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Sliding doors

Valerio Mieli racconta una giovinezza di smarrimento e ricerca della libertà

Cristina Marconi

Nel suo nuovo libro, il regista sfrutta l'espediente del what if per interpellare le scelte che si fanno quando si è giovani, che siano sentimentali, professionali, geografiche, come se rimanessero per tutta la vita di stringente attualità. L'importanza di aprirsi all' allettante indeterminatezza di ciò che è nuovo, e non per forza migliore.

Cos’è la vitalità? Una dote che prima o poi troverà una sua via d’espressione, quali che siano le condizioni di partenza – provincia, responsabilità gravose, colpi bassi della vita contro cui si può poco o niente – o una virtù che si alimenta attraverso scelte di libertà, costanti, che siano quelle più plateali come andare ad abbeverarsi a Parigi e crescere alla luce di tutta quella raffinatezza? Valerio Mieli le storie le ha sempre raccontate al cinema, anche se il suo fortunato “Dieci inverni”, del 2009, con cui aveva vinto David di Donatello e Nastro d’Argento, era stato seguito a stretto giro da un romanzo, ma stavolta è a una forma più pura di narrazione – bella scrittura, ironica, spedita – che affida il ritorno al suo tema più caro, quell’interpellare le scelte della giovinezza, che siano sentimentali, professionali, geografiche, come se rimanessero per tutta la vita di stringente attualità. E che Scelgo tutto (Nave di Teseo) possa trasformarsi in un film o in una serie, visto che i diritti sono stati già acquisiti da Wildside, non toglie che sia un romanzo di parole, senza ammiccamenti ad altri linguaggi se non la scorrevolezza della trama. L’espediente del what if, o sliding doors che dir si voglia, viene applicato alla vita di Cosimo, detto Cosimino nella sua cittadina d’origine in Ciociaria, ma pronto a trasformarsi in un più enigmatico Cosimo a Parigi, nel corso delle 400 e passa pagine che ne raccontano le due facce del bivio, parto o non parto, esco o non esco.

“Aveva incontrato ancora gente nuova, diversa, straniera. Aveva, aveva, aveva. E io? Io no, non avevo”, ragiona il protagonista sul tema centrale della vita piena, della vita sbadabam in cui bisogna fare l’uovo oppure si rischia la peggiore delle condanne, l’insoddisfazione, inseguiti dall’eterno quesito: accontentarsi è un bene o è un male? Chissà se ce lo si chiede ancora adesso o se sia una faccenda generazionale di chi si avvicina ai 50 anni e pensava davvero di poter scegliere tutto? Urge indagine, magari oggi consumarsi non è più di moda, chissà. E a questo è legato il tema dell’altrove, del partire – “E tu pensi che sei cosmopolita solo perché hai scopato fuori provincia?” – e dei nuovi incontri, per sottrarsi con qualche sforzo a quella gabbia meravigliosa che è il primo amore, “quel tempo senza tempo” a cui basta tornare per ricordare che, sotto la superficie increspata, il nostro mare era sempre calmo, profondo e misterioso”. E aprirsi alla sua allettante indeterminatezza di ciò che è nuovo, e non per forza migliore. Quando la parigina Marie-Madeleine accompagna il protagonista a vedere i musei, con lei “quell’ammasso di oggetti, le statue, i quadri, si animavano, come la notte i giocattoli nei cartoni, e così anche i palazzi, le insegne, le pubblicità in metro: prima muti, ora lampeggiavano di significato. Il bosco s’incantava”.

E così sembra animarsi pure lui, prendere vita nella sua forma nuova, quella del sofisticato Cosimo. Definitiva? No, l’esistenza è troppo più complicata di così e Mieli ce la racconta nei suoi alti e nei suoi bassi, mettendo il protagonista a confronto con un personaggio ancora più militante nella sua ricerca della libertà, Giacoma, tormentata dall’anticonformismo profondo di chi ha il terrore di cedere qualcosa della propria esperienza umana in nome di una struttura a cui non dobbiamo niente. O forse sì? Perché quella struttura – la famiglia, la forma dell’amore, il prendersi cura di chi ci piace tantissimo, abbastanza da sentire che con quelle risate, con quella passione si può fare una strada lunga insieme – sono quelle che ci proteggono, che ci permettono di concentrarci sulle nostre idee, e tanto meglio se c’è l’esperienza di Parigi a dirci che le idee non sono mai abbastanza e che vanno rispettate, anche se vengono accolte con una risata. Quanto possono divergere i destini se poi l’unica vera forza motrice di tutto è il carattere, l’indole, quella ricerca della battuta, del lato buffo delle cose, del gioco come capacità continua di rimescolare le carte? Solo la finzione ci permette di scoprirlo.
 

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