Susan Lynch e Paul Rhys ne Il maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, diretta da Simon McBurney al Barbican di Londra. (Foto Getty)

Il fantasma Bulgakov

Marco Archetti

Prima di elevarsi fra gli scrittori più importanti della letteratura russa, è stato l’ombra di se stesso in mezzo ai veti del regime sovietico. Con la speranza, lettera dopo lettera, di ottenere un po’ di libertà

“Michail Afanas’evic chi?”. Quando la rivista Moskva, nel 1966 e con prevedibile scalpore, pubblicò “Il maestro e Margherita”, il suo autore – tal Bulgakov nato nel 1891 a Kyiv (“sfondo magico”, dirà Giovanni Buttafava, “stirpe di preti”, preciserà la sorella) – era un assoluto Carneade. Di chi si trattava? Di un giovane autore? Di un vecchio drammaturgo? No, di un mezzo sconosciuto. Fino a quel momento, giusto un vecchio cultore della materia avrebbe potuto ricordare che, una sera di quarant’anni prima, al Teatro d’Arte di Mosca, aveva assistito a “I giorni dei Turbin”, una pièce di successo portentoso, tolta dai cartelloni nel 1929 e mai più proposta fino al 1954. Ma dopotutto chi ricordava i nomi dei drammaturghi, a distanza di tanti anni, nella terra degli Vsevolod E. Mejerchol’d, dei Konstantin Stanislavskij, degli Aleksandr Tairov?

 

             

In ogni caso, per la maggior parte della gente e per quasi tutti i lettori – salvo quelli dei samizdat, che al massimo avevano letto “Cuore di cane” – quel nome suonava nuovo o del tutto ignoto. Certo, sfidando ipotesi fantasiose e immaginando un nonno medico con la memoria di un elefante, avrebbe forse potuto saltar fuori un titolo, “Appunti di un giovane medico”, pubblicato trentanove anni prima da una rivista di settore e poi fatto cadere nell’oblio. Ma a remar contro, anche le vicissitudini politiche: nel 1930 la Commissione aveva comunicato a Michail Bulgakov il veto sulla rappresentazione di qualsiasi suo dramma – gliene avevano già bloccati quattro, tutti prontamente stroncati dai critici della Rapp, l’associazione russa degli scrittori proletari – e da quel momento nessun teatro porterà mai più in scena un suo testo, decretandone così il tramonto definitivo proprio negli stessi anni in cui emergerà come drammaturgo, trionfando con “La cimice”, Vladimir Majakovskij, il nemico di sempre, rivale al tavolo da biliardo così come in letteratura. 

 

Dopo il veto della Commissione nel 1930, nessun teatro porterà mai più in scena un suo testo, decretandone così il tramonto definitivo

                      

Nel 1936 lo scrittore romperà ufficialmente il rapporto, ormai solo formale, con qualsiasi teatro di prosa, e riprenderà a lavorare per conto proprio a un romanzo che non pubblicherà mai da vivo e di cui aveva buttato giù qualche pagina nel 1932 con l’idea di scrivere una storia sul diavolo – “Il maestro e Margherita” appunto. Insomma, Michail Bulgakov, nel 1966, era il nome di un fantasma

Ma da quale momento uno degli scrittori più importanti della letteratura russa del Novecento aveva cominciato a non esistere? E perché era stato trasformato in un morto in vita, costretto a vagare, ombra di se stesso, di perorazione in perorazione, di lettera in lettera (a Stalin, poi!), di supplica in supplica, sperando di ottenere, se non il permesso di esserci, se non un passaporto provvisorio per un’esistenza a tempo nella vaghissima speranza di venir rappresentato e letto, almeno il diritto di andarsene, di non avere più niente a che fare con un paese tanto ostile?

Difficile dirlo con certezza. La traiettoria nasce, in fondo, già in declino. La prima pubblicazione risalirebbe al 1920 col feuilleton “Le prospettive future”, uscito sulla rivista “Groznyj” e firmato con le sole iniziali. Era un’epoca in cui darsi alla letteratura era una frivolezza imperdonabile, Bulgakov era uno stimato medico specialista in malattie veneree (aveva aperto uno studio a Kyiv, nella casa di famiglia) e aveva partecipato alla difesa della città contro l’occupazione di Petljura, dunque – domanda – perché rovinarsi la reputazione? Risposta: per essere libero. O almeno così sembrò pensarla Bulgakov l’anno dopo, quando dopo una lunga degenza causa tifo, incitato da alcuni amici come Osip Mendel’štam e irreversibilmente depresso per via della disfatta dei bianchi nel Caucaso, credette che, per non vedersi dipendere dal nuovo potere, sarebbe stato meglio fare lo scrittore che il medico. Errori di calcolo determinanti per un’intera esistenza. 

Per lo scrittore di Kyiv inizia a farsi fosca proprio nel 1925, il suo annus horribilis cominciato nel migliore dei modi: la pubblicazione degli “Appunti di un giovane medico”, un secondo racconto lungo pubblicato da Nedra, “Uova fatali” (ma col titolo “Il raggio rosso”), la lettura pubblica di “Cuore di cane”. Sì, certo, “Appunti sui polsini” conosceva qualche traversia – “sono inautorizzabili”, fu la sentenza del censore Sarycev. E ad aprile dello stesso anno uscirà, nel numero 5 di Rossija, solo la seconda parte de “La guardia bianca” – non la terza perché la rivista verrà chiusa, l’editore Kaganskij era fuggito senza saldare i debiti. Ma niente meno che il Teatro d’Arte di Mosca, diretto da Stanislavskij, lo contattò per affidargli una riduzione per la scena di questo suo romanzo senza ultima parte, scritto tutto di notte mentre la prima moglie Tat’jana cuciva accanto a lui, e letto l’anno prima in qualche serata alla Lampada Verde. Qualche ombra ma, sostanzialmente, buone premesse. La possibilità di lavorare alla drammaturgia di un proprio romanzo e di ridargli quella vita che la chiusura della rivista gli aveva tolto. E invece è l’inizio della fine.

 

Il 1925 iniziò nel migliore dei modi: pubblicò molti suoi scritti e venne contattato dal Teatro d’Arte di Mosca, diretto da Stanislavskij. Ma fu l'inizio della fine

                 

“Non chiusi occhio tutta la notte, giravo per la stanza, bevvi del tè freddo e immaginavo di vedermi esposto in libreria. Una quantità di gente entrava e chiedeva il numero della rivista. Nelle case la gente leggeva il mio romanzo alla luce delle lampade; alcuni leggevano ad alta voce. Dio mio, com’ero stupido! Ma io allora tutto sommato ero giovane, non è il caso di sghignazzare alle mie spalle”.

Bulgakov scrive queste righe, attribuendole al protagonista Maksudov, in “Romanzo teatrale”, il suo lavoro più implacabile e amareggiato. Eloquenti i titoli dei primi quattro capitoli: Cominciano le avventure, Un attacco di nevrastenia, Il mio suicidio, Mefistofele; si prosegue con: Fatti insoliti, Una catastrofe. Gigantesco sassolino nella scarpa, il romanzo è debitorio proprio delle serate tra scrittori alla Lampada Verde ma è soprattutto una pungente resa dei conti verso il teatro, mondo di torbidi trabocchetti, labirintico e kafkiano – ambienti fumosi in tutti i sensi, false porte, cunicoli, tendaggi, mistero, tutti che ascoltano tutto e nessuno che parla chiaro. Maksudov viene sballottato qua e là, in balìa come una marionetta, come un K. qualunque. Certe ambientazioni ricordano proprio “Il processo”, arricchito da quell’indefinibile Bulgakov’s touch che fa “Diavoleide” di ogni barbaglio e grottesco di ogni amara verità, sia quelle rivelate, sia quelle non rivelate. 

Quelle rivelate sprofondano il povero Maksudov, sempre più dilettante, sempre più a disagio nella capitale, in un inferno fiammeggiante dove tutto gli si oppone. Un romanzo comico che è tragicissimo. Ed è un commiato, è l’opera di un defunto che non è mai stato vivo, che è stato solo un’esistenza ipotetica nel lutto permanente di una vita materiale resa impossibile dal regime sovietico, che lo perseguitò con attese vane, veti inamovibili e umiliazioni crescenti. Meglio morire? Meglio essere fucilato? Era auspicabile la sorte che era toccata a tanti come lui, non conformi al realismo socialista e alla sua inflessibile catechesi, tuttavia mai spediti in Siberia? Nella storia della letteratura russa ci sono i tacitati e gli eliminati: da che parte ci si doveva augurare di stare, constatata la propria inadattabilità all’obbedienza? Si poteva trovare un modo, una via per continuare a scrivere?

Domande che ha riformulato il drammaturgo spagnolo Juan Mayorga con lo spettacolo “Lettere d’amore a Stalin”, testo del 1997 che mette in scena un Michail Bulgakov condannato a rivolgersi al dittatore in maniera ossessiva, supplicandolo di vedersi concedere almeno mezza possibilità di pubblicazione o di messa in scena, o di essere espulso dall’Unione sovietica. Bulgakov: da scrittore a maniaco epistolare. Bulgakov che a un certo momento sembra trovare un senso nella domanda perpetua, nell’inseguire un altro fantasma, nel sentire una misteriosa consanguineità col dittatore, attraverso un’assenza che li tiene uniti più di qualunque consistenza – una vita che riguadagna significato, compreso quello di scrivere, attraverso la specularità tra un dittatore muto e uno scrittore ammutolito.

 

Il Bulgakov messo in scena da Mayorga nel 1997 è un maniaco epistolare, condannato a rivolgersi al dittatore per una mezza possibilità di pubblicazione o l'espulsione dall'Unione sovietica

           

Questa di Mayorga è solo l’ipotesi di un poeta, di un drammaturgo, ossia uno che, come ha spesso dichiarato, non è altro che “un cieco con la pistola che non sa verso cosa sparerà”. Ma trova il centro del bersaglio in un misterioso, inquietante, reciproco riconoscimento di funzione: io esisto finché esisti tu che, come un Dio distante, non rispondi. Solo se non rispondi io posso ancora parlare. Solo se non rispondi io non sarò del tutto muto, inservibile, morto, quindi, ti prego, non rispondere mai a quest’uomo che ti chiede disperatamente di farlo. Be’, un bel nodo.

Un teorema di indecidibilità, per un testo sfuggente che, nella messa in scena di Alberto Sarraín, sfiora la farsa e rappresenta Bulgakov come un epistolomaniaco rinserrato nel proprio mondo morboso, severo e infervorato critico letterario di se stesso man mano che scrive righe che riscrive ancora e da capo. “Se Stalin non mi risponde”, dice Bulgakov alla moglie, “vuol dire che non sto facendo del mio meglio.” La sua ossessione lo porterà all’allucinazione. E Stalin apparirà, per dirgli: “Scrivimi le bugie che non vedo l’ora di leggere...”. Nella realtà, Stalin gli telefonerà il 18 aprile del 1930 e accoglierà la sua richiesta di lavorare al Teatro di Mosca, ma non come drammaturgo
Bulgakov, dal canto suo, quelle bugie non accetterà mai di dirle. Ma andrà avanti a scrivere, in quel 1925 cruciale, le sue verità. Dibattendosi, come il protagonista di Mayorga e come il Maksudov di “Romanzo teatrale”, tra imperativi di fedeltà a se stesso e un potere che esigeva acquiescenza. Ignorando che, nel frattempo, in quell’anno che segna l’inizio del declino, il Kgb aveva già in agenda una perquisizione in casa sua: gli agenti faranno irruzione nel suo appartamento la primavera successiva, gli sfonderanno tutte le poltrone con un punteruolo e sequestreranno il manoscritto di “Cuore di cane” e i diari, tre quaderni che verranno pubblicati nel 1990 col titolo “1922 - 1925”, la cui franchezza di contenuto sarà la pietra tombale sulla sua esistenza civile. 

 

 L'irruzione del Kgb nel suo appartamento, i manoscritti sequestrati e la lettera al governo dell'Urss: “A che serve costringere uno scrittore in un paese dove le sue opere non hanno diritto di esistere? Lasciatemi andare”

               

A poco serviranno, negli anni successivi, le lettere a Maksim Gor’kij. “Egregio Maksim, ho scritto al governo dell’Urss chiedendo che autorizzi me e mia moglie a lasciare il paese per un lasso di tempo che riterrà opportuno. Scrivo per chiederLe di appoggiare la mia richiesta. Vorrei esporle per lettera, e nel dettaglio, quanto mi accade, ma sono stremato e disperato oltre misura. E non riesco a scrivere nulla. Ma a che serve costringere uno scrittore in un paese dove le sue opere non hanno diritto di esistere? Siate generosi, lasciatemi andare.”

Zajcev, redattore moscovita della rivista Nedra, parlerà così del Bulgakov del 1925. “Era molto, molto dimagrito. Metteva insieme qualche soldo scrivendo per giornali di poco conto. Non se la passava per niente bene.” Ne conosciamo le ragioni: una lettura della riduzione de “I giorni dei Turbin” vedrà il Commissario del popolo Lunacarskij esprimersi in termini tutt’altro che equivoci: “Una porcheria, non va messa in scena. Il testo è mediocre come pochi.” Venne imposta una riscrittura, la prima di una serie. Ma a ogni passaggio il testo perdeva un po’ di se stesso. 

Da una lettera dell’ottobre del 1925 a firma Michail Bulgakov, invitato a una serata di letture e costretto al diniego: “Sono seppellito sotto un testo teatrale dal nome altisonante”, esala lo scrittore, in preda al panico e allo scoramento. “Di me è rimasta solo l’ombra.” Intanto, a teatro, gli animi cominciano a scaldarsi, i rapporti tra lo scrittore e Stanislavskij precipitano e nessuna riscrittura sembrava adeguata a ciò che il fondatore del Teatro di Mosca chiedeva a Bulgakov. Inoltre, la parola “bianco” doveva sparire dal titolo. Quando la censura accetterà l’ennesima revisione, uno spettacolo odiato perfino da chi l’aveva scritto debutterà in un clima ferale. Cinquanta repliche affollatissime, poi giù il sipario tra i mugugni della Commissione politica – stessa sorte toccherà a “L’appartamento di Zoja”, in cartellone al teatro Vachtangov.

Pochi mesi dopo, il racconto “Diavoleide” verrà ritirato. Con due esili raccolte di articoli e raccontini cui lo scrittore non dà la minima importanza si chiude per sempre la sua esistenza cartacea. In vita non pubblicherà mai più niente. Di quei raccontini, Bulgakov dirà che scriverli era stato divertente. “Come un mal di denti”.
 

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