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Alle radici dell'odio occidentale per Israele, l'invidia per chi sa per cosa combatte
Il nuovo libro di Nathan Greppi mostra con chiarezza il fatto che non riusciamo a perdonare l’esistenza di una nazione che – mentre noi ci consumiamo in un eterno dibattito su cosa non vogliamo essere – ha il coraggio di sapere quello che vuole e di agire senza pretendere l’approvazione del mondo
L’animosità che quattro quinti dell’opinione pubblica d’Europa nutre verso Israele indossa la maschera dell’umanitarismo, ma sotto cova un astio più profondo: quello di una società sfibrata, impaurita, senile, che non sopporta la vista di ciò che è giovane, sicuro di sé, indomito. Soprattutto in Italia, dove la natalità è azzerata e disprezzare lo stato è il birignao di tutti, diventa quasi fisiologico prendersela con Israele, dove si fanno ancora figli e lo stato riesce a mobilitare una popolazione che non ha smesso di crederci. L’antisionismo è la formula per esprimere in modo socialmente accettabile un risentimento di massa. Il libro “La cultura dell’odio. Media, università e artisti contro Israele” di Nathan Greppi (Lindau, 2025) lo mostra con chiarezza. Altro che neonazismo: oggi l’odio per Israele si annida nei festival culturali, nei dipartimenti universitari, nei circoli della sinistra post-terzomondista. E’ lì che per decenni si è coltivato l’odio per l’occidente, ora rovesciato su Israele, il suo ultimo campione. Troppo forte, troppo risoluto, troppo poco incline all’autoflagellazione per risultare tollerabile a chi tira avanti tra memorie colpevoli e l’attesa del crepuscolo.
Il sionismo volle immaginare un ebreo nuovo, non più pogromizzato e vittima, ma edificatore. Facendosi largo dentro un ambiente naturale e umano più che ostile, Israele l’ha spuntata e, ottant’anni dopo, è ancora qui. Il sionismo è l’unica avanguardia intellettuale del Novecento europeo che non si è schiantata contro un muro. L’odio per quello che Israele fa deriva dalla incomprensione per quello che è riuscito a compiere. E chiunque gli sia nemico, noi lo promuoviamo subito ad amico. Greppi cita il poeta palestinese Mahmoud Darwish: “Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me”. L’interesse per la causa della Palestina spesso è solo uno specchio dell’insofferenza che proviamo per Israele.
Il controesempio, in Italia, è la totale assenza di sentimenti anti russi nonostante l’Ucraina. Il popolo russo da sempre lo consideriamo cornuto e mazziato, vittima designata del potere, infelice e mugugnatore, per questo ci ispira una simpatia istintiva e mimetica che si estende ai suoi caporioni, Putin compreso, qualunque cosa facciano. Ci riconosciamo nel circuito dell’umiliazione tra governanti e governati, nei proclami patriottardi rivolti a una platea sottomessa e sfiduciata. Gli israeliani invece, ci irritano più dei “crucchi”. Nel nostro foro interiore non perdoniamo l’esistenza di una nazione che, mentre noi ci consumiamo in un eterno dibattito su cosa non vogliamo essere, ha il coraggio di sapere quello che vuole, e di agire senza pretendere l’approvazione del mondo. Anche a costo di commettere gli errori tragici di cui ogni popolo con un destino prima o poi si fa carico. Alla radice dell’odio per Israele c’è il risentimento di una civiltà esangue e rassegnata alla propria fine, verso chi, nel deserto, resiste e cresce.