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Israele, Hamas e il fottuto capitalismo. Confronto volterriano tra due libri
Due pubblicazioni, due visioni inconciliabili sul conflitto israelo-palestinese: il realismo disilluso di Parenzo e l’attivismo ideologico di Albanese
Tra Greta che torna a casa in aereo coi giornali che scrivono “rapita”, Elodie che sfodera il bandierone palestinese nel climax di un concerto “sensuale e inclusivo”, e il libro di Francesca Albanese subito primo in classifica, sezione “Libertà e Sicurezza” su Amazon, un po’ di sconforto può anche venire. La battaglia è impari. Allora per tirarci su leggiamo “Lo scandalo di Israele” di David Parenzo. Un titolo perfetto: sostenere quelle ragioni significa ormai dare scandalo. La vita sociale si è fatta complicata, se ci invitano a cena siamo attenti a non sfiorare l’argomento, anche con chi conosciamo bene o credevamo di conoscere bene. Consapevole che “non basterebbero dieci libri come questo per raccontare la tragedia del 7 ottobre da una parte e le sofferenze dei palestinesi dall’altra”, Parenzo rievoca le proteste a Tel Aviv, le marce contro la guerra, quelle per liberare gli ostaggi, le storie dei tantissimi israeliani che si sentono traditi dal governo, dei palestinesi che vorrebbero liberarsi da Hamas, lo spaesamento di una sinistra israeliana in bilico tra la contestazione a Netanyahu e l’impraticabilità di “due popoli due stati” finché ci sarà Hamas. “Al netto di tutti i tragici errori commessi, ogni giorno in piazza scendono migliaia di persone a manifestare contro il governo, c’è una stampa libera che sta addosso a Netanyahu, c’è una forte opposizione politica, ci sono Ong e associazioni israeliane che vanno apertamente contro il governo”. Insomma, c’è quella cosa che chiamiamo democrazia. Una democrazia imperfetta, come tutte le democrazie, che è però un piccolissimo, straordinario pezzo di libertà in mezzo a teocrazie e dittature. Una “pietra d’inciampo”. Ma come mai nessuna Elodie sembra interessata a ricordarlo? Perché è così complicato sfoderare sul palco insieme alla bandiera palestinese una foto di Shani Louk o degli altri ragazzi trucidati al Nova Festival, che “nessun corteo della pace ha mai trovato il tempo di ricordare”? Cosa succederebbe? Si perderebbero follower? Consenso? Sponsor? Concertoni negli stadi? Ma se ricordando a un concerto ragazzi da tutto il mondo ammazzati mentre ballavano nel deserto si finisce in una zona grigia o tra le fila dei cattivi, non c’è forse qualcosa che non va?
Finito il libro di Parenzo, decido allora di leggere quello di Francesca Albanese (“Quando il mondo dorme. Storie, parole, ferite dalla Palestina”). E’ un esercizio che consiglio a tutti. Leggeteli insieme. In un impeto volterriano, provate a leggerli tenendo un punto di vista equidistante e neutrale (lo so, è impossibile, ripetetevi “non la penso come Francesca Albanese ma farei di tutto per farle continuare a dire genocidio e Hamas non è un gruppo terroristico”). Provate a sprofondare nelle storie che raccontano. Perché di storie e vicende umane drammatiche si tratta: resoconti, ritratti, reportage, interviste che ci portano nel cuore del conflitto, delle sue ragioni storiche o metafisiche e millenarie. Vi accorgerete che le storie che riporta Francesca Albanese sono “esemplari”, come nei drammi didattici di Brecht. Ci sono i buoni, ci sono i cattivi, anzi IL cattivo. Se per voi Israele è il Grande Satana assetato di ospedali, donne, bambini, campione di genocidio, medaglia d’oro di apartheid, Albanese vi illustra “con obiettività” perché è così. Non si tratta di confermare le convinzioni del lettore ma di dargli una struttura di “disvelamento” con la sempre attraente retorica del “risveglio” (“Quando il mondo dorme”…). “Per me la Palestina è stata la pillola rossa di Matrix”, scrive Albanese, e su Amazon un tripudio di recensioni tipo “grazie per la Verità”, “la voce della Verità”, “una presa di coscienza”, “mi ha aperto gli occhi e la mente”, proprio come la pillola di “Matrix”. Quando Parenzo rievoca l’incredibile storia di Yuval Biton, dentista delle carceri israeliani che si prende cura di ascessi e carie dei terroristi, diventa esperto di intelligence sfruttando l’empatia che crea coi suoi pazienti, salva la vita a Sinwar mentre è in prigione, poi perde suo nipote nei massacri del 7 ottobre, non vuole dimostrare nulla. Non deve convincere il lettore.
C’è solo l’assurdità dei destini che si intrecciano tra loro in quel piccolissimo pezzo di terra (e uno script perfetto per Spielberg). Non c’è un solo grande cattivo. “Lo scandalo di Israele” ci lascia in bilico sul precipizio dei torti. Se siamo filoisraeliani ci disintossica. Se odiamo Israele potrebbe farci venire il dubbio che su Israele sappiamo poco. Quello di Albanese, invece, è un “contrasto agli ingranaggi del Sistema”. E questo piace sempre. “Il sistema che reprime la Palestina è lo stesso che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi”, dice. E’ il sistema “che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri”. Il sistema che “compromette la nostra capacità di agire per una causa giusta, dall’ambiente alla Palestina, passando per i lavoratori precari e le questioni di genere”. Insomma, IL Sistema. Quello lì, quello di sempre: il fottuto capitalismo occidentale. Questo giusto per ricordare alle anime candide che ancora si stupiscono di chi in piazza mette insieme Gaza e Jobs Act o degli attivisti queer che tifano per Hamas nonostante Hamas li farebbe volentieri a fettine: è tutto interconnesso, la lotta ultima è sempre quella: la liberazione dell’umanità. Hamas sarà anche spietato, ma è pur sempre un piccolo passo nella direzione giusta: abbattere il sistema. Ecco perché tra una teologia della liberazione che oggi usa la causa palestinese come ieri il Vietnam o la Cina maoista, e una difesa dello scandalo di Israele, pietra d’inciampo di teocrazie e dittature, la lotta sui media è impari. Ma come diceva Golda Meir, ripresa anche da Parenzo, “il pessimismo è un lusso che un ebreo non può permettersi”.