
(Ansa)
L'opera
Il carnevale di Kraus
Drammaturgo, polemista, smascheratore militante. Colui che origliò il mondo prima degli altri e lo rivelò ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”. Un’epopea tragica che è al contempo apoteosi e negazione del teatro
All’inizio del 1924 – ero tornato a Vienna da poche settimane – fui portato per la prima volta da amici a una sua lettura. La grande sala da concerto era piena zeppa. Io sedevo molto indietro e, da quella distanza, potevo vedere ben poco: un uomo piccolo, piuttosto gracile, un po’ curvo in avanti, con un viso che finiva a punta, di una inquietante mobilità, che non riuscivo a capire – aveva in sé qualcosa di una creatura sconosciuta, di un animale scoperto solo ora, non avrei saputo dire quale”. Elias Canetti scatta questa fotografia a Karl Kraus, la superstar, il Criticone, l’uomo-proposizione per eccellenza – “era la sua unità di misura” scriverà Roberto Calasso.
Veniva dalla Boemia. Famiglia ebraica di lingua tedesca, ultimo di nove figli, il padre era proprietario di una fabbrica di carta. Ma sarà per sempre e per tutti, contemporanei e posteri, “il viennese”. Scoliotico e miope, a tre anni girava per la capitale austriaca imbracciando il suo bene più prezioso, un teatrino delle marionette, e non c’era verso di convincerlo a liberarsene. Si sentiva sperduto e minacciato, un piccolo selvaggio ingoiato da strade nemiche e labirintiche. Il fratello maggiore Richard, di temperamento più pragmatico, ogni volta che usciva portava con sé un pane intero. E questo è tutto quel che c’è da dire sugli albori della formazione di uno come Karl Kraus, certamente difficile da definire, ma facile da ritrovare prendendo tra le dita proprio il capo di questo filo: le strade, le marionette, l’angoscia costante. A proposito della sua opera massima, “Gli ultimi giorni dell’umanità”, lui stesso la sintetizzerà così: “Personaggi da operetta che recitano la tragedia dell’umanità”. Ma cos’è davvero questo capolavoro che sfugge a ogni tentativo di metterlo a fuoco, così legato al suo autore eppure così libero, tanto escogitato ma in realtà naturale, arioso, perfino aerostatico, capace di offrire uno sguardo dall’alto eppure mai distante da ciascuno dei numerosissimi personaggi che racconta?
Una tragedia nata irrappresentabile, “concepita per un teatro di Marte”. Un totale di dieci giorni consecutivi di messa in scena, di fatto irrappresentata nella sua interezza – Kraus la negò a tutti gli illustri registi che gliela chiesero, come Piscator e Reinhardt. In Italia la portò in scena Luca Ronconi nel 1991 con Massimo De Francovich nei panni del Criticone, su youtube se ne può vedere una versione per la tv. E, soprattutto, scritta attraverso un processo additivo che avrebbe potuto essere anche infinito. La sua edizione editoriale definitiva e completa (che definitiva non poteva dirsi, al massimo “più completa delle precedenti”), uscì più o meno cent’anni fa, tra il 1922 e il 1926, dopo che l’autore ne aveva dato lettura, per brani, stralci e porzioni, già da dieci anni. Novecento personaggi, un preludio, un epilogo e duecento scene – “cento scene e cento inferni” scriveva Kraus – per oltre settecento pagine di un copione che non è un copione ma è una slavina infinita, un’enorme pietra che rotola e tumula l’umanità e la Storia. Epopea senza epos, marionette al circo, una partitura per caos e ordine. Operettona apocalittica e smodata, comica e tremendissima. Un gigantesco Compieta, sogno cruento in cui “le più crude invenzioni sono citazioni” e i cui ipotetici spettatori dovrebbero posporre “il diritto di ridere dal dovere di piangere”. Maestosa apoteosi del teatro e tombale negazione del teatro, “musica della vita” e luogo in cui “le frasi fatte stanno su due gambe mentre agli uomini ne restava una”, rumore di ferraglia in forma linguistica e lingua meccanica e vivente, “Gli ultimi giorni dell’umanità” sono una delle imprese più solenni della storia della... della letteratura? (Ma quale?) Della Drammaturgia? (Epica o tragica?) Della Storiografia visionaria? (Esiste?)
“Gli ultimi giorni dell’umanità” è innanzitutto la tragedia di una lingua. Tutti a citare e stracitare George Orwell – ormai lì, pericolante, sul ciglio dell’incitabilità causa logoramento e della riduzione a trovarobato per acculturati – ma è stato Karl Kraus tra i primi ad “ascoltare” le parole e a constatarne le trasformazioni e le mistificazioni. A intuire, prima di Wittgenstein, che le forme della vita sono legate alle forme del linguaggio. Kraus sentiva le voci e quelle voci riportava sulla carta, la loro musica e tutti i bemolle, le inflessioni dialettali e quelle fesse, da manipolazione ufficiale, i falsetti blesi e le nenie, le sovratonalità e le risignificazioni, le melodie eroiche e gli inni selvaggi, perché è nelle parole che cova il tradimento, l’offesa, l’oscena scelleratezza di un’epoca che “dichiarò guerra a Dio”. Chi è stato, in fin dei conti, Karl Kraus? Uno scrittore? Un drammaturgo? Un polemista? Uno smascheratore militante? Karl Kraus fu linguaggio che pensava un linguaggio che non pensava più sé stesso. E sapeva trasformare quel linguaggio svuotato in autoparodia, in pistola puntata alla propria stessa tempia, in carnevalesco carro di maschere – “le maschere,” scriveva, “durano oltre le ceneri”. Sono opere-referto, quelle di Kraus. Parole di un linguista moralista rigorosamente rancoroso (“mago irato” lo definirà l’amico Georg Trakl, che morirà al fronte in Galizia), di una vivacità contundente e letale, che registra la corruzione della lingua e se ne scandalizza.
E sente, col suo orecchio assoluto, che nel disordine della grammatica e del lessico palpitano lugubremente tutti i sintomi, gli allarmi e i sinistri scricchiolii di una civiltà che stava permettendo un irreversibile pervertimento dei valori umani. “Quanto più da vicino si osserva una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”. E siccome l’arte è sempre strabica, e con un occhio guarda alle latrine e con l’altro alla via Lattea, ecco qua servito il carrozzone dei mostri, cioè degli uomini, dei normalmente ripugnanti e dei leccaculo sempiterni, dei carnefici che si credono vittime e dei parassiti che “cianciano vacuamente presso una bara”, ecco tutte le allucinazioni acustiche che un tempo erano ancora le parole. Ecco l’evocazione dei vivi che saranno morti, ecco i grandi sacrificati, gli agnelli da trincea, i tonitruanti cacasotto, i laidi pugnalatori alle spalle, gli uomini per tutte le stagioni, le ambiziose nullità, le larve e i lemuri, ecco un’epoca che ha sangue e non carne, e più inchiostro che sangue, e straparla, strascrive, stramaledice, la stramaledetta. Ecco un mondo “che non è scosso nemmeno dal proprio crollo”, dai cui lombi non nascerà un’epoca capace di comprendere, perché – come dichiarerà il Criticone, alter ego dell’autore la cui voce saccheggia numerosi articoli di Kraus scritti per il giornale “La fiaccola” – “io conservo documenti per un’epoca che non li capirà più, o che vivrà così lontana da quanto accade oggi, che dirà che ero un falsario”.
La documentazione è fedele, il puntiglio linguistico anche. E lo è soprattutto quando il carnevale krausiano impazza, quando la sfilata si fa sfrenata e multicolore, tanto più cronaca quanto più è allucinazione perché “Gli ultimi giorni dell’umanità” reinventano la realtà servendosi di iniezioni di realtà, è un’opera grandiosa che si autoinnesta continuamente, scritta e letta per anni, e per anni modificata, arricchita, reimmaginata. Brulica di mutilati, invalidi, ciechi, deliranti, bambini, mendicanti, sportelli ferroviari, truppe, ufficiali, medici, ricoverati, sentinelle, boia, mezzeseghe, strilloni, speculatori tremebondi, strozzini addobbati, gozzovigliatori scravattati, puttane canterine, convalescenti, feriti, semimorti e moribondi, guardarobiere e teatranti, opulenti capitani, straccioni in divisa, membri dell’Ufficio stampa militare, bande e orchestre – una ressa infernale, una nave dei folli, un cancan, schiere vocianti e spiritelli che danzano. “Gli ultimi giorni dell’umanità” comincia a Vienna, una sera d’estate, sul viale del Ring. Capannelli di cittadini, e lo strillone che annuncia: “Edizione straordinaria! L’assassinio dell’erede al trono! Arrestato il colpevole!”. Un passante guarda la moglie e fa: “Meno male che non è un ebreo”. E la moglie: “Vieni a casa”.
Le prime letture del dramma satirico-apocalittico più grandioso del secolo si tennero a Vienna, nel 1915. Kraus era già una star delle letture pubbliche – ne farà settecento in tutta la vita. E si protrassero negli anni. I suoi concittadini riempivano le sale in cui Kraus, come un medium, evoca spiriti che erano al lavoro in quel momento, evocava i vivi come se fossero morti, confondendosi con la folla e tuttavia spiccandone, allestendo col solo teatro della voce e dell’intonazione – il suo tono poteva accendersi violentemente e all’improvviso – la copia di un mondo riscritto e riarrangiato per coro, stridori e trombette. Colletto inamidato, lenti ovali e statura miseranda, Kraus era il demiurgo gigante di tutte le voci, il guardiano del faro che scaglia verso un pubblico di uditori adoranti e quasi in mistica trance, tutti i sensi trasfigurati del proprio terrore davanti all’esplosione delle forze irrazionali e della selvaggia imbecillità umana. “Cresciuti in un’epoca di sicurezza”, scriveva Ernst Jünger a proposito della Prima guerra mondiale, “sentivamo il bisogno dell’inconsueto, del grande pericolo. E allora la guerra ci afferrò come un’ebbrezza.” Poi si rivelò tutt’altro – “una turbina alimentata a sangue.”
Kraus non parlò mai molto della guerra in astratto e in generale non teorizzò alcunché, pochissimo attratto dalla speculazione. Era un uomo della matassa che si fa mentre si fa, non certo un intellettuale che cerca un sistema. La sua intelligenza era rapace, uccellesca, tipica di chi va in picchiata, ghermisce e vola via. Era dotato di orecchio clinico e di maestose suscettibilità, sempre chino a studiare materiali di propaganda, articoli di giornale, manifesti, e pace se qualcuno non capiva. Come Max Brod, che lo accusò di aver visto sempre e solo i sintomi, non le cause. E di concentrarsi, mentre la guerra stava infuriando, su banali manifesti pubblicitari. Plateale dimostrazione, quest’accusa di poco sale, di quanto il mondo abbia bisogno dei Karl Kraus, capaci di vedere dove gli altri nemmeno guardano, perfettamente abilitati alla decifrazione del mondo attraverso ogni suo segno, soprattutto quelli inintellegibili, quelli cifrati, in un gioco che riconosce lo spaventoso tra le fessure del vacuo o del buffonesco. E poi forse non esistono sintomi che non alludano alle cause, e viceversa – essere capaci di leggere il dritto e il rovescio, questa sì, è facoltà di pochi eletti.
E infatti è proprio di tanto inquietanti attiguità che si racconta ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”. Del fatto che la pace è costuita sulla guerra, che l’innocenza è intrisa di sangue e che la folla, la calca, la cosiddetta pubblica opinione, è ondivaga e atroce, conformista e violentissima, benintenzionata e fetente. Le guerre sono fatte per essere dimenticate. Per poterne dichiarare altre. Per noia. Per divertimento. Perché non se ne poteva fare a meno. E il nemico è solo “una nuova forza coi vecchi emblemi”. Non ha senso cercare le responsabilità della tragedia mondiale, perché ciò che a Kraus salta agli occhi (e alle orecchie) è l’irresponsabilità diffusa – la politica è solo effetto di scena, e giornalisti e parrucchieri si scambiano il lavoro.
Karl Kraus è questo disinteresse per le conclusioni. E’ uno scrittore che ricomincia sempre la propria opera, non perché affetto da penelopismo patologico, da un fa e disfa funzionale a qualcosa, ma perché è inevitabilmente nel cuore del tempo. E lì vuole stare. Kraus è eternamente contemporaneo a ogni lettore presente e futuro. Il premio Nobel mancato più scandaloso della storia europea, spietato scoccatore di frecce in forma di aforismi, l’autore che si autocorresse continuamente e che per cinque atti citò sé stesso senza cadere mai nel ridicolo o nella ripetizione (nemmeno quando si ripeteva), aveva quel che Elias Canetti definì “la sostanza assassina”. E ce l’aveva in comune coi suoi grandi fratelli di frusta – Aristofane, Giovenale, Swift, Gogol’. Kraus ha origliato il mondo per noi e continua a consegnarcelo vivo con “Gli ultimi giorni dell’umanità”, capolavoro indefinibile e quasi indecente per capacità di sovrastare qualsiasi cosa sia stata detta o scritta sulla guerra e sugli uomini. Un dramma che mette in dubbio la sopravvivenza dell’umanità, sconquassata, nell’ultima scena, da un fulmine. Infine, la voce di Dio. E Dio dice: “Io non l’ho voluto”.