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L'editoriale dell'elefantino
Armani non poteva morire in pace, la guerra celebrazionista è una bolgia di chiacchiera tra paradiso e inferno
Il diritto negato a Re Giorgio, sommerso da un overtourism funebre fatto di eulogie stanche, applausi fuori luogo e biografie collettive. Perché esagerare stanca anche la memoria
Sopra tutto, niente pettegolezzi: il defunto ne aveva orrore. Quando la barca dell’amore si infranse contro lo scoglio della vita quotidiana, come reca il biglietto d’addio, il suicida Majakovskij chiese di morire in pace e affidò al governo moglie e amante. Attività lodevole in sé, oggi impossibile, trapassare senza gli scossoni dell’overtourism funebre. L’applauso ai funerali. Il torrente in esondazione dei commenti. Si è Re o Maestro di qualche cosa. Come per il grande Armani, si è disciplina e amore e onore nazionale. Se poi ci sia di mezzo una copertina di Time e la fama mondiale, che guaio. Baudo e Fede sono stati salvati dalla provincia nazionale, e anche intorno a loro però si è scatenata una guerricciola di ricordi, di mezze verità, di falsi sfrontati, di eulogie mal preparate. Ma Re Giorgio no, non poteva morire in pace, la guerra celebrazionista nel suo caso è un chiasso amorevolmente bestiale, una bolgia di chiacchiera tra paradiso e inferno. Uno merita di vivere, fa cose, primeggia, eccelle su tutto e tutti, ma egregia cosa, che il forte animo accende, sarebbe poi lasciare il mondo senza strepito, insepolcrirsi nella calma di mare, con una brezza lieve che accompagna l’oblio nella sua notte, senza i venti della successione, dell’agiografia, che è un pettegolezzo dissimulato, una biografia collettiva scritta o pronunciata da gente che non ha ancora meritato di morire, tantomeno in pace.
Dal goditi la vita, che è breve e ce n’è una sola, al goditi la morte, che è istantanea e anch’essa senza duplicati. Morire riguarda poco e pochi, il sommerso dovrebbe essere lasciato al minimalismo dei veri ricordi sussurrati e non gettato in pasto alle definizioni postume gridate, a immagini e parole sempre troppo belle, curate come una vetrina personalmente acconciata da uno stilista. Se dicono di te che hai liberato la donna con il greige e la giacca, e ridimensionato il maschio con la mise senza le spalline, ti diminuiscono senza saperlo. Gli uomini sono oggetti misteriosi, quelli di Piacenza e di Voghera misteriosi il doppio. Ciascuno di noi è titolare di una mezza verità, la cattedra che conta è quella dell’onore e del piacere, quando si muore andrebbe ritirata in silenzio la pedana, la compostezza di un buon obituary, che qui cercammo di introdurre copiando gli anglosassoni quasi trent’anni fa, è una collana di fatti senza troppe aggettivazioni, non una collanina che il defunto non avrebbe mai indossato. Capisco il rispetto per la Grandeur di un uomo e creatore, di un businessman incomparabile, di un volto bellissimo e amatissimo, ma sento il bisogno, in morte di qualcuno, specie se grande, di quelle sei parole che stanno nei calendari di tutti i cellulari. Nessun evento oggi. Non hai impegni.
La morte non è greige, ma nera. Misterioso segnale che gli autocrati rifiutano anche solo di considerare, alludendo tra loro ai trapianti dai cuori di maiali e babbuini, e la celebrazione della vita ha il limite della vita stessa, che è in sé bugiarda e inconclusa proprio quando finisce. Da un certo punto in poi abbiamo fatto dell’estrema unzione, sacramento in disuso, un suono stridulo e pervasivo che richiede di lasciare le orecchie a casa. Esagerare stanca anche la memoria.