storia criminale”, avverte lo storico delle mafie Isaia Sales, “ma è piuttosto l’epopea di una famiglia del sottoproletariato urbano che è vissuta a stretto contatto con i professionisti borghesi di via Duomo senza mai mischiarsene, una sorta di tribù nel pieno centro storico il cui sangue non si è diluito con quello di altri ceti. Però, mentre la nuova leva delinquenziale pensa di farsi strada solo con i soldi e la violenza, quelli come Luigi Giuliano e lo stesso Misso, nonostante la reciproca rivalità, condividevano un tratto unico rispetto alle altre criminalità organizzate: il bisogno della legittimazione culturale per sentirsi qualcuno. Quasi una rivalsa, una forma di riscatto per dire al mondo che se ne avessero avuto i mezzi si sarebbero guadagnati un nome in altro modo”.
Quando il più piccolo e feroce fratello di Lovigino, Raffaele, cercò di strozzare Misso nella sezione dei collaboratori di giustizia del carcere di Rebibbia, il boss della Sanità si fece cogliere alla sprovvista perché era immerso nelle pagine del Ritratto di Dorian Gray, che assieme a Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij e a Il dottor Semmelweis di Céline fu tra le sue letture preferite in quel periodo di detenzione. Difficile pensare che uno così fosse accusato di 182 omicidi tra commessi e commissionati, anche se ha sempre precisato di essere un “fuorilegge”, non un mafioso, un “prelevatore”, non un ladro, uno che proibì al suo clan lo spaccio di stupefacenti e le estorsioni: “Fin da giovanissimo avevo sempre pagato il conto in tutti gli esercizi commerciali, e mai consentito a chicchessia di mancare di rispetto alle persone che lavoravano onestamente. Non percepivo un solo centesimo dai traffici di droga e dalla vendita al dettaglio di quella porcheria. Questa la mia mentalità. Questa la mia legge. Ecco perché la gente mi voleva bene e mi rispettava”.
Funziona spesso, non soltanto a Napoli, la rodata terna borbonica “feste, farina e forca” per un consenso popolare cui anche Lovigino aspirò tra la sua gente: “Ho cercato sempre di restituire a Forcella quello che io mi ero preso con la forza altrove”, spiegò nell’autobiografia, perché “Forcella era un piccolo mondo a parte. Dove tutti si aiutavano, tutti si volevano bene e tutti erano pronti a sacrificarsi l’uno per l’altro” (ma come non ricordare, anche se lui non era più lì, il proiettile vagante sparato da un Giuliano che uccise la quattordicenne Annalisa Durante nel 2004).
Amici per la pelle da bambini, giocando a cavalcioni sui due leoni di marmo fuori del Duomo, Luigi e Peppe sognavano di conquistare un regno senza sapere che il suo nome era Napoli e che davvero, in alterni periodi e per effimera epopea, ci sarebbero riusciti prima di detestarsi con tutto il cuore. Il “re” di Forcella disse che a dividerli fu innanzitutto la politica: Peppe sognava un ritorno al fascismo, ma quando faceva il saluto romano all’amico veniva solo da ridere. Misso argomentò tutt’altra storia: gli ripugnava il delirio di onnipotenza di Lovigino, la mancanza di morale, l’inclinazione al tradimento dei suoi famigliari e poi la droga. Ricordando il passato, Giuliano ha ammesso senza peli sulla lingua: “Napoli era affamata di cocaina ed eroina. E noi rispondevamo alle richieste del mercato senza farci troppe domande. Senza troppi scrupoli etici o morali”.
Finché a dicembre del 1987 accadde un dramma che sconvolse la famiglia: un’overdose di eroina uccise il figlio diciassettenne di Nunzio, il primogenito dei fratelli Giuliano. “Fu uno dei primi casi in cui chi controlla il traffico di droga ne rimane anche vittima” ricorda Sales “e la vicenda di Nunzio da quel momento assunse connotati di tragedia greca”. Ruppe con le attività illecite del clan, se n’andò a vivere al capo opposto della città, divenne un testimonial contro droga e camorra nelle scuole e nei convegni, compose poesie. Quando chi scrive queste righe lo frequentò, sembrava coltivasse davvero l’“Ad bene agendum nati sumus” disatteso a Forcella: vorace lettore e ascoltatore di musica jazz, Nunzio s’esprimeva nei toni pacati di un intellettuale. A fatica lo si sarebbe immaginato fratello di Raffaele, il quale negli accessi d’ira non risparmiava nemmeno i familiari: Lovigino, nella citata ballata, lo ricorda quando durante una lite gettò la moglie Elvira dal balcone al terzo piano (“corsi disperato / m’inginocchiai piangendo / una mano le toccai / le dita ancora calde / le dissi: ‘ce la farai’”).
Fu per vendetta trasversale, dopo la collaborazione giudiziaria dei fratelli, che Nunzio venne fatto fuori mentre guidava la moto nel primo giorno di primavera del 2005. Un omicidio (impunito) di cui la famiglia sospettò proprio Giuseppe Misso e fu questa la ragione di quella aggressione nel carcere di Rebibbia, anche se gli assassini furono probabilmente mandati dall’Alleanza di Secondigliano con l’intento di attribuirne la colpa al boss della Sanità.
Né i turisti né la maggioranza dei napoletani lo sospettano, però è possibile che il volto di Nunzio lo conoscano tutti perché non sarebbe ispirato a un operaio, ma proprio a lui, il famoso murale di quindici metri del patrono di Napoli realizzato da Jorit su un palazzo all’imboccatura di Forcella. Una certa somiglianza c’è, ma Misso ne è del tutto convinto: l’opera “dovrebbe rappresentare san Gennaro, ma in realtà raffigura ‘san Nunzio Giuliano’ con la mitra in testa, la cui famiglia detta ancora legge in quel quartiere, e nessuno si scandalizza. Evidentemente il pittore è stato tratto in inganno, gli avranno fatto credere che la foto era quella di un altro”.
Alla guerra di piombo, tra i due ex bambini dei leoni di marmo si è sostituita da molto tempo una battaglia di parole; anche dopo che si sono conclusi i rispettivi percorsi giudiziari, sono diventati due anziani che non se la perdonano, antagonisti irriducibili come quelli descritti da Conrad ne Il duello. Rievocando san Gennaro e il Duomo, che è casa sua, non si può tacere una vicenda che vide al centro proprio lui. Il patrono. All’epoca uniti ancora in sodalizio, Lovigino e Peppe avrebbero progettato il furto del suo inestimabile tesoro. Il piano, studiato nei dettagli, giunse allo stadio più avanzato e ricalcava quello immaginato nel film di Dino Risi “Operazione San Gennaro”: provetti conoscitori del sottosuolo, avrebbero condotto l’assalto dalle fogne. Se stavolta si deve credere all’ex boss di Forcella, “l’impresa era tutt’altro che difficile”. Lui però, preso da scrupolo, decise di abortirla: “Saremmo diventati i ladri più famosi della storia ma saremmo diventati pure ladri senza patria, senza onore, senza dignità. Avremmo vissuto nella ricchezza in una città che ci avrebbe odiato, guardato con orrore e odio. Perché il tesoro di San Gennaro non appartiene alla Curia né al Vaticano. E’ l’unico tesoro al mondo che appartiene a un popolo, il popolo napoletano”. Come vi appartengono loro due, Giuliano e Misso, con tutti i morti che fecero, le canzoni e i libri che hanno scritto e scriveranno, i film o le serie tv che forse (ancora!) ispireranno. Sangue & musica, sangue & letteratura. Binomi impronunciabili. Eppure è andata così.

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