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Giulio Bollati, l'erudito metafisico

Jacopo Parodi

L'editore e italianista credeva davvero di poter cambiare il mondo con i libri. “L’Italiano” è un saggio da leggere e declamare nelle piazze

Un centenario ormai trascorso, con un grande convegno e diversi momenti di testimonianza e ricordo (anche su questo giornale, da parte di Alfonso Berardinelli), richiede una riflessione accurata e distesa sul personaggio celebrato, ora che si può tirare un sospiro. E molto rimane da studiare e da sondare, pubblicando testi e documenti sconosciuti e fondamentali. Non mi viene, però, in mente che un quesito secco, e forse un po’ impertinente di fronte alla complessità eclettica e a tratti imprendibile della figura da indagare: chi era, insomma, Giulio Bollati (1924-1996)? Editore in proprio tardivo (con l’acquisto da parte della sorella Romilda della Boringhieri, nel 1987), e, prima, trentennale funzionario editoriale einaudiano, assunto da Einaudi stesso nel 1949, dalla grande influenza, ma sostanzialmente, per lunghi decenni, nascosto dietro le quinte. Solo questo? Dobbiamo – detto altrimenti e fuori dai denti – proprio ricordarlo e ripescarlo dal magma del Novecento italiano, con così tanta gente da rievocare e ricordare, pure se ci si limita all’editoria? 

 

                 

 

Anche il Bollati saggista, formatosi come italianista alla Scuola Normale Superiore di Pisa con illustri maestri (Luigi Russo, Giorgio Pasquali e, soprattutto, Delio Cantimori), forse, resta di difficile comprensione ai più: è un prosatore di storia e di letteratura dallo stile complesso, dall’erudizione prodigiosa, dalla grazia letteraria ardua per chi è privo degli strumenti critici e storici di cui egli si serve con grande e naturale padronanza. D’altronde, era lo stesso Cantimori, il più importante storico moderno del nostro Novecento, che lo stimava senza riserve, a scrivergli, in una lettera ancora inedita dell’autunno del 1964 (non datata, riferibile all’ottobre-novembre), sul saggio che Bollati appone alla sua edizione delle Tragedie di Alessandro Manzoni, uscita l’anno successivo per Einaudi: “Si legge col cuore in gola, tanto prende, le prime 3 o 4 cartelle anche col cervello in poltiglia: la madonna come sei difficile!”. E aggiungeva, in una lettera di poco successiva, del 22 novembre, con gli occhi pieni di ammirazione, riferendosi a un altro punto dell’introduzione: “Scusami, caro Giulio, ma sei grande. Dico sul serio: non solo per la penetrazione critica e letteraria […] ma anche lo sprezzo sovrano che dimostri (proprio nel mentre le adoperi, ma non nel loro modo di vestirsi o nel loro modo di proporsi o di darsi) verso le nostre professorali distinzioni fra cronaca e storia. […] Se ci saranno futuri professori intelligenti, quante cattedre saranno raggiunte (poerini!) sviluppando ‘per concetti’ etc. queste, ahi per noi, troppo concise annotazioni”.

In fondo, però, l’elitarissimo, almeno in apparenza, Bollati non ha neppure scritto molto. Il suo saggio più importante, L’Italiano del 1972, è, tuttavia, un capolavoro indiscutibile, che andrebbe letto nelle scuole, nelle piazze, nei teatri, messo in mano, magari con qualche nota di commento capace di far sentire il lettore più a suo agio (e al diavolo i puristi!), a ragazze e ragazzi. Per insegnare loro, con una prosa e uno stile dal sapore unico, che cosa voglia dire la retorica dei nazionalismi, delle false identità, dei mascheramenti che il potere inventa per nascondere l’assenza di reali riforme sociali.

 

Per insegnare loro, con una prosa e uno stile dal sapore unico, che cosa voglia dire la retorica dei nazionalismi, delle false identità, dei mascheramenti che il potere inventa per nascondere l’assenza di reali riforme sociali

             

Andrebbe, dicevo, recitato, drammatizzato, tirato fuori dagli scaffali degli estimatori e devoti di Bollati. E spiegato agli studenti come un racconto appassionato, anche violento, con picchi di rabbia furibonda, certo non per questo meno raffinato o meditato, di un intreccio di paure, di inganni, di falsificazioni storiche, che ha, nel suo complesso, impedito all’Italia di entrare e vivere pienamente – tra disastri, inevitabili ma contenibili, e necessarie speranze – la modernità tecnica e industriale, in cui ci è toccato in sorte di aggirarci. Siamo vivi, sopravvissuti a due guerre mondiali, sì, ma, come scriveva Bollati stesso un decennio dopo l’Italiano – in una sua premessa a una nuova edizione, che lo raccoglieva insieme ad altri saggi –, “in ogni caso, non esistiamo se non al suo interno [intende la modernità nata con la Rivoluzione industriale], e tutta la cultura moderna, la filosofia e la poesia non sono che una ininterrotta interrogazione sulla nostra sorte di terrestri industrializzati”. Una selva di personaggi chiaroscurali, di eroi negativi, si alza dalla polvere della storia italiana tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento: sono aristocratici che cercano di costruire uno stato nuovo con valori vecchi, cercando di rivestire con ideali progressisti, umanitari, e paternalistici, la ormai squalificata ossatura economica, sociale, politica ed ideologica dell’Antico regime. Le masse popolari – simili al coro degli italici, umiliati e sottomessi, dell’Adelchi manzoniano, cui Bollati dedica quelle pagine vertiginose lette da Cantimori – rimangono fuori dal grande gioco della storia e della modernità. Il fatto è che l’industrializzazione, e le sue possibilità di rinnovo delle gerarchie sociali, sono state strumentalizzate e anestetizzate da intellettuali, che, conniventi con la nascente borghesia industriale, hanno garantito non solo la sopravvivenza della repressione, dell’esclusione degli ultimi dalle decisioni fondamentali, ma anche un futuro in cui il progresso trasforma i contadini in operai e soldati sfruttati ed educati all’obbedienza delle classi dominanti, vecchie e nuove. Nessuna libertà, solo l’illusione di aver acquisito il diritto a un’educazione e a un ruolo storico, manipolato e concesso dall’alto. 

Facile è intravedere nella ricostruzione della “colpa” originaria, svolta con puntiglio da Bollati, e attribuita ai romantici milanesi, che si riuniscono intorno al periodico “Il Conciliatore” (1818-1819), il paradigma di un intellettuale – italiano, ma non solo – che ha costantemente “le mani sporche”, cioè che tradisce il popolo per mantenere privilegi, che ammanta di valore assoluto e a-storico. D’altronde, è riconoscibile, pur in una lettura assolutamente originale, l’influenza di Antonio Gramsci e della sua distinzione tra intellettuali tradizionali e intellettuali organici. Anche se, per Bollati, il vero contraltare di chi finge di essere indipendente ma è, invece, asservito alla mistificazione del capitalismo, è l’utopista visionario, che vede dietro la Rivoluzione industriale qualcosa di ben più grande: questa è in realtà la prosecuzione della rivoluzione copernicana e galileiana, che sbalestra l’uomo al di fuori del centro dell’universo. Un nulla  – l’uomo e il suo mondo – che volteggia in un cosmo infinitamente moltiplicabile. Il problema diviene, dunque, metafisico, cioè riguarda le motivazioni prime dell’essere al mondo. E, quindi, si presentano i veri protagonisti della scrittura di Bollati. I grandi autori dell’Ottocento italiano: Leopardi, l’oppositore radicale di ogni tradimento della vera natura della modernità, e, invece, il tormentato Manzoni, cristallizzato nella paura e nel compromesso, pur avendo profondissima consapevolezza di quel deserto che il moderno ha svelato. E che è, nella sostanza, la vita stessa, priva di significato e, dunque, in potenza, reinventabile fin dalle fondamenta, se solo si volesse rinunciare alle ipocrisie e alle supremazie dei potenti di turno sugli sconfitti di sempre.

 

Il problema diviene, dunque, metafisico, cioè riguarda le motivazioni prime dell’essere al mondo

             

Si legge, a conferma di ciò, in un appunto di struggente lucidità e bellezza, anch’esso ancora inedito – a testimonianza del lavoro di scavo da svolgere su Bollati: “Per ogni scrittore che sia una figura di rilievo culturale (Leopardi, Manzoni, De Sanctis) esiste un problema ‘culturale’, umano, politico, psicologico, espressivo fondamentale che, ove non sia esplicito, costituisce però il punto di fuga verso il quale convergono le linee d’una prospettiva generale. Per Leopardi la questione si pone analogamente sul piano ‘storico’ (‘culturale’), da cui si attua il passaggio nel metafisico. Anche per Manzoni [sottintende “si attua”] il passaggio dallo storico nell’assoluto”. In breve, il vuoto dell’universo diviene lo specchio di una libertà autentica. Dolorosa, difficile, ma da conquistare per garantire a ciascuno la dignità di parola, di azione, e, soprattutto, un rispetto inedito della persona umana.

Dunque, è alla luce di queste, diremmo, coordinate generali, che bisogna collocare l’operazione di Tommaso Munari, che ha tentato – seguendo le orme della massima storica dell’editoria dell’Italia novecentesca, Luisa Mangoni, intellettualmente innamorata di Giulio Bollati – di disegnare un profilo del Bollati funzionario editoriale all’Einaudi: Giulio Bollati, Lettere e scritti editoriali 1949-1980, a cura di Tommaso Munari, Einaudi 2024. Si tratta di un profilo visto, dunque, sotto la luce di straordinario epistolografo, anche se ponendosi a debita distanza da santificazioni di comodo, per giungere al nocciolo della natura più profonda di chi si muoveva tra le stanze, i corridoi segreti del Settecento e dell’Ottocento, come un castellano accortissimo.

Ma con la passione per il Novecento, per le ricadute di quella meditazione erudita, e filosofica, sull’oggi che Bollati stesso si ritrova a voler modificare attraverso l’azione editoriale, discreta ma decisiva, quotidiana ma visceralmente fondata nella riflessione sofisticata e indipendente. Scrive, dunque, Munari: “Quando impugnava la penna […] Bollati lo faceva per convincere, rassicurare, appianare, come un esperto funzionario. Di qui certe peculiarità del suo stile, al contempo stringente e sorvegliato, e del suo registro, ricercato eppure limpido, che se da un lato ne fanno un corrispondente invocato e ascoltato da autori e collaboratori, dall’altro lo condannano a una costante affettazione, una congenita mancanza di spontaneità. Quando scriveva una lettera, si potrebbe anche dire, Bollati si metteva in posa”. Queste osservazioni di Munari possono essere certo condivise, data la ricorrenza di citazioni, la composta eleganza, il senso della misura di Bollati. Anzi, se, per fare un esempio, si mettono al confronto le lettere di Cantimori con quelle del suo ex allievo, nella cornice del carteggio tra i due, si comprende rapidamente che, mentre l’umorale Cantimori scrive spesso mettendo in scena la sua intera intimità, i suoi dolori, le sue ansie, i suoi momenti di depressione, Bollati, invece, considera la lettera come qualcosa di ben differente. Come fosse una sorta di “ultimo degli umanisti”, il saggista-editore cerca di proporre un’immagine di sé limata con ogni raffinatezza stilistica (anche con l’artificio della naturalezza simulata, a volte), che possa comunicare al proprio corrispondente, più che una posa, un frammento del suo itinerario intellettuale. Colto nella difficoltà – è l’eterna sfida di questo studioso, che ha rinunciato a una vita di solitarie ricerche e, magari, di lezioni per pochi eletti – di legare lo svolgimento delle sue indagini, della propria linea di pensiero, alla, per converso, contingenza editoriale e storica.

Sì, Giulio Bollati credeva davvero di poter cambiare il mondo con i libri: il suo disincanto, che emerge anche in varie lettere tra quelle antologizzate da Munari, è una lente con cui egli legge l’esistenza, al modo di quel Leopardi da lui tanto inseguito e braccato (si pensi allo spettacolare saggio del 1968 posto come introduzione all’edizione einaudiana della Crestomazia della prosa, opera del poeta generalmente ritenuta minore). Nullificare il reale, riconoscere il vuoto nel presunto pieno dell’esistenza, al fine di liberarlo da schemi consunti e tenuti in piedi in malafede: e così ricominciare a vivere: tutto ciò può dirsi pura utopia? Non è, in fondo, che la convinzione di poter riscrivere la vita, come se fosse un libro. Intessuto di ferite, incancellabili, ma in cui ritrovare la sincerità di un inizio, cosciente dei limiti della condizione umana, da sempre, e ancor di più, nel tempo furente e tragicamente accelerato, e cruento (tra guerre, sfruttamenti e distruzioni inedite), della modernità.

Se sfogliamo l’elegante volume einaudiano, e diamo una veloce scorsa all’indice, ci si para davanti una sfilza di nomi illustri, cioè gli interlocutori di Bollati. Un gran confusione di studiosi, scrittori (da Elsa Morante a Gianni Rodari, da Leonardo Sciascia a Natalia Ginzburg e Italo Calvino), storici dell’arte (Federico Zeri, Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti), della letteratura (Gianfranco Contini, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi, Giovanni Macchia), storici (Cantimori, Franco Venturi, Ruggiero Romano), filosofi (Norberto Bobbio, Giulio Preti, Cesare Luporini), polemisti agguerriti (Franco Fortini su tutti, qui benissimo rappresentato in questa veste). Ma Bollati scrive anche a uno psichiatra come Franco Basaglia (è il 26 gennaio 1968): “Caro Franco, avrei voluto scriverti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e molto importante. E’ uno dei rarissimi esempi (c’è gente che darebbe la vita per riuscire a costruirlo in laboratorio) di libro che si costruisce da sé, vive delle tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene sulle sue stesse tendenze autodistruttive. Non mi stupirei che voi ‘dramatis personae’ [intende “personaggi della vostra stessa opera”] ne foste scontenti, irritati, offesi anche più di quello che (se non sbaglio) già siete: è, infatti, come se un gruppo di persone si fosse raccolto non per raccontare o fingere la morte di Agamennone, ma per ucciderlo con le proprie mani”.

Evidente come Bollati, richiamandosi alla tragedia greca (ecco il suo citazionismo! è in realtà una sorta di potente e temporaneo distacco ai fini di un’autentica messa a fuoco del problema), con l’uccisione di Agamennone si riferisce alla rivelazione della repressiva realtà manicomiale da parte di Basaglia e dei suoi collaboratori all’Ospedale psichiatrico di Gorizia nel libro collettivo, L’istituzione negata, uscito per Einaudi nel 1968. A essere squarciato è il velo della letteratura, tanto ostentato da sembrare posticcio e fuori luogo, al di là della forza evocatrice, in questa situazione, o è, al contrario, la realtà a essere riscoperta, rappresentata, detta e, infine, inventata dall’artificio della stessa letteratura? Bollati ha davvero a cuore la questione manicomiale – come testimonia anche una lettera a Elsa Morante, del 10 ottobre 1968 (“Dopo una violenta campagna di stampa, ieri la magistratura ha accusato Basaglia di omicidio colposo e di condotta sbagliata, incompetente e negligente dell’ospedale. Sono molto preoccupato per quello che potrà succedere a lui, ai suoi amici e soprattutto ai ricoverati”). E sicuramente l’aiuto che offre a Basaglia è editoriale, ma anche economico e politico (ce lo rivela l’intero carteggio tra lui e lo psichiatra)

Tuttavia, non bisogna credere che ci sia, quindi, una scissione, un abisso invalicabile tra l’erudito “metafisico”, immerso nelle sue riflessioni, Giulio Bollati e il Bollati uomo d’azione, che si preoccupa di realtà drammatiche, concrete e che non aspettano. Ogni oltraggio alla persona umana, ogni sofferenza – sia da parte della Natura sia, ancor peggio, da parte dell’uomo stesso – è uno scandalo, un oltraggio che non può essere perdonato. Giulio Bollati ha creduto, in qualche misura, di poter curare la società, attraverso i libri e le collane editoriali (molte quelle da lui pensate, dirette e seguite da Einaudi). Ha cercato di conciliare la scrittura del mondo con il lenimento della sofferenza. Delio Cantimori, infatti, in una notte dai sonni tormentati, lo vide in sogno, trasfigurandolo in un grande medico, pronto a curare il cadavere dell’editoria e, in genere, del mondo moderno, di cui questa è coscienza attiva. E, mentre lo scriveva al diretto interessato in una lettera del 15 agosto 1962 (che fa sempre parte dell’inedita corrispondenza tra loro), non poteva, oltrepassando il consueto disincanto critico dell’amico, che esplodere festoso in un “non commento oggi la tua descrizione dell’azienda editoriale moderna. Grido: ‘Evviva Giulio Bollati vivo e furiosamente deciso a vivere’”.

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