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questioni di gusto

Dio non c'entra, è la mente a dare criteri soggettivi a morale ed estetica

Sergio Belardinelli

Il libro "Fluttuazioni. Il criterio della virtù e del gusto secondo Hume" di Gianluca Mori e Emilio Mazza affronta il criterio del gusto estetico secondo il filosofo Hume. Nel suo Dialogo questo si esaurisce in "una disposizione intrinseca alla mente". Non c'è quindi nessun Dio e nessun criterio oggettivo della morale né del gusto

Come si distingue il vero dal falso, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato e il bello dal brutto? In base a quale criterio? Esiste un criterio che valga sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, e che ci permetta di risolvere le dispute? Frasi, azioni, comportamenti, costumi, caratteri, quadri, libri e musiche: giudichiamo tutto. Ma su che cosa si fondano i nostri giudizi? E quale giudizio dobbiamo seguire, quando sono diversi o perfino contrari tra loro?”. Un libro che inizia così ti dice “leggimi” anche se non ne hai voglia e preferiresti giocare sulla spiaggia con i nipoti. A maggior ragione quando ti accorgi che più vai avanti nella lettura e più ti senti risucchiato in un’atmosfera morbida, ironica, disincantata, intelligente, dalla quale vorresti pure prendere le distanze, dato che non tutti gli argomenti ti sembrano ugualmente convincenti, ma subito rinunci, accantoni l’irritazione (c’è anche questa) e preferisci gustare fino in fondo uno scetticismo al quale non siamo più abituati. Sto parlando del libro di Emilio Mazza e Gianluca Mori, Fluttuazioni. Il criterio della virtù e del gusto secondo Hume, pubblicato in questi giorni da Excogita, con una prefazione di Alberto Mingardi e in appendice due brevi saggi di David Hume, scritti rispettivamente nel 1751 e nel 1757: A Dialogue e The Standard of Taste. 


Come scrivono Mazza e Mori, in risposta alle domande da cui siamo partiti, “il ‘criterio’ della morale, così come il ‘criterio’ del gusto estetico, non è per Hume né un’idea platonica né un archetipo che sta nell’intelletto di Dio né un qualche misterioso je ne sais quoi che la nostra sensibilità ci fa conoscere, ma, molto più semplicemente, una disposizione intrinseca alla mente, e in questo senso ‘naturale’, come l’olfatto, il gusto musicale, l’intelligenza associativa, tutte funzioni che non ci fanno conoscere alcunché di ‘reale’ esistente fuori dalla mente dell’uomo ma che consistono semplicemente in rielaborazioni mentali derivate dalle diverse configurazioni degli ‘oggetti’ che dobbiamo supporre esistenti fuori di noi. E’ sulla base di questa strumentazione concettuale che Hume può affrontare la grande crux di ogni morale, contro cui si erano inevitabilmente infranti sia il razionalismo che il sentimentalismo etico a lui precedenti: l’esistenza di un disaccordo valutativo tra gli uomini. Un tema, questo, che è al centro sia del Dialogue sia dello Standard of Taste”.  Non c’è più nessun Dio insomma, nessuna provvidenza, nessun criterio oggettivo della morale né del gusto. Per dirla con le parole che Hume usa nel Dialogo, “la moda, la voga, il costume e la legge sono il principale fondamento di tutte le determinazioni morali”. Non la ragione dunque. Ciò che in tutte le culture determina il giudizio morale e quello estetico non è altro che l’utilità e la gradevolezza che ne scaturiscono per noi e per gli altri. Naturale che in questa prospettiva, che, almeno secondo me, nasconde con l’ironia e la bella scrittura alcune gravi difficoltà teoriche e pratiche, le cose appaiano simili e dissimili, belle e giuste per alcuni, brutte e ingiuste per altri.

È pur vero tuttavia che proprio in queste affermazioni, per quanto urticanti possano apparire, c’è anche molta verità. Non è forse vero che De gustibus non est disputandum? Non è forse vero che sarebbe del tutto insensato voler misurare una cultura in base ai criteri di un’altra? Se poi a questo aggiungiamo la preoccupazione da parte di Hume e dei nostri autori di “mitigare” in qualche modo lo scetticismo, facendo appello al giudizio di alcuni saggi ai quali per “sentimento universale” viene riconosciuta una certa competenza pratico-estetica, onde evitare di mettere tutti i giudizi di valore sullo stesso piano, assecondando il relativismo di coloro che cantano allegramente “questo o quello per me pari sono”; se consideriamo questa preoccupazione, dicevo, allora la continua “fluttuazione” da parte di Hume tra la necessità  “di limitare uno scetticismo illimitato” e quella di allentare “un criterio troppo rigido”, nonché la fiducia che “l’esperienza e la pratica del mondo correggono prontamente qualsiasi grande stravaganza in una direzione come nell’altra” (sono parole del Dialogo)  diventano interessanti anche per chi ritiene che l’etica sia qualcosa di più che una mera questione di gusti e la religione qualcosa di diverso da una semplice “minaccia tanto per la virtù quanto per la bellezza”. 


Il fatto che nel Dialogo di Hume i due protagonisti (Io e Palamede) tirino la corda l’uno per affermare che “i princìpi in base ai quali gli uomini ragionano in morale sono sempre gli stessi, anche se le conclusioni che ne traggono sono spesso assai differenti”, e l’altro per affermare invece l’inconsistenza di qualsiasi principio che voglia giudicare “i molti, differenti, anzi contrari sentimenti dell’umanità”, senza che la prospettiva dell’uno prevalga totalmente su quella dell’altro, potrebbe essere un ottimo accorgimento per far sì che entrambe le prospettive si avvantaggino l’una dell’altra. Ciò che voglio dire è che il riconoscimento della pluralità degli uomini e delle culture non implica né relativismo, né troppo rigide presunzioni universaliste. Il primo si squalifica da solo ogni volta che ci capita di deprecare un’ingiustizia o la malvagità dei nostri simili (non si tratta soltanto di gusti differenti); sulle seconde grava invece come un macigno la chiusa che Alberto Mingardi ha voluto mettere alla sua bella prefazione a questo libro: “Giù la testa, coglione”. 

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