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RISTAMPE

Un Montale ironico, scettico e incredibilmente aperto al sacro mistero

Alberto Fraccacreta

Dal Quaderno di quattro anni a Fuori di casa, in un resoconto di letteratura, vita e deliziosi reportage in giro per il mondo. Il ritorno in libreria nello “Specchio” Mondadori

Nel giugno 1925 Eugenio Montale pubblicava presso le edizioni di Piero Gobetti la sua prima silloge, Ossi di seppia. A distanza di cento anni critici, lettori, professori e studenti di tutte le età sono ancora alle prese con limoni, corni inglesi, cocci aguzzi di bottiglia, girasoli impazziti di luce. La cosiddetta “poetica degli oggetti” ha sempre sotteso in Montale un’ulteriorità di difficile interpretazione: un tu, un destinatario ultimo, un mosaico di identità a cui l’io, errante, tende costantemente. Questo vale per l’intera parabola lirica dell’autore genovese, dalla silloge d’esordio sino all’ultima (se consideriamo gli Altri versi e le Poesie disperse purissime appendici dell’Opera in versi, Einaudi 1980): e cioè Quaderno di quattro anni, appena ristampato nello “Specchio” Mondadori (commento di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani, con saggi di Cesare Garboli e Giorgio Orelli,  480 pp., 22 euro).

Uscito originariamente nel 1977, costituito da centoundici componimenti scritti a cavallo dell’assegnazione del Nobel, il Quaderno di quattro anni è davvero un resoconto di letteratura e vita. Tornano i personaggi più importanti, da Annetta-Arletta-Capinera a Clizia e a Mosca. Torna – come in una grande Ringkomposition – la fatale tematica della Necessità e della possibilità di un varco, di un esodo dalle maglie rotte del caso, di un miracolo laico. Come avviene in Morgana: “Regina della Notte, mia Cordelia, / mia Brunilde, mia rondine alle prime luci, / mia baby-sitter se il cervello vàgoli, / mia spada e scudo, / ahimè come si perdono le piste / tracciate al nostro passo / dai Mani che ci vegliarono, i più efferati / che mai fossero a guardia di due umani. / Hanno detto hanno scritto che ci mancò la fede. / Forse ne abbiamo avuto un surrogato”.

Per lo “Specchio” è in libreria anche Fuori di casa (saggio introduttivo di Marco Forti, Mondadori, 180 pp., 18,50 euro), una raccolta del 1969 di alcuni deliziosi reportage apparsi per lo più sul Corriere della Sera a partire dal ’46 fino al ’64. Le Cinque Terre, la Gran Bretagna, New York, la Grecia, il Medioriente: Montale mette in campo una filosofia e un atteggiamento psicologico abbastanza diversi dai corrispettivi in poesia. La critica – confortata da alcune somiglianze formali tra prose e liriche – ha supposto che tali articoli fossero da correlare quasi meccanicamente al testo in versi, il quale rappresentava un’esperienza identica e anzi più intensa del grezzo referto giornalistico. Benché in questo gioco di rifrazione vi siano innegabili vantaggi interpretativi, i pezzi raccolti in Fuori di casa dànno voce a un Montale ironico avant la lettre, in anticipo sui temi che saranno trattati in Satura, certamente molto affine alla figura del dandy inglese di cui egli stesso tesse le lodi, come ha notato Enrico Testa. Un Eugenio insomma scettico sulle “magnifiche sorti e progressive”, severo osservatore dei sommovimenti politici e delle differenze sociali e culturali, eppure aperto al mistero, orientato alla singolarità dell’individuo.

Si pensi ai due articoli (Da Gerusalemme divisa e Noterelle di uno dei Mille) che Montale scrisse, in qualità di inviato del Corriere, durante il viaggio in Terrasanta di Paolo VI: alla luce dell’incontro nella “terra di Dio” emerge una forte, stranamente assertiva consapevolezza del sacro. Nella “fucina di Dio”, “più bollente e operosa che in altri luoghi”, è impossibile negare che “qualcosa sia accaduto”. Sembra essersi rinvigorita quella foi du charbonnier che aveva contraddistinto il giovanissimo Montale del Quaderno genovese e che nei testi dell’ultimo periodo appare più caliginosa, gnostica, antinomica. Nell’orto del Getsemani, per ammissione del poeta, “nemmeno il cuore più indurito può trattenere la commozione vedendo la più che bimillenaria lastra di pietra sulla quale il Salvatore, per lunga e ininterrotta tradizione, si adagiò e pianse”.
 

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