
Gabriel von Max (1840–1915), “Gli studiosi”, olio su tela
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La contromusica del presente: capire il nuovo senza rifiutarlo
Disgustati da un presente pigro e individualista: abbiamo ragione o siamo come quelli che stroncavano Beethoven? Un filo tra due libri che raccontano il disagio di una generazione senza orizzonti comuni
Una generazione, secondo Ernst Bloch, è quell’insieme di persone che si accalora attorno alle medesime questioni e in nome di esse si divide. La questione nodale, che riepiloga tutte le altre, è quale siano le possibilità offerte dal presente e quali invece quelle interdette, consegnate ormai a un irredimibile passato. In una stessa epoca, che sempre è abitata da più generazioni, chi vive esperienze più antiche e risalenti si fa carico dell’ingrato compito di passare al vaglio l’esistente per capire come e perché alcune possibilità, un tempo aperte, si siano chiuse – attività, questa, che va sotto il nome altisonante di “critica della cultura”. Purtroppo, però, capire il presente e quindi criticarlo non è mestiere dei più semplici, e chi vi si esercita è sempre esposto al fallimento. Ne offre una dimostrazione plastica quella ridda di giudizi musicali “ingiusti, maleducati e singolarmente poco profetici”, raccolta nel delizioso libro del musicista e musicologo Nicolas Slonimsky, recentemente pubblicato in italiano con il titolo Invettive musicali (Adelphi 2025). Questi alcuni tra i molti possibili esempi di stroncature di cui oggi non possiamo che farci beffa: “Bruckner è il maggior pericolo musicale vivente”; “la musica di Debussy conduce al deperimento e alla rovina del nostro stesso essere”; con le sue “orribili dissonanze [il Sigfrido di Wagner] potrebbe uccidere un gatto e persino trasformare delle rocce in uova strapazzate”. Mettendo in fila le recensioni meno felici, il libro copre l’arco temporale di un secolo e mezzo, dall’inizio dell’Ottocento al 1950 circa, a cominciare dagli aspri biasimi per la musica di Beethoven, che per Slonimsky segnarono l’inizio dell’epoca d’oro della critica musicale popolare – quella critica che, per l’appunto, aspirava a farsi illuminata interprete del presente e trasmettere parole definitive a un pubblico sempre più ampio di lettori.
Nella veloce prefazione al testo originale, pubblicato in inglese nel 1953, il compositore e parodista americano Peter Schickele avanzava una ragione molto interessante per spiegare la virulenza, oltreché l’erranza, delle invettive raccolte da Slonimsky – una ragione che al contempo vale come un monito per ogni generazione: per quanto si potrà sorridere di quei macroscopici fraintendimenti, prima o poi anche noi lettori cadremo nello stesso errore di quei critici così poco accorti. Anche noi, a un certo stadio della nostra vita, falliremo nel decifrare l’ignoto e finiremo col censurare quanto ci risulta estraneo. Questa intuizione si ritrova d’altro canto in un rivelativo e in fondo consapevole commento del drammaturgo napoletano Pier Angelo Fiorentino a proposito delle innovazioni wagneriane: “Io non so se mi manca il sesto senso che, a quanto pare, è necessario per capire e apprezzare questa nuova musica, ma confesso che una scarica di pugni sulla testa non mi avrebbe causato una sensazione più spiacevole”. Lo spaesamento, assieme al timore che si rovescia presto in gratuita contumelia, è tipico di ogni generazione che nel proprio presente non sa intravvedere le tracce del futuro e le esperisce come “una scarica di pugni sulla testa”.
Nulla di tutto questo però dovrebbe indurci a condannare quanti malamente condannarono, se è vero che, per tornare di nuovo a Bloch, ogni tempo è caratterizzato dalla “contemporaneità del non-contemporaneo”. Con ciò si intende quella condizione per cui diverse generazioni, pur vivendo nello stesso tempo, appartengono di fatto ad epoche diverse. Così, ogni incontro tra esse si trasforma inevitabilmente in uno scontro che, nella formula di Slonimsky, conduce al “rifiuto dell’insolito” – vale a dire quel rigetto viscerale e inorridito che si manifesta quando “la consuetudine si scontra con un modo diverso di vivere o una maniera eterodossa di pensare”. Eppure, a dispetto di quanto scrive il musicologo russo, questo rifiuto non dovrebbe interpretarsi tanto come un confronto tra un’ortodossia e il suo opposto, quanto piuttosto come una sincronia solo apparente: la persistenza, nel tempo presente, di un mondo passato, abitato dalle generazioni più risalenti, che risulta inaccessibile alle generazioni più giovani. E allora è troppo impietoso il giudizio di Slonimsky quando accusa i critici di conservatorismo oscurantista. La loro incapacità di leggere il nuovo non è tanto frutto di cocciutaggine o di passatismo, quanto l’appartenenza a una lingua anteriore: chi parla quella lingua antica non può che intendere la lingua nascente come una sorta di deliberata e impudica balbuzie.
Malgrado ciò, questa sfasatura di epoche sembra nel nostro tempo passare in secondo piano. È come se l’asincronia comunicativa tra generazioni, nell’epoca attuale, fosse davvero dovuta a qualcosa di più che una falsa contemporaneità. Come se una mutazione ben più radicale e profonda fosse intervenuta per introdurre altri e più complicati fenomeni involutivi. In effetti, il tema della mutazione è una delle linee focali del libro di Guido Mazzoni, Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente (Laterza 2025), che già dal titolo si fa carico dell’ingeneroso onere di dire quali (poche) possibilità, oggi, rimangano aperte e quali, invece, si siano chiuse per sempre. La mutazione sta dunque a indicare una frattura nella storia recente, occorsa tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, capace di innescare una metamorfosi dalla quale pare non ci sia ritorno. Una delle tesi cardine di Senza riparo è relativa appunto a un qualcosa che è accaduto nella seconda metà del Novecento e che si può leggere solo in termini di uno scarto radicale. Negli anni Sessanta esisteva ancora quella cosa che poteva definirsi “la Storia”, in cui venivano mobilitate idee forti e le persone si polarizzavano intorno alle grandi ideologie che avevano ordito il tessuto costituzionale del Secondo dopoguerra. Tra gli anni Settanta e Ottanta, però, è accaduto qualcosa che risulta ancora misterioso e che Mazzoni, in richiamo a Jean Baudrillard, definisce “sciopero degli eventi”: “La scomparsa dei grandi conflitti ideologici novecenteschi dopo la vittoria del liberalismo in politica e del capitalismo in economia”.
In termini che non restituiscono la complessità del ragionamento, si potrebbe parlare di una mutazione radicale della sfera pubblica e della natura dei conflitti politici al suo interno. Nei primi decenni del secondo Novecento, la contrapposizione sociale metteva a confronto due parti tra loro molto diverse. Le generazioni animate da un’autentica passione politica e spinte a formare collettivi si confrontavano con la “maggioranza silenziosa” di Nixon e la “nuova borghesia” di Pasolini: “[D]isimpegnata, post-politica, individualista, familista, consumatrice, turistica, disinibita, post-borghese, superficialmente policroma se vista da vicino, intimamente coesa se vista da lontano e tendenzialmente centrista”. Quella contrapposizione tra due pubblici strutturalmente diversi è venuta meno. Per un verso, oggi le maggioranze “non sono più silenziose né centriste; si comportano invece come delle ‘classi parlanti’ e polarizzate che partecipano ogni giorno a una sorta di perenne assemblea on line divisa in bolle, prendendo la parola (o commentando la parola altrui, anche solo con un like) dentro uno spazio politico che i social network hanno completamente rimodellato”. Per altro verso, al contempo, questo rimodellamento “social”, ha inciso anche sul pubblico un tempo impegnato della sinistra, che ha del tutto perso l’afflato comunitario ed esprime piuttosto “i valori di quella parte delle classi medie che beneficia della globalizzazione, ama il cosmopolitismo e si comporta come un’avanguardia nella metamorfosi dei costumi”.
Si registra quindi un duplice e orchestrato effetto di trasformazione della sfera pubblica. Da una parte c’è la sinistra liberal, piagata dall’idolatria dei diritti più disparati, da quelli woke all’animalismo integralista, ma che in fondo sempre diritti privati sono: il diritto del privato cittadino che deve poter esprimere la propria sessualità nel modo che ritiene più appropriato e il diritto del privato cinghiale che deve poter muoversi in piena e tutelata libertà tra i rifiuti urbani. Dall’altra parte c’è la destra bianca revanscista, cultrice di valori ancestrali (intesi quali unico freno al dilagante immoralismo), che per ironia elegge a modello chi, a est del nostro mondo, vorrebbe porre fine alla nostra discinta way of life. Elemento comune di queste due parti, opposte solo in apparenza, è la voglia irresistibile di “prendere la parola su problemi sconosciuti, o conosciuti solo di seconda o terza mano”, su quei social network che sanno offrirsi come pratica ribalta a chiunque abbia uno smartphone. In questo quadro, Trump esercita una forza arcana e rivelatrice a un tempo, specie nel suo rapporto con il popolo: “Vuole esprimere la volontà popolare e insieme governarla, vuole rappresentare gli elettori e al tempo stesso trascenderli”. Così facendo, Trump rimette in moto un meccanismo consolidato e atavico della politica dei tempi d’oro: la destra bianca revanscista, che forma il suo elettorato, non esisterebbe senza di lui. Essa prende vita nel momento in cui egli la mette in scena e così la pone in essere.
Lo fa perché sa utilizzare meglio di altri quelle tecniche di comunicazione che oggi hanno sostituito la vecchia opinione pubblica dei giornali e dei caffè. Lo fa sfruttando l’“individualismo anarcoide” dei social media, capaci di inscenare fenomeni che non è detto esistano nella realtà che sta fuori da quei canali – quella che per abitudine più che per convinzione ancora ci ostiniamo a chiamare “realtà”. Mentre lo spazio dei social, proprio perché individualista e anarcoide, induce comprensibilmente alla pigrizia: “Le destre contemporanee non vogliono le adunate militari, la mobilitazione generale, i bambini in divisa e il sabato fascista; vogliono una forma più o meno blanda di apartheid in una gated community difesa dalla polizia: una minoranza di benestanti (su scala globale quasi tutti gli occidentali lo sono ancora) che cerca di proteggersi, con le frontiere e le espulsioni”. Al contempo, sempre nel nome di quella specularità di cui si diceva sopra, Mazzoni scrive che il popolo della sinistra è soggetto a un parallelo meccanismo di rimodellamento, che da quello occorso a destra si differenzia nei contenuti ma non negli esiti. Delle diverse anime del Sessantotto, infatti, ha trionfato la disinibizione e la trasformazione dei costumi, non certo l’afflato politico di radicale attacco al “sistema”. In quel lungo Sessantotto, “un’Italia provinciale eterna si ibridava con un’America mitologica e largamente immaginaria”. Questa ibridazione ha fatto strame di ogni ideale comunitario e di ogni fraternità da costruire, lasciando spazio a una società composta di “individui e famiglie, o al massimo identities e tribù”.
A destra come a sinistra, pertanto, non si hanno altri scenari che quelli di una società fatta “di persone private che vivono solo per sé e per i propri cari dentro le impalcature dell’economia di mercato, avendo perduto la capacità anche solo di immaginare che un altro mondo sia possibile”. Senza riparo offre dunque una medesima diagnosi per spiegare una medesima radicale mutazione nei due pubblici oggi più rappresentativi e nutriti. La comune origine della destra bianca e della sinistra woke è un problema che a me sembra infatti abbia a che fare innanzitutto con l’immaginazione: l’incapacità di tracciare un orizzonte alternativo, foss’anche irrealizzabile – di più, alternativo proprio perché irrealizzabile, e dunque carico di una forza utopica folle e senza speranza alcuna di successo. Tra l’Otto e il Novecento, le utopie della destra e della sinistra, mostruose quanto si vuole, avevano promosso cambiamenti epocali con la sola pretesa che il mondo si adeguasse all’immagine di società da esse nutrita. Oggi tutto questo è inibito da una profusa carenza di idee, o quantomeno di quel tipo di idee non riassumibili nella foto filtrata di un post o nei trenta secondi di un reel. Ne consegue una disfunzione non priva di effetti nefasti, e in particolare quello che Mazzoni definisce la “fine dei ripari”. Si avverte dappertutto la diffusa (e veridica) sensazione che non ci siano più argini difensivi rispetto a problemi di natura collettiva, come la crisi climatica, l’inverno demografico, il ritorno delle guerre, l’espansione delle intelligenze non umane e molti altri.
Si assiste dunque inermi al crescere di una temibile asimmetria tra la magnitudine di quei problemi e la pochezza del nostro immaginario – asimmetria temibile proprio nella misura in cui l’avvio della soluzione di un qualsiasi problema sta nel repertorio di idee e di parole con cui lo si dice. Certo si potrà sempre sostenere che l’autore di Senza riparo, come d’altro canto chi scrive, soffra della stessa improvvida cecità di cui soffrivano i critici scudisciati nel mirabile compendio di fallimenti allestito da Slonimsky. Si potrebbe ben trattare, dunque, di ulteriori e nuove invettive, destinate presto a rivelarsi per come sono: frutto della paura di qualcosa che a noi anziani appare ignoto e insolito solo perché siamo in debito di idee nuove. Nessuna autentica e definitiva “mutazione social”, dunque, ma la sempiterna asimmetria tra generazioni vecchie e nuove. E sia: faccio mia la provocazione e mi cullo in questo confortante miraggio. Apro Instagram e vedo in ogni forma e colore Trump che fa di “YMCA” il suo inno celebrativo. Ammiro quel settantottenne che sa leggere il presente meglio di chiunque altro e che sa scaldare e crescere le nuove generazioni. E così ammetto in cuor mio: quello di chi scrive non è che grigiore biliare, prodotto dalla frustrata incapacità di intraleggere nella coreografia trumpiana il messaggio crittografato di un futuro radioso – un futuro che comunque auspico si realizzi del tutto solo una volta celebrato il mio funerale.



nichilismo e tornanti della storia