Gérard Depardieu - foto Ansa

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Il vizio non uccide il bello: il caso di Gérard Depardieu

Ginevra Leganza

Il moralismo beghino colpisce l'attore e produttore cinematografico francese dalle pagine del Figaro. Ma la lettera delle donne d'oltralpe che lo difendono è un trattato sulla tolleranza

Non c’è vizio che possa appannare la bellezza dell’opera. E non c’è colpa – dall’omicidio alla frode alla molestia più soft e più salottiera – che annienti davvero la potenza dell’arte. Verità dura ma valida sempre. Da Caravaggio a Gérard Depardieu. E dunque è sempre lo stesso film, direte voi. Palpatina sul set e accuse pubbliche alla tivù. E poi noia, noia. La solita zuppa al veleno. Ma alt. Fermi tutti. Forse qui c’è un colpo di scena. 

Ebbene, stavolta l’orco non è l’hollywoodiano che sputtani in quattro e quattr’otto e depenni dal jet set. Stavolta parliamo d’Europa. O meglio parliamo di Francia e Gérard Depardieu, accusato di molestie e soccorso da un appello sul Figaro. Un Trattato sulla tolleranza up to date. “Da Carla Bruni a Charlotte Rampling settanta artisti denunciano ‘il linciaggio’ di Depardieu”. Settanta mantidi e portieri di notte. O, come dire, donne che non hanno fifa di sporcaccioni e uomini che distinguono l’arte da un’ipotetica malavita. Ma ricapitoliamo. 

Il 7 dicembre scorso France 2, la televisione pubblica francese, manda in onda accuse di molestie sul set. A parlare è Hélène Darras, che nel 2007 Depardieu guardò “come un pezzo di carne”, e poco dopo, racconta, ne lambì con le dita i fianchi. In pratica un déjà-vu. E cioè: maschio potente imponente e insolente con femmina fresca e giustamente ambiziosa; male gaze quanto basta e accenni di manrovescio sul culo. Ed eccoci. Anzi rieccoci: processo prima del processo e caccia al maiale. Siamo alle solite. Depardieu è già scacciato in Québec, dove non è più cavaliere dell’Ordine Nazionale, privato della sua statua nel museo delle cere a Parigi, e revocata pure la cittadinanza belga. Anche se stavolta, dicevamo, con l’appello immoralista delle francesi, forse qualcosa cambia. Forse cambia il finale. 

Sarà che l’intolleranza anti sesso, in Francia, è più difficile che in America (lo sostiene Jack Lang, già ministro della cultura che difende GD insieme a Jacques Attali, consigliere di Mitterand, che addirittura sospetta “alti pagamenti finanziari” per diffamare l’attore). E sarà pure che stavolta, appunto, parliamo di Depardieu. E cioè del guascone Cyrano, moschettiere Porthos, gallo Obelix, che prima che un porco è anzitutto un tempio. O come dice Emmanuel Macron un “monumento nazionale”. In altre parole un caratterista gigante, venuto fuori da un romanzo di Rabelais, che linciarlo non è elegante. E gli eleganti ci pensano infatti due volte a confondere l’arte e la vita: a punire l’una per colpa dell’altra e oscurare Cyrano o il maschio di Ciao maschio. In ottemperanza al ticchio neo oscurantista e anti maschio, appunto, targato Me too. Ticchio che ha oscurato Kevin Spacey e Woody Allen, scusate se è poco. E neo oscurantista ma nel senso storico del termine. Di pregiudiziale opposizione alla voluttà (se Spacey e Allen sono stati assolti, per Depardieu nulla è stato provato)

Comunque, America o Francia, l’oscurantismo è una categoria ipermoderna. Ovvero contemporanea a noi atei, agnostici o mosci animisti che, per paradosso, siamo pure tanto beghini. Fateci caso. Andassimo alla ricerca dei prozii di Depardieu, spunterebbero tanti porcelloni. Privilegiati, nati in altri secoli. In secoli di arte allineata alla morale religiosa ma non al moralismo, ossia al giudizio morale sulla vita erotica del singolo. E quindi nati in epoche di santi e briganti, epoche certo meno castigate di questa

Il favoloso Cinquecento, per esempio e in particolare l’arte manierista s’esprimevano in un contesto forse meno baciapile del nostro. “Uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere ubrigati dalla legge”, si diceva allora. Quando il Benvenuto era Benvenuto Cellini e a parlare non era Charlotte Rampling ma un papa, Paolo III, difensore dello scultore fiorentino prigioniero a Castel Sant’Angelo. Quel Cellini che ricordiamo post mortem per il Perseo in bronzo in piazza della Signoria ma che in vita collezionava accuse di sodomia. Pluriomicida, stupratore e per l’appunto sodomita, godeva tuttavia di un parziale esonero: non penale – le pene le scontava, o al massimo evadeva – ma artistico. Perché a restare nei secoli, si capiva, sarebbero state le opere e non le copule, fossero pure le più depravate. E in effetti se il suo bronzo resta, la sodomia passa. Tanto che oggi non è reato (e quasi quasi non è peccato: vedi benedizioni lgbt). Della serie: i peccati passano, le opere restano. Ché se così non fosse, se non si fosse cioè odiato il peccato e amato il peccatore, addio pure all’amatissimo Caravaggio, che in pochi associano a risse e assassinii ma che tutti, burini e flâneur, citano per la “drammaticità de la luce, pare che ce sta na lampadina”… E no, non è tratto da commedie all’italiana ma da una nostra origliata a San Luigi dei Francesi, dove davanti ai tre capolavori – il Martirio di San Matteo, la Vocazione, San Matteo e l’angelo, – né burini né flâneur pensano mai, c’è da giurarci, a Caravaggio che ammazza Ranuccio Tommasoni dopo una partita di pallacorda. O al Michelangelo Merisi che assolda sicari per far fuori la concorrenza. Perché anche qui: il vizio non appanna il chiaroscuro. E al bello non toglie niente

Epperò, obietterete voi, tutti quei secoli non furono certo assenti di moralismi. All’indomani della morte di Cellini e di Caravaggio, per dirne uno, arrivò Malebranche. E quindi la conoscenza esatta dei doveri: verso Dio, verso la società, verso noi stessi. Il dovere come “abitudine dominante”, l’Ordine con la O maiuscola, le regole immutabili. Tutto vero. Ma con tutto il rispetto per i filosofi e la morale, più dei filosofi ci ricordiamo gli artisti. Più che per Malebranche, ognuno – burino o flâneur che egli sia – va in estasi per il Caravaggio. Ed ecco. A proposito di Caravaggio, quel che oggi manca è proprio il chiaroscuro. Ossia l’alternanza di dotti e coatti che a volte convivono in un sol uomo, con gli artisti che possono essere grandi ma pure assassini. In altre parole, non è un tempo di sfumature cinque o secentesche. I cervelli millennial hanno toni più piatti: se l’uomo sbaglia, l’opera paga. Se chi pitta, canta o scrive è uno losco, pittura canto e letteratura lo saranno pure. Come frutti dell’albero avvelenato. È il secolo dell’intolleranza. 

Perciò sempre a Parigi, ricorderete, nel 2020 Gallimard ritirava i diari ebefili, anzi pedofili, di Gabriel Matzneff. L’amante dei minori di sedici anni, a sua volta accusato di pedofilia da Vanessa Springora, antico amore e oggi autrice di Le consentement (Il consenso). E per carità. Va bene che nulla dell’uomo ci è alieno (figurarsi l’affetto intergenerazionale) e che Matzneff non è il primo né l’unico al mondo. E passi pure che a quattordici anni – età di Springora al tempo – non si è del tutto bambini (le quattordicenni che seducono i daddy esistono. Fuori e dentro di noi ragazze. Non solo nell’American Beauty con Kevin Spacey). D’accordo su tutto. O quasi. Ma il tema, tocca ammettere, è spinoso. Quattordici anni sono terra di confine e la faccenda è delicata. Ma forse, tocca ammettere anche questo, non abbastanza. O non così tanto da legittimare la messa al bando d’un libro – che, per inciso, legittima non è mai. Per giunta di diari e poemi d’un signore anziano, inseguito per le sue ex cose di letto, vecchie trent’anni. Cose che dopo trent’anni avranno pure cambiato sapore. Perlomeno in chi le ha vissute e adesso le racconta. Avranno mutato di gusto, come muta l’uomo o come spesso fa il vino. Che se invecchia troppo non sempre conviene aprire. 

Ma il punto, si diceva, è che la nostra è un’epoca di moralismo grezzo. Un’epoca che non sa distinguere bene e male nelle pieghe delle cose. La letteratura nelle pieghe d’un diario; il peccato – se fosse o se avesse importanza – nelle pieghe di un lenzuolo. Ma tant’è. E tant’è da quando, evidentemente, siamo diventati atei agnostici e mosci animisti. Ma pure beghini più di cinque secoli fa. Da quando cioè si è smesso di vedere il male nell’uomo e ci si è messi in testa che è nella società. E quindi nel cinema, nella letteratura. O più in generale nell’arte. Che per noi, che non siamo papi o papesse del Cinquecento, non è arte religiosa ma appunto sociale. Ovvero tristanzuola emanazione dell’uomo. E in quanto atei, agnostici o mosci animisti, ci siamo poi convinti che il male non si redima dall’alto, ma che dobbiamo redimerlo noi. Al punto di dover eradicare tutto: peccato e peccatore, uomo e artista, vizio e bellezza. 

In ogni caso la passione neo beghina, o forse neo manichea, di tirare via tutto – peccato e peccatore, uomo e artista – c’era già l’altro ieri, quando il “reato unico” dello showbiz non era come oggi lo stupro con tutti i suoi cavilli di molestie e molestine (l’altro ieri, cioè nei Sessanta o Settanta, c’era comunque un chiaroscuro di peccatori: anche nell’inventario delle colpe siamo diventati monotoni). In archivio spicca Walter Chiari, arrestato nel 1970 con l’accusa di spaccio e consumo di cocaina. Detenuto tre mesi al Regina Coeli, poi processato e prosciolto dall’accusa di vendita illegale, fu condannato per detenzione di coca ma soprattutto emarginato dalla Rai ed evitato dai produttori teatrali. Rischio simile – quello di non essere più chiamata – lo corse la Tigre di Cremona, nientemeno. Era il 1963 quando Mina partoriva il suo primo figlio concepito insieme a Corrado Pani, all’epoca già ammogliato. Stampa e televisione si attizzarono subito. Mina lo racconta quindici anni dopo in una bellissima intervista a Natalia Aspesi. Dice di quanto le facessero schifo i giornali, i settimanali di informazione che pubblicavano foto di lei col pancione, la televisione di stato che la cacciò via. Erano gli anni Settanta, si diceva, e l’intervista dice tanto di lei e di noi. Di lei che non si scusava mai e rivendicava l’amore, l’errore, “l’orrore” per i giornali, nonché una certa diffidenza del pubblico (mammozzone informe che oggi t’adora e domani ti spara). Ma dice tanto anche di noi. Ovvero dei nostri musici e influencer che al primo uzzolo censore (e spesso si tratta di piccolezze o, come dire, di pandori, non di pancioni) si scusano. A mezzo stampa, social, o come possono. Si scusano e fanno penitenza sperando di rianimare il mammozzone informe dei fan fanatici e intolleranti. Ma siamo in epoca manichea, s’è detto, e le sfumature non esistono più. Non solo nei quadri o nei nostri cervelli ma pure in fotografia. Talché il più importante fotografo di moda, oggi, da cinque anni non scatta più. Di Terry Richardson era abitudine la deboscia: denudarsi e masturbarsi sul set, davanti alle modelle. Talvolta ci scappava la palpatina. Richardson ha dichiarato di aver sempre scattato con adulte consenzienti e consce del suo modo d’operare. Era il 2014 quando scriveva la sua autodifesa ma nel frattempo è arrivato il Me Too. Sicché Vogue e Vanity Fair non pubblicano più i suoi scatti. (“Gli influencer di moda ci rubano il lavoro?”, si sarà chiesta l’editor di Vanity Fair. “Massì dai, noi licenziamolo comunque il più grande fotografo al mondo”, le avrà risposto quella di Vogue). Vabbè. Non serve aggiungere altro per cogliere il paradosso. O per capire che dal Cinquecento a oggi siamo progrediti per finta. Perché Dio è morto. E mentre lui moriva, noi agnostici atei o mosci animisti, ci siamo svuotati di grandi morali per riappropriarci di quelle più sceme ed elementari. Nello specifico, d’una morale manichea dove bene e male sono blocchi monocromi e monolitici. E dove un uomo non è un ecosistema di sfumature (come si dice: è un genio ma sregolato; diva e cattiva madre; orecchio assoluto ma porcellone). No. Un uomo è un tutt’uno da prendere e idolatrare e, al momento giusto, al primo passo falso, infilzare e arrostire sulla brace dell’integralismo. 

Sant’Agostino, che era stato manicheo da ragazzo, e dunque un po’ sciocco come un millennial, spiegava da adulto il male del mondo. Fra le sue metafore più belle, il mosaico. La vita è un insieme di tessere: dorate, accese, ma pure cupe e cupissime, finanche turpi. Tessere cupe che solo se viste dall’alto, nell’insieme, hanno senso: il senso delle sfumature. Del condannare il marcio non prima di aver salvato il buono. E cioè la filmografia, la fotografia, la discografia. Ché nessuno pensa a come Depardieu guardava Hélène Darras, se da regina o “pezzo di carne”, mentre guarda il Cyrano e si diverte. E chissà se è davvero un colpo di scena, oggi, l’appello per Depardieu. Se è davvero un nuovo Trattato sulla tolleranza, questa difesa dell’omone confuso. Del gigante nato povero nei Quaranta, poi musulmano nei Settanta, poligamo e viticoltore. Amico di Le Pen, Houellebecq, e adesso cittadino russo per questioni legate al fisco. Omone di capriole e di sfumature e perciò inafferrabile per chi fonde e confonde tutto. E finisce che sradica tutto: uomo e artista, grano e zizzania, vizio e bellezza. Ma di nuovo: alt. Ché nulla è perduto per un manicheo. Noi puntiamo tutto su Carla Bruni e su Charlotte Rampling. E ovviamente su sant’Agostino.

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