Sartre e Gluksmann con Foucault, che della Rivoluzione khomeinista scrisse: “È la forma più moderna della rivolta e la più folle” (Getty)

Venerati fiancheggiatori. Quegli intellettuali sempre dalla parte sbagliata

Pierluigi Battista

Dalla fascinazione per il Führer a quella per Fidel, da Chomsky per Pol Pot a Moravia per Mao. Oggi difendono gli ayatollah, tanto c’è Israele da incolpare per ogni male

Sempre dalla parte del torto, sempre, anche stavolta, con il Medioevo iraniano, il regno degli energumeni che a Teheran maltrattano e pestano le donne e che adesso vogliono farsi passare per vittime. Come sono prevedibili, quelli che sposano il torto per vocazione e scendono in piazza al grido di “Giù le mani dall’Iran”, neanche fosse il Vietnam.

 

“Giù le mani dall’Iran”, neanche fosse il Vietnam. A Tomaso Montanari, con identiche posizioni, fa eco Marcello Veneziani

 

È un istinto indomabile: scegliere sempre la parte sbagliata, purché si opponga al Male dell’occidente, dei diritti, della libertà d’espressione, della democrazia, del pluralismo, che in medio oriente si incarna nello stato degli ebrei, ossia i nuovi genocidi secondo la vulgata oggi ululata nelle piazze occidentali. Dalla parte del torto, anche se il torto indossa come maschere le caricature del Bene e del Giusto. Inoltre, un pizzico di fatuità intellettuale non fa male: il torto dei buoni è anche glamour, salottiero. Procura ebbrezza e quasi ammirazione con la patina di anticonformismo contraffatto che si trascina dietro. Dalla parte del torto, lo rivendica il motto sexy del Manifesto: come sono fichi, come gliele cantano all’occidente e come tacciono sulle dittature e le tirannie che infestano il mondo. Sempre, mai dalla parte giusta. Tomaso Montanari, che si fregia dell’abusato titolo di “esperto” nel circo a tutto torto dei talk-show, ovviamente dà la colpa al criminale Netanyahu: deve stare dalla parte del torto – e del resto gli fa eco dalla destra anti occidentale, con identiche posizioni, Marcello Veneziani: non può rinnegare le scelte sbagliate di legioni dei suoi colleghi incantati dal totalitarismo. Non vede i dissidenti impiccati alle gru nelle piazze di Teheran, i picchiatori della “polizia morale” che vessano le ragazze di “Donna, vita, libertà”, la censura feroce dell’oscurantismo, le donne che osano liberarsi dalla prigione del velo prima picchiate, poi trascinate in galera, torturate, stuprate e infine trucidate. Vedono solo l’Assassino, il Genocida, il Malvagio, l’Ebreo: Israele.

  
Del resto, l’abbaglio sugli islamisti che avevano preso il potere  a Teheran e si preparavano a venerare l’ayatollah Khomeini ha abbacinato legioni di intellettuali ostili all’occidente. Caso clamoroso quello di Michel Foucault, che pure sentiva odore di oppressione in tutte le istituzioni preposte al controllo sociale. Scrisse Foucault: “E’ l’insurrezione di uomini a mani nude che vogliono sollevare l’enorme peso che grava su ognuno di noi, ma più in particolare su di loro, su questi lavoratori del petrolio, questi contadini ai confini degli imperi: il peso dell’ordine del mondo intero. E’ forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più moderna della rivolta e la più folle”.

 

Franco Battiato prendeva in giro chi in occidente si sdilinquiva sulla “santità di Khomeini”: “Abbocchi sempre all’amo”. E L’Unità abboccò

 

Franco Battiato, noto per le sue frequentazioni immaginifiche di dervisci danzanti al suono di cavigliere del Kathakali, prendeva in giro chi in occidente si sdilinquiva sulla “santità di Khomeini”: “Abbocchi sempre all’amo”. Ma l’organo ufficiale del Pci, L’Unità, abboccò e sciolse inni trionfali per la presa del potere degli ayatollah: “Iran: la vittoria popolare è travolgente. L’esultanza delle masse protagoniste dell’insurrezione che ha rovesciato la sanguinaria tirannia dello scià”. Poi si è visto come è andata e infatti il regime dei mullah ha fatto fuori pure i comunisti. Calcoli sbagliati dalle parti della parte sbagliata. 


Gli intellettuali che si innamorano dei tiranni: è una storia talmente ripetitiva che non si è potuta chiudere nemmeno con la fine formale del Novecento, l’epoca dei pachidermici apparati ideologici, del trionfo del fascismo, del nazismo, del comunismo. C’è sempre una ragione nuova per farsi sedurre, ammaliare, catturare da qualche dittatura. Gianni Vattimo, uno dei protagonisti, assieme ad Angelo Pezzana, della coraggiosa scelta del “Fuori”, il fronte per la liberazione omosessuale, ha speso purtroppo gli ultimi anni della sua vita nella venerazione del regime autoritario di Hugo Chávez, tiranno venezuelano. Ma per i suoi abbacinati colleghi era doveroso schierarsi con il torto impersonato da un altro caudillo autoritario come Morales in Bolivia. E anche oggi non cessa la solidarietà, purtroppo anche tra i socialisti europei, con quel Nicolás Maduro nel Venezuela che imbroglia alle elezioni, manda gli squadristi a rastrellare casa per casa gli oppositori che le avevano vinte e perseguita la leader dell’opposizione María Corina Machado. Del resto la fascinazione quasi mistica per le dittature tropicali sembra irresistibile.

Günter Grass arrivò a parlare del Nicaragua sandinista come di “questo minuscolo paese scarsamente abitato” dove “le parole di Cristo vengono prese alle lettera”, nientemeno. Si torna sempre sul luogo del delitto del servilismo ideologico (e lo stesso Grass confesserà obtorto collo di essere partito imberbe volontario nelle SS). E infatti la prima reazione dello scrittore con i tedeschi dell’est che finalmente potevano attraversare il Muro dell’oppressione e della polizia politica onnipotente fu di scandalo e sconcerto, perché i connazionali di sventura avevano dato prova di una grande volgarità sciamando inebetiti nei pornoshop simbolo della Berlino prigioniera della ripugnante opulenza capitalistica, anziché prendere d’assalto le librerie per accaparrarsi i suoi romanzi. Cuba, poi, è stato il paradiso in terra dei pellegrini politici alla ricerca di un brivido di esotismo rivoluzionario. Quando il regime incarcerò il poeta omosessuale Heberto Padilla, denunciato come “controrivoluzionario” e portatore di immortalità e poi rilasciato solo dopo mortificante autocritica, Mario Vargas Llosa si diceva sicuro che il grande Gabriel García Márquez avrebbe firmato l’appello per la liberazione del perseguitato: invece Márquez si negò e subito dopo partì alla volta dell’Avana per pranzare allegramente con il compagno Fidel. Tutti sapevano che gli omosessuali nell’Eden di Cuba o venivano incarcerati o mandati in esilio, oppure costretti ai lavori forzati, inquadrati nella leggiadra sigla Umap, acronimo di “Unità militari di aiuto alla produzione”. Padilla “rinnegato” e “traditore” fu rilasciato, dopo essere stato costretto dai suoi carcerieri a sottoscrivere un’autocritica. García Márquez passerà invece tutta la vita a inneggiare al regime cubano.

 

Norman Mailer salutò Fidel Castro “come se il fantasma di Cortés fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata”
 

 

Del resto, la palma del lirismo rivoluzionario andò di diritto a Norman Mailer, scrittore generalmente noto per il suo ruvido cinismo macho, ma che salutò Fidel Castro “come se il fantasma di Cortés fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata”. E continuava con il suo panegirico: “Tu dai un po’ di vita agli individui migliori e più appassionati, siano essi uomini e donne, che ci sono sulla terra”. Adulazione dalla parte del torto. Hans Magnus Enzensberger, che non aveva smarrito il suo senso critico, descrisse con sarcasmo l’atmosfera che regnava negli hotel dell’Avana dove venivano ospitati i prestigiosi pellegrini politici: “Non avevano la più pallida idea che nei quartieri operai veniva sospesa nel pomeriggio la fornitura della luce e dell’acqua, che il pane era razionato e che la popolazione doveva fare la fila di due ore per un pezzo di pizza; nel frattempo i turisti, nelle loro stanze d’hotel, discutevano di Lukács”.


Tom Wolfe derideva gli intellettuali che volevano essere ammirati come “contatori Geiger etici” o “antenne morali” delle brutture dell’occidente capitalistico, cadendo in una fascinazione per le dittature che non smetterà mai di produrre i suoi effetti allucinogeni. Di ritorno da Pechino, mentre erano in funzione i “laogai,” specialità cinese del Gulag, Simone de Beauvoir sfoderò la sua prosa più sdolcinata: “La vita in Cina oggi è incredibilmente bella. Un’infinità di sogni oggi sono possibili”, grazie “all’idea che ci sia un paese che paga al popolo l’intero corso di studi, dove generali e uomini di stato sono studiosi e poeti” e dove “a tutti vengono date delle occupazioni piacevoli”, compreso ai professori dileggiati dalle Guardie rosse e costretti a sfilare con le orecchie d’asino perché sordi alle massime del Timoniere Mao. Gianni Rodari, grande e impareggiabile autore di fiabe, non fu affatto colpito dalla circostanza che nella Cina della Rivoluzione culturale le fiabe, frutto del pedagogismo borghese, fossero severamente vietate, eppure vedeva i bambini cinesi, pur privati dalle fiabe, “vispi, allegri, simpatici” in una misura semplicemente inimmaginabile nelle tetre società capitalistiche.  E poi c’era Shirley MacLaine, ancora immersa nell’oppio ideologico annusato in un suo viaggio cinese: “Sono entrata nel sogno che mi ha accompagnato per gran parte della mia vita adulta”. Qualche eccesso pure nella rivendicazione del torto nelle parole di Noam Chomsky il quale, mentre il regime di Pol Pot in Cambogia massacrava un terzo della popolazione, sosteneva con fierezza che non fosse sua intenzione bersi la favola delle presunte “atrocità comuniste”, frutto soprattutto, casomai,  dell’“eccezionale malcontento contadino” dovuto “alla minaccia di fame degli assassini americani”. Del resto quei regimi, magari con mezzi brutali, avevano un fine nobile: “L’estirpazione dell’istinto di possesso e dello stimolo al profitto”.


Se si allineassero tutti gli encomi al Duce del fascismo cantati dagli intellettuali durante il Ventennio, si riempirebbero scaffali e scaffali delle nostre biblioteche. Il torto era corale, collettivo, unanime: prima. Un filosofo apocalittico come Martin Heidegger andava a lezione vestito da contadino con i pantaloni alla zuava per omaggiare la rinascita dello “spirito tedesco” risorto con la svastica. Denunciava i colleghi ebrei. Da rettore affermava che il Führer incarnasse il punto più alto della civiltà germanica e imponeva con zelo la formula “Sieg Heil” all’inizio delle lezioni. Spesso lo zelo si sposa con il ridicolo e Heidegger, il Mago, era talmente soggiogato dal tiranno da confessare senza timore l’incanto per “le mani incantevoli di Hitler”. E Pierre Drieu La Rochelle, uno dei principali scrittori collaborazionisti nella Francia occupata dai nazisti, prima di suicidarsi, stravolto dal suo odio per il capitalismo materialista, si disse speranzoso che la sconfitta dell’hitlerismo potesse almeno essere compensata dalla purezza dell’Armata rossa trionfante.


Pochi anni prima, nella Patria dell’Armata rossa, Edmund Wilson, critico letterario finissimo (e per un po’ marito, manesco recidivo, di Mary McCarthy), rivelava affascinato: “Si ha la sensazione, in Unione sovietica, di essere sulla vetta morale del mondo, di stare in un posto dove la luce non si spegne mai” e, dopo averne visitato il mausoleo, trovava motivi per essere catturato da una irresistibile malia persino nella mummia di Lenin, “una bella faccia, di squisita finezza e – cosa che dimostra a sufficienza la sua autenticità – profondamente aristocratica”.

 

George B. Shaw aveva battuto ogni record acrobatico quanto a inchini, incensando contemporaneamente Stalin e Mussolini
 

 

Giudizio peraltro entusiasticamente condiviso da George Bernard Shaw, che in quanto a inchini ai dittatori aveva battuto ogni record acrobatico incensando contemporaneamente Stalin e Mussolini, ravvisando nella mummia leniniana “un puro tipo intellettuale – questa è la vera aristocrazia”, anche se tutti questo omaggi all’aristocrazia farebbero pure un po’ sorridere in quello che veniva indicato come il paradiso terrestre della classe operaia. O almeno della figura simbolica della classe operaia, perché quella vera, quando si ribellò nel carcere della Germania est, veniva ingiuriata da Bertolt Brecht e derisa con un celebre e lugubre motteggio a favore dei carri armati sovietici: “Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”.


Ovviamente gli intellettuali italiani non erano da meno. Anche quelli apparentemente più dubbiosi e meno legati all’apparato. Come Italo Calvino che, in visita ufficiale in Unione sovietica, si commuoveva per le festicciole che i responsabili del Partito avevano approntato per le delegazioni di seguaci perché, testuale, dalle danze russe sprizzava sovieticamente “una spontaneità e un’allegria generale”. E del resto anche Moravia, stavolta nella Cina maoista, si diceva convinto che la Rivoluzione culturale, malgrado un numero incalcolabile di morti ammazzati e di perseguitati, esibisse qualcosa di gioiosamente somigliante “ai canti rustici, alle danze paesane, alle musiche campestri di certe feste religiose in Italia”. D’altronde lo stesso Calvino avrà modo di inveire contro Geno Pampaloni (e poi Pietro Citati), colpevole di aver recensito favorevolmente “1984” di George Orwell, dimostrando così di non essersi “premunito dall’infezione di uno dei mali più tristi della nostra epoca: l’anticomunismo”.

Ha scritto Saul Bellow: “Quando il bisogno di illusione è profondo, una gran quantità di intelligenza può essere impiegata nel non capire nulla”. Dalla Cina alla Germania nazista, da Cuba al fascismo, fino all’Iran oppressivo degli ayatollah, siamo sempre alle solite. Il torto, questo feticcio, è troppo fascinoso per non lasciarsene sedurre.