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Quest'epoca accelerata richiede più libertà. Confronto con un amico filosofo
Se fino a ieri l’ordine politico si basava su una certa regolarità dei comportamenti umani e una certa stabilità del loro contesto, oggi bisogna fare i conti con l’imprevedibilità di entrambi. L'analisi insolita e spietata dell'ultimo libro di Raimondo Cubeddu
Un famoso detto recita che bisogna essere amici più della verità che degli uomini: “Amicus Plato sed magis amica veritas”. La verità innanzi tutto dunque. Eppure, proprio quando si discute di filosofia, la stessa tradizione platonico-aristotelica da cui proviene quel detto ci insegna quanto sia importante che tra i disputanti ci sia un fondo d’amicizia. E’ l’amicizia che, anche in presenza di profonde divergenze d’opinione, mantiene vivo il desiderio di comprensione, anziché quello di spingere fino in fondo le cose e di aver ragione a ogni costo, il desiderio di persuadere l’interlocutore, anziché quello di piantarlo in asso e magari andarsene a dormire. Oltretutto è proprio dal confronto e dalla discussione che la verità si arricchisce. Meglio dunque essere amici e avere opinioni divergenti, che detestarsi e pensarla allo stesso modo. Se non fosse così, non riuscirei a spiegare quel senso di gratitudine che provo ogni volta che leggo un libro di Raimondo Cubeddu. Il suo epicureismo mi irrita, oltretutto la sua scrittura è impervia, ma da pochi altri credo di imparare quanto imparo da lui. E questo vale di sicuro anche per l’ultimo libro che ha appena pubblicato da Cantagalli: La politica, il tempo e l’incertezza.
Al centro del libro sta un tema fondamentale, esplicitato già nelle prime battute dell’Introduzione: quello della “condizione della politica in relazione alla sua crescente difficoltà a moderare le aspettative umane e nel produrre certezza in tempi e con costi accettabili”. A questo proposito, nel mirino di Cubeddu non ci sono tanto i sogni politici moderni di poter finalmente realizzare grazie alla scienza, alla tecnica e all’accantonamento della religione la felicità in terra; c’è piuttosto l’idea stessa della politica che ci portiamo dietro dai tempi di Platone e Aristotele, la quale, considerata come l’attività naturale dell’uomo, questa la colpa principale che Cubeddu le attribuisce, ha finito per suscitare “speranze illimitate”, dimenticando i limiti della natura umana, i limiti delle risorse disponibili, quindi della capacità di soddisfare le umane aspettative, che l’hanno condotta al suo “attuale declino”. Per far presa sulla realtà, pare che alla politica odierna non resti che perseverare nei suoi antichi vizi: scatenare guerre devastanti e produrre regolamentazioni sempre più asfissianti per la vita degli individui e delle comunità.
L’analisi di Cubeddu su questo punto è tanto insolita quanto spietata. E’ insolita perché, nonostante il sarcasmo che viene riservato all’inadeguatezza dell’attuale classe politica, non c’è la minima traccia di moralismo. Non è rilanciando la virtù o il bene comune contro il famigerato (e inesistente!) neoliberismo che usciremo dal pantano in cui ci siamo cacciati. Il mondo delle cose umane ha mostrato ormai in modo inequivocabile il suo carattere “non ergodico”, irregolare, imprevedibile. E questo, ecco la spietatezza dell’analisi di Cubeddu, senza che la politica o la religione potessero farci nulla. Il vero cambiamento infatti “consiste sostanzialmente nell’accelerata frequenza dell’emergere di novità scientifiche, economiche, morali, nella velocità della loro diffusione e nella correlata modificazione di valori, aspettative e stili di vita”: tutte situazioni rispetto alle quali la politica è sempre più impotente. Ma, domanda giustamente Cubeddu, quanto può durare un sistema, sia pure democratico, che non riesce più a soddisfare in modo efficiente e tempestivo le esigenze dei suoi membri? Come si configurerà la relazione fra intelligenza artificiale e decisione politica? E soprattutto: è lecito che la filosofia politica occidentale assista impotente a questa sua “conflittuale dissoluzione attribuendola alla carenza di etica prodotta dal neo-liberalismo”?
Secondo Cubeddu, siamo di fronte a un cambiamento di paradigma, non a semplici problemi nuovi. Se fino a ieri l’ordine politico si basava su una certa regolarità dei comportamenti umani e una certa stabilità del loro contesto, oggi bisogna fare i conti con l’imprevedibilità di entrambi. Di conseguenza cresce la rilevanza del fattore tempo. Le aspettative e le pretese individuali e sociali mutano assai più velocemente di quanto le istituzioni impiegano a disporsi per la loro realizzazione; inoltre, essendo le aspettative individuali in linea di principio illimitate, vano appare il tentativo di controllarle o selezionarle politicamente; molto meglio affidarsi dunque ai liberi scambi, in modo che gli individui possano cercare di migliorare la loro condizione senza arrecare danno agli altri: “La libertà e gli scambi, non la virtù, appaiono come il metodo migliore con cui provare a essere felici, data la condizione umana di scarsità (di conoscenza, tempo, risorse) e di incertezza (dati gli esiti imprevisti e imprevedibili delle azioni)”.
Alla base di queste considerazioni di Cubeddu, che di per sé condivido in pieno, stanno una serie di riferimenti culturali che ruotano intorno a Bruno Leoni, al liberalismo della scuola austriaca e all’epicureismo che non mi convincono tutti allo stesso modo. Condivido anche l’idea, cara a Cubeddu, secondo la quale la modernità politica non è riducibile a una semplice secolarizzazione di idee cristiane. Ho invece molti dubbi sul fatto che tutto questo sia inconciliabile con la prospettiva filosofico-politica classica e con quella cristiana. Già in Aristotele, ad esempio, la virtù serviva certo a denunciare le degenerazioni della politica, ma non a combatterle in nome della verità. Quanto alla filosofia politica cristiana, c’è in essa anche una componente che, guardando con diffidenza a ogni forma di statalismo, punta decisamente sulla libertà degli individui e sulle libere associazioni per consentire che ciascuno persegua liberamente il proprio bene. Come vado dicendo da tempo, prendere sul serio il valore assoluto della persona umana significa anche riconoscere che in politica è sempre meglio un errore scelto liberamente dalla maggioranza degli interessati che una verità imposta con la forza. Mi sembra una virtù non trascurabile.

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