
Damiano Michieletto (foto ANSA)
in scena
Michieletto l'americano. Ritratto del regista d'opera (e non solo)
Il New York Times celebra “West Side Story”, appena messo in scena a Caracalla dal regista veneto. La consacrazione mediatica arriva quando c’è qualcosa, anzi molto, da consacrare, non prima. Chapeau
“Oddio, se n’è accorto anche il New York Times” Il regista d’opera (e non solo) Damiano Michieletto è “a visionary, nonconformist, at times over-the-top, director”, scrive Elisabetta Povoledo, una reporter particolarmente sveglia anche per la media alquanto elevata del Nyt. E qui si potrebbe pure reagire come Totò con i ritardatari a teatro: “Prego, accomodatevi, aspettavamo solo voi!”. Ma sarebbe ingiusto, perché in realtà il visionary non ha mai lavorato dall’altra parte dell’Atlantico, dove finora è stato visto come un esponente del temuto Regietheater, in un paese dove l’estetica degli spettacoli operistici si ispira semmai a Disneyland. Povoledo prende due piccioni con uno spettacolo: segnala “West Side Story” di Bernstein appena messo in scena da Michieletto a Caracalla, giustamente, come vero musical e non finta opera, e annuncia che l’America scoprirà finalmente il regista made in Italy, perché l’Opera di Filadelfia monterà in settembre il famoso “Viaggio a Reims” di Rossini battezzato nel 2015 ad Amsterdam e poi ripreso in mezzo mondo. Qui, per la verità, un precedente ci sarebbe: il “Samson et Dalila” di Saint-Saëns che Michieletto mise in scena alla Bastille e di cui era annunciata la coproduzione con il Met. Non era francamente uno dei Michieletto migliori, ma in ogni caso New York si sfilò perché, come disse Peter Gelb, general manager della veneranda istituzione, “non sono sicuro che sia una produzione per il Met”, e in effetti no, non lo era (fra parentesi, testimonianza personale: ne venne poi proposta un’altra che vidi per puro caso ma con autentico raccapriccio, di quel genere che gli americani e i coeurs simples europei pensano essere “fedele” all’autore, sarà. Fra l’altro, al crollo del tempio con Sansone e tutti i filistei, macché effetti speciali hollywoodiani e kolossal: due quintine che venivano giù, un paio di lampetti, buio in sala e tutti a casa. Almeno a Parigi il geniale scenografo di Michieletto, l’orso ottimo massimo Paolo Fantin, faceva letteralmente esplodere colonne e pareti, e che cavolo, se grand opéra dev’essere, che lo sia).
Dunque, sbarco americano per DM, il quale l’accoglierà come accoglie tutto, sempre vagamente stupito che ci si occupi tanto di lui. Perché Michieletto non ha mai rinnegato né occultato le sue origini felicemente provinciali, che poi sono un sunto di storia italiana dell’ultimo mezzo secolo: nonno contadino, padre lettore di contatori dell’acquedotto e da pensionato anche sindaco del paese, lui artista global, dunque terziario avanzato. Il tutto partendo da Scorzé, 19.001 abitanti a circa 25 chilometri dal capoluogo di provincia, Venezia, come indica la sempre soccorrevole Wikipedia. Ma si sa che, come insegna la mitica capo ufficio stampa della Fenice, Barbara Montagner, “oltre il ponte xe tuta campagna”. Eppure, quel Veneto contadino e poi operaio ma sempre operoso, cattolicissimo e democristiano, concreto e solido, in qualche modo a Michieletto è rimasto appicciato addosso, e lo fa rifuggire dal fighettismo radical chic come da un prosecco allungato. Una volta, chiacchierando, gli scappò una frase dove c’è tutto quel mondo (e anche tutto Michieletto), che non posso citare nell’originale dialettale perché non saprei trascriverlo, ma che in italiano suona così: bisogna saper fare, prima di far sapere. Insomma, la torta prima della ciliegina, la carriera costruita passo dopo passo, la consacrazione mediatica che arriva quando effettivamente c’è qualcosa, anzi molto, da consacrare, non prima. Nell’Italia sempre più cialtrona che ci è toccata in sorte, l’eccezione che conferma la regola.
Non ha mai occultato le sue origini felicemente provinciali, un sunto di storia italiana dell’ultimo mezzo secolo
Il curriculum segnala una laurea a Ca’ Foscari, un diploma alla Paolo Grassi, il debutto con gli spettacoli per bambini, che non sono affatto da sottovalutare: posto che la soglia di attenzione di un bambino di dieci anni è più o meno quella dell’abbonato-medio della Scala, ed entrambi hanno la tendenza ad assopirsi, imparare a farsi seguire dai decenni è un’ottima palestra. Poi arrivano le prime scritture, la prima in assoluto in un posto bizzarro, Wexford, il più importante festival operistico irlandese (anche perché l’unico), con un cartellone di rarità per lo più pazzesche innaffiate di Guinness. A Micheletto, nel 2003, ne toccò una che più rara non si può, “Svanda dudák”, “Svanda il pifferario” di Weinberger. L’anno dopo era al Rossini Opera Festival di Pesaro, Rof per noi rossiniani talebani, con “Il trionfo delle belle” che per la verità non è di Rossini ma di Pavesi (e si sente). Nel 2007, sempre a Pesaro, la mitica “Gazza ladra”, lo spettacolo della svolta, un Rossini che lasciò tutti a bocca aperta, perfino la critica italiana che lo premiò con l’Abbiati. Da lì, la carriera internazionale, dapprima a Zurigo, e poi allargandosi e dilagando fra Parigi, Londra, Berlino, Salisburgo e così via. Noi eravamo felici perché finalmente un regista d’opera italiano rinnovava una tradizione illustre ma stanca, imboccando una specie di terza via fra il passato remoto dei viscontismi e quello prossimo delle ronconate, e soprattutto facendo vedere anche qui, nella riserva indiana degli spettacoli “eleganti” perché “non disturbano la musica”, un po’ di quel che succede nel mondo civilizzato. Sempre, però, ed è un aspetto mai sottolineato abbastanza, con una bellezza visiva molto italiana, molto “nostra” e anche molto giusta: chi ha detto che gli spettacoli “moderni” debbano essere per forza squallidi? E qui i meriti sono da dividere con la sua squadra storica, più coesa di una legione romana, dove la presenza fissa e immutabile è quella di Fantin, ribattezzato da qualche scriteriato “Fantineon” perché non rinuncia mai a mettercene uno, ma compaiono quasi sempre anche la costumista Carla Teti e del lighting designer Alessandro Carletti, ed eccellenti entrambi.
Il curriculum segnala il debutto con gli spettacoli per bambini, che non sono affatto da sottovalutare
Naturalmente, non tutti gradiscono. Nei salotti di nonna Speranza della lirica, fra Loreto impagliato e il busto di Zeffirelli, che poi oggi imperversano su Facebook a suon di “povero Verdi” (alternativa: “Verdi si rivolta nella tomba”), il solo nome di Michieletto provoca travasi di bile, indignazioni preventive, rosari riparatorii. Qui “bisogna far delle differenze in ogni cosa”, come insegna l’abate Da Ponte, cioè distinguere fra chi parla a ragione e spettacolo veduti, insomma informato e magari argomentando, e chi blatera “a prescindere”. Meravigliosa fu la “recensione” apparsa su uno dei soliti blog fai-da-te aperti per scippare accrediti agli uffici stampa in occasione del famigerato, e ovviamente bellissimo, “Rigoletto” al Circo Massimo. Il quidam, deplorata la volgarità della regia di cattivo gusto (strano, vero? il cattivo gusto in un’opera il cui soggetto è, appunto, la bellezza del brutto), aggiunse che era aggravata dalla decisione di far chiedere dal Duca a Sparafucile, nel terz’atto, “tua sorella e del vino” e non “una stanza e del vino”. Peccato che la prima versione sia appunto quella “come la voleva Verdi”, l’altra quella come la volle il censore, e del resto l’edizione critica di Rigoletto l’ha chiarito da più di quarant’anni (quindi attenzione, quando cazzeggiate sul web, a non prendere per oro colato tutto quel che c’è scritto: spesso, la materia che cola è tutt’altra…). Ricordo che quando Michieletto, per una “Madama Butterfly” al Regio di Torino, fece vedere ciò che l’opera racconta, un caso di turismo sessuale, ricevetti alla Stampa una lettera in cui si accusava il regista di aver stuprato Puccini e io, che ne avevo scritto bene, di complicità nello stupro. Risposi che forse era Pinkerton ad aver stuprato, dopo essersela comprata, la quindicenne Cio-cio-san.
Alle volte, le proteste sono diventate di clamorosi casi di cronaca. Accade per esempio la Scala, nel 2013, in occasione di “Un ballo in maschera” di Verdi, dove il fatto che nell’orrido campo passeggiassero delle passeggiatrici in minigonna (ma non è, appunto, un orrido campo, leggi una periferia degradata?) scatenò il putiferio con tanto di pioggia di volantini, tipo “Senso”, che evidentemente non erano stati stampati nel ridotto delle gallerie. Ancora più incredibile, il “Tell-gate” che si scatenò il 29 giugno 2015 alla Royal Opera House di Londra alla prima, appunto, del “Guillaume Tell” di Rossini. Io c’ero e posso garantire che nelle mie 2.174 serate all’opera non ho mai visto niente di simile. La tempesta si scatenò al “pas de soldats” del terz’atto, dove il libretto (il libretto, non Michieletto) indica che gli occupanti austriaci “contraignent des femmes suisses à danser avec eux”. La scena diventava quindi, legittimamente, uno stupro, benissimo recitato, ça va sans dire, e certo non chic ma nemmeno particolarmente choc: si intuiva, più che vedere, quel che era successo alle sventurate, e che disgraziatamente in guerra succede spesso. Ma la sala esplose in un’iradiddio di fischi, buati e urla che durarono diversi minuti, senza che dal podio sir Tony Pappano riuscisse a dare l’attacco (mi confidò poi di aver pensato di appoggiare la bacchetta e andarsene). Per una volta, basiti eravamo noi italians: tutto ‘sto baccano per così poco? A Londra, poi? Si era visto il giorno prima un “Tito Andronico” di un pulp, quello sì, quasi insostenibile, e questi fanno la rivoluzione per uno stupro vedo-non vedo? Boh. Il giorno dopo ne parlò perfino il tiggì della Bbc. Ma il seguito fu anche meglio. La critica inglese che, sembra impossibile, è quasi peggio di quella italiana, stroncò. Invece molti intellettuali iniziarono a scrivere articoli nei quali difendevano lo spettacolo e da lì nacque un bellissimo dibattito che sarebbe stato lunare sui giornali italiani dove si solito si dibatte di Meloni che replica a Schlein che risponde a Salvini e che dimostrò, se non altro, che quel “Tell” aveva fatto il suo mestiere, che è poi quello del teatro (tutto: cantato parlato e ballato): discutere e far discutere. E, per inciso, l’anno successivo Michieletto, sempre a Londra e sempre alla Roh, vinse il Laurence Olivier Award come “best new opera production” per il suo “Cav&Pag”.
Poi, naturalmente, bisognerebbe parlare delle michielettate che abbiamo amato, e che ci hanno ridato la voglia e la gioia di rinovare il rito e rigiurare fedeltà a quell’insensatezza sublime che è l’opera in musica. Citando così, alla rinfusa, vengono in mente la trilogia Mozart/Da Ponte alla Fenice, “Macbeth” e Rigoletto sempre lì, “Cendrillon” alla Komische di Berlino, “La damnation de Faust” a Roma, “Sigismondo”, “La scala di seta” e “La donna del lago” a Pesaro, “Alcina” e “La Cenerentola” a Salisburgo con SCNSD (Santa Cecilia Nostra Sempre Divina, insomma la Bartoli), il “Trittico” all’an der Wien e all’Opera di Roma, il “Falstaff” della Scala ambientato a Casa Verdi (l’unico “Falstaff” mai visto nel quale fosse risolta la scena finale), “Die Zauberflöte” ambientato in una scuola con Papageno-bidello a Venezia, la prima assoluta del “Nome della rosa” di Filidei a Milano quest’anno, e così via. Damiano ci fa venire voglia di prendere l’ennesimo aereo per scoprire cosa si nasconde dietro il prossimo sipario, per esempio per l’Otello che inaugurerà il ‘26-’27 della Scala (volantini anche lì? Chissà). Poi ci sarebbe da ricordare anche il regista di prosa, citando almeno “Divinas palabras” di Valle-Inclán, testo fra l’altro meraviglioso, nella platea dello Studio del Piccolo trasformata in un mare di fango, e non solo metaforico; o quello cinematografico, per la mania che hanno tutti i teatranti di mettersi dietro la macchina da presa.
Damiano ci fa venire voglia di scoprire cosa si nasconde dietro il prossimo sipario, per esempio per l’“Otello” scaligero
Dopo un “Gianni Schicchi” divertentissimo e geniale il nuovo film s’intitola “Primavera”, è basato su “Stabat Mater” di Tiziano Scarpa e andrà alla prossima Mostra di Venezia o forse no, non è ancora chiaro; comunque, è pronto. Poi c’è il demiurgo cui l’Opera di Roma ha affidato la sua stagione estiva che nell’anno del Giubileo diventa un vero festival, compreso appunto “West Side Story “(ha ragione il Nyt: bellissimo) e, adesso, la scoperta dell’America. Considerato che il Nostro, nostro anche perché è pure una firma del giornale che tenete in mano, deve ancora compiere cinquant’anni, il compleanno fatale è in cartellone a novembre, si può profetizzare che siano forse più le soddisfazioni che ci darà di quelle che ci ha già dato. Lo dice anche il Vangelo: estote parati.