Particolare da Jacques-Louis David, “Le sabine”, olio su tela, 1799, Museo del Louvre

Sul filo dello stupro

Condanne, assoluzioni e #MeToo. Cosa rischiamo a sessualizzare il dominio maschile secondo scrittrici e filosofe

Donatella Borghesi

Un saggio provocatorio di Mithu Sanyal riaccende il dibattito sullo stupro, tra cultura, stereotipi e desiderio. Una riflessione su potere, consenso e zone grigie nel conflitto tra i sessi

È rimasto l’ultimo tabù. È di questi giorni la condanna a 18 mesi per violenza sessuale di Gerard Depardieu, monumento controverso del cinema francese. E anche questa volta le donne si dividono, colleghe e non: Catherine Deneuve e Fanny Ardant lo difendono, Juliette Binoche è felice della condanna, come la stragrande maggioranza delle ragazze. Mentre pochi giorni prima era stato prosciolto in Italia il regista Paul Haggis, che era stato accusato (due anni prima) di aver abusato di una giovane donna a Ostuni. Due casi diversi su uno dei temi più divisivi. Con il suo suono duro e cattivo il sostantivo stupro (dal latino stuprum, forse radice stup, colpo) invade le cronache di giornali e tv: stupro di gruppo, pillola dello stupro… Le piattaforme on demand sfornano nella sezione adolescenti decine di serie che invitano le ragazze a stare all’erta, i maschi sono tutti potenziali stupratori, e comunque vada le tinte sono fosche. E poi le denunce – quelle reali, quelle retroattive e quelle mancate – segnano come Pollicino la strada spalancata dalla rivoluzione del #Metoo. Il sospetto che lo spettro dello stupro che ci perseguita sia una delle conseguenze della lunga guerra dei sessi che ci portiamo dietro c’è. Sì, il terreno è scivoloso, e mi chiedo chi me lo fa fare. Ma l’occasione è interessante: a rompere il mainstream arriva fresco di stampa per i tipi di Castelvecchi un libro che ha fatto molto rumore in Germania, il titolo è semplicemente Stupro, sottotitolo Aspetti di un crimine.

L’autrice è Mithu M. Sanyal, giornalista e docente universitaria, di madre polacca e padre indiano: con una sensibilità femminista e postcoloniale, sfida la narrazione dominante e va oltre gli stereotipi, che rovescia con uno stile provocatorio e diretto. Parlando della controversa rape culture e del “doppio oscuro dei rapporti di genere” si è detta pronta a ricevere critiche anche dalle donne, come infatti le è successo. “Sullo stupro non si può dare nulla di scontato; anche se sesso e stupro non sono affatto la stessa cosa, il nostro rapporto con lo stupro è caratterizzato anche da quello con la sessualità e viceversa”. E dice che ha fatto molta fatica a scriverlo, perché erano tante le cose che doveva ricostruire e ribaltare. “Infatti lo stupro è un vero e proprio labirinto di specchi fatto di aspettative e discorsi, e ogni frase ne sottintende dieci non dette.

Si tratta di un punto dolente culturale, che, come quelli corporei, indica che c’è qualcosa che richiede la nostra attenzione. Ma provoca anche lo stesso timore di toccarlo”. Eppure Sanyal si è data coraggio e ha titolato il primo dei tre capitoli su Sexing the Difference: “No vuol dire Sì!”. Ma come? “A difesa dello slogan ‘No vuol dire no’, occorre dire che per molto tempo no non voleva dire no, ma semplicemente sono una donna. La violenza maschile e la ritrosia femminile nel XVIII e XIX erano parte integrante della costruzione della sessualità ‘normale’”. Il secondo capitolo “Sì vuol dire no!” rende conto del lavoro di Freud e degli psichiatri sul “mistero” della sessualità femminile. In Psicopatologia della vita quotidiana, Freud ipotizza che le donne faticano a resistere allo stupro perché una parte dentro di loro lo desidera… Nella letteratura specialistica del tempo diventa un crimine causato dalla vittima – le isteriche e le loro finte accuse! – e si apre l’orribile periodo dell’ospedalizzazione o comunque della medicalizzazione. Peraltro molto dopo, negli anni Cinquanta, la psicoanalista Helen Deutsch, nel suo Psicologia della donna, sosteneva che il masochismo non è una variante ma il presupposto del piacere erotico delle donne…

E qui Sanyal getta la prima mina. “Il desiderio attivo femminile non è affatto un’invenzione della rivoluzione sessuale o di quella femminista, è stato per secoli il proverbiale elefante nella stanza”. In poche parole, il femminismo ha rivelato quello che le donne hanno sempre saputo. (Piccolo aneddoto riportato dal saggio: nel 2011 il Vaticano aprì gli archivi della Penitenziaria apostolica e trovò migliaia di lettere di donne che facevano istanza al tribunale supremo della Chiesa cattolica per ottenere soddisfazione sessuale). Confessa la giornalista e scrittrice britannica Laurie Penny, classe 1986: “Quando ho scritto Unspeakable Things, Cose indicibili, inizialmente volevo scrivere delle mie esperienze sessuali (positive). Ma alla fine ho deciso di non farlo perché altrimenti i giornalisti mi avrebbero chiesto solo di quelle. E ora me ne pento. Mi sono resa conto che nei miei testi politici trovavo più facile scrivere di essere stata violentata che di tutto il sesso che io stessa avevo voluto”.   


Ecco il trio infernale delle donne: essere passiva, essere dominata, essere stuprabile. Il nostro modo di concepire lo stupro, sostiene Sanyal, è rimasto fermo nei secoli, immutato nonostante il mondo sia cambiato radicalmente. Proviamo allora a partire dall’inizio, da quel Ratto delle sabine, rappresentato in fantasiosi e multiformi dipinti da Jacques Louis David, che ne era evidentemente affascinato. Il meccanismo della società predatoria maschile è semplice: i romani sono senza donne, devono riprodursi per mantenere il loro potere sul territorio conquistato, quindi le rapiscono ai vinti sabini, e segue stupro di massa. A metà degli anni Settanta del Novecento Susan Brownmiller, militante delle New York Radical Feminists, in Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, descrive la scena primordiale dello stupro: “Una delle prime forme di consorzio maschile deve essere stata rappresentata dalla banda di razziatori impegnati nello stupro di una donna.

Una volta compiuto, lo stupro diventò non solo una prerogativa maschile ma anche la fondamentale arma offensiva dell’uomo contro la donna, il principale agente del volere di lui e della paura di lei. Il trionfo della sua virilità”. Diventa così il mito fondativo del patriarcato. L’espressione rape culture appare per la prima volta nel 1971 al “Rape Speak-Out”: lo stupro non è un’eccezione. Nel 1988 esce il film Sotto accusa, con Jodie Foster nel ruolo della vittima, meritò Oscar e Golden Globe. Nelle prime ventiquattr’ore il film incassò 18 milioni di dollari: era il risultato di due decenni di lavoro di educazione femminista. Sono gli anni, soprattutto in America, della denuncia e della minaccia onnipresente e pervasiva della violenza sessuale, che farà dire a Katie Roiphe, femminista della seconda generazione: “Dopo tutti i seminari e gli opuscoli sul date rape, sul sesso sicuro e sulle molestie sessuali, siamo rimaste – per quanto coraggiose e cresciute, per quanto ribelli spensierate possiamo essere – con un senso di pericolo imminente”. 

Ma cos’è la cultura dello stupro: i testi delle canzoni, le battute sessiste o i ruoli di genere che immaginano gli uomini come carnefici e le donne come vittime, o il fatto che solo una piccola percentuale di violenze sessuali denunciate porta a una condanna, o che un “no” non basti per denunciare? Se la motivazione di chi compie lo stupro è la violenza, l’effetto dello stupro sulla vittima è completamente diverso da quello di altre violenze, perché l’obiettivo non è il corpo ma l’autodeterminazione su quello stesso corpo. Insomma, lo stupro è un atto di aggressione perché la vittima viene privata di libertà di scelta. Tanto che il femminismo contemporaneo preferisce parlare non di violenza sessuale, ma di violenza “sessualizzata”, perché il sesso è l’arma, non la motivazione dello stupro. Capovolgimento lessicale che dà l’idea della destabilizzazione profonda che si è creata nella relazione tra i sessi. Si è fatta molta terra bruciata, ammette Sanyal: sessualizzando il dominio maschile abbiamo trasformato tutti gli uomini in stupratori.

La scrittrice e regista Virginie Despentes nel suo King Kong Theory riflette sugli eccessi di questa radicalizzazione: “La nostra cultura dice alle ragazze fin dalla culla che lo stupro è la cosa peggiore che possono subire. Diciamo che distruggerà le loro vite e le priverà della loro innocenza. Diciamo alle donne vittime di abusi sessuali che è normale sentirsi contaminate (…) Perché da uno stupro bisogna rimanere traumatizzate, c’è una serie di segni visibili da rispettare: paura degli uomini, della notte, dell’autonomia, disgusto per il sesso…”. Risale alla fine degli anni Settanta, dopo la guerra in Vietnam, la coniazione del termine “disturbo post-traumatico da stress”, associato principalmente ai veterani di guerra e alle vittime di stupri o abusi sessuali. Stuprum nell’antichità era sinonimo di oltraggio e disonore e conseguente vergogna. Lo storico romano Livio racconta della matrona Lucrezia, VI secolo a.C., che davanti a un tentativo di violenza, disse: preferisco morire che perdere il mio onore. Ricattata e poi stuprata, finì per suicidarsi. Il suo gesto fu visto come un atto eroico, e ricordato per secoli, cantato da Händel, portata a teatro da Shakespeare, dipinta da Tiziano e Botticelli, da Cranach e Rembrandt. Certo, direte, è la cultura maschile patriarcale, ma la nostra autrice la ricorda perché l’accoppiata violenza sessuale/morte la si può ritrovare in Despentes, e nella definizione di stupro come “assassinio dell’anima”, definizione coniata per gli abusi subiti durante l’infanzia. “Quando definiamo sopravvissute le vittime di stupro – come i sopravvissuti a un incendio, a un incidente aereo o all’Olocausto – stiamo paragonando lo stupro alla morte”, dice ancora Katie Roiphe.

Come sopravvivere allora? Mithu Sanyal ci ha dimostrato come lo stupro non è una variante della sessualità ma un crimine. Ma le zone grigie in cui la sessualità consensuale finisce e inizia lo stupro hanno molto a che fare con il sesso, o più precisamente con un analfabetismo sessuale più o meno marcato. D’altra parte, secondo uno studio tedesco, una donna su quattro ha vissuto almeno una volta un’esperienza sessuale contro la sua volontà (o il suo desiderio) all’interno di una relazione. Le fonti ufficiali stimano che il numero dei casi sia cento volte superiore, se fosse vero si arriverebbe al 2.500 per cento! “Con questo non voglio assolutamente paragonare lo stupro al cattivo sesso, ma mi preoccupo di trasformare la nostra cultura sessuale, perché quando un caso arriva in tribunale, è troppo tardi per prevenire lo stupro”. E costruire il consenso sembra oggi una parola nuova, anche se viene dall’Illuminismo ed è alla base del liberalismo occidentale. Diceva Locke che “ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui”. E “Sì vuol dire sì”, come titola l’ultimo capitolo.  

Post scriptum. Sopravvissute lo sono sicuramente le donne vittime dello stupro di guerra, ma siamo arrivati solo nel 2008 a dichiararlo arma di guerra e crimine contro l’umanità. Il banco di prova che ha portato al riconoscimento giuridico internazionale sono state le guerre balcaniche di fine Novecento tra i paesi dell’ex Jugoslavia, guerre civili ed etniche insieme. “Nel caso bosniaco il corpo delle donne è il nemico riproduttivo, il campo di battaglia su cui lasciare l’impronta”, scrive la psicoanalista junghiana Nicole Janigro (croata da parte materna, questi paesi li conosce bene), nell’articolo Stupri strategici, racconti salvifici (in Se questa è una donna. Violenza, memoria, narrazione, Cierre edizioni). “Questi stupri etnici hanno scopi strategici: sradicare le basi fondanti della comunità dell’avversario. Perché non si torna in un villaggio in cui sono state violentate le donne. Ma c’è un elemento in più: è un crimine che avviene in pubblico, alla presenza di spettatori-testimoni, ed è un argomento che non si nomina a voce alta, è un tabù sociale. E più del 90 per cento delle donne violentate – si calcolano al ribasso 20 mila stupri – conosce chi la sta violentando, e vittima e carnefice parlano la stessa lingua”.

Questo spiega perché le donne stuprate in guerra fanno così fatica a parlarne. “E’ uno stigma sociale, segnato dal disonore e dalla vergogna, sentimenti che portano al silenzio e all’isolamento”, conferma Anna Di Lellio. Sociologa e docente di relazioni internazionali alla New York University e all’American University in Kosovo, dopo la guerra del 1999 ha lavorato in Kosovo come funzionaria dell’Osce e dell’Onu, ed è fondatrice dell’organizzazione Kosov Oral History Initiative. Insieme a Garentina Kraja ha scritto The stronger link, An oral history of wartime rape survivors in Kosovo, Oxford edition, che raccoglie le testimonianze delle vittime di stupro. “Bloccate dal trauma, molte hanno tentato il suicidio, spesso salvate dalle figlie. Basta uno sguardo sconosciuto, e pensi: ecco quello lo sa. Esitano a raccontare dettagli e fatti precisi, perché hanno paura che lo stupratore si riconosca. Quando la Russia ha iniziato l’invasione dell’Ucraina e abbiamo sentito le prime notizie di stupri, e poi quelli del 7 ottobre, le sopravvissute alle violenze sono sprofondate di nuovo in uno stato di allarme. Ma hanno dimostrato la loro forza: ripercorrendo il loro dramma sono riuscite a rompere la dinamica sociale di rifiuto”.

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