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Il racconto

​​​​​​​Isabelle, la sorella devota di Arthur Rimbaud

Francesca D'Aloja

I sei anni che li separano e le continue fughe da casa del poeta non hanno consentito l’approfondimento del loro rapporto, ma Isabelle accudì il fratello nell’agonia. Non le si perdona il tentativo di “appropriazione”, ma la sua fedeltà fu incrollabile

Tu o Isabelle venite oggi a Marsiglia con treno espresso. Lunedì mattina mi amputano la gamba. Pericolo di morte. Affari seri da sistemare. Arthur. Ospedale della Concezione. Rispondete”. Alle due e cinquanta della notte tra il 21 e il 22 maggio 1891, Arthur Rimbaud detta questo telegramma destinato a sua madre e a sua sorella Isabelle. E’ giunto a Marsiglia da Aden, nello Yemen, dopo una traversata di dodici giorni su un battello a vapore preceduta da un’allucinante peregrinazione attraverso il deserto, issato in spalla su una lettiga, in preda a dolori inauditi causati dalla cancrena che gli sta divorando la gamba. Le sue disperate condizioni di salute lo costringono, suo malgrado, a tornare in Francia, la patria che credeva di aver abbandonato per sempre undici anni prima: “Sono condannato a vivere a lungo, forse per sempre in questi luoghi dove ora sono conosciuto, dove troverò sempre lavoro, mentre in Francia sarei uno straniero, non troverei un bel niente”, aveva scritto alla famiglia in una delle tante lettere inviate dal continente africano dove ha deciso di vivere la sua seconda vita barcamenandosi in traffici di ogni genere dopo l’irrevocabile ed enigmatica decisione di abbandonare definitivamente la letteratura (“Je ne pense plus à ça”).

 

Il 24 maggio Vitalie accorre al capezzale del figlio diventato un uomo di trentasei anni, con il corpo segnato non solo dalla malattia ma dai mutamenti che un’esistenza errabonda e selvaggia ha lasciato sul suo volto. Possiede un carattere aspro Vitalie, ha cresciuto i suoi quattro figli da sola, abbandonata dal marito Frédéric che le ha preferito l’esercito e l’avventura e da cui Arthur, che lo ha conosciuto da bambino, ha ereditato molto più di quanto immagini. Come il padre, Arthur è un uomo eternamente in fuga e Vitalie riconosce in lui quello spirito inquieto che tanto la farà dannare. Tre giorni dopo il suo arrivo viene eseguita l’amputazione della gamba destra di Arthur, ma l’operazione non è che l’inizio di un’agonia terrificante. La permanenza di Vitalie Rimbaud a Marsiglia si interrompe il 9 giugno: la ragione sembra essere una sopraggiunta malattia di Isabelle, figlia minore, ma non è la verità: “Ero molto arrabbiato quando la mamma mi ha lasciato”, scrive Arthur a Isabelle, “non ne capivo il motivo. Ora come ora è meglio che sia lì con te a occuparsi della tua salute”. La causa della sua partenza rimane oscura, si suppone una discussione di natura economica. Molto è stato detto sulla durezza di Vitalie Rimbaud, frutto senza dubbio del suo carattere ma anche delle prove affrontate da sola, con cinque figli da crescere (uno morto in fasce) e delle speranze deluse riposte su entrambi i figli maschi, sebbene per Arthur abbia sempre avuto un debole. Pur non caldeggiando la scelta di “farsi poeta” non si è mai sottratta nei momenti di bisogno. In margine alla lettera ricevuta dal fratello, Isabelle aggiungerà un appunto riguardo alla sua supposta malattia: “Simulazione di cui mi ritengo innocente”. Un commento privato e senza destinatario, che rivela la personalità di una ragazza che di lì a poco avrà un ruolo determinante nella tragica parabola finale di Arthur Rimbaud. 

 

Rimasto solo, Rimbaud prova a muoversi con l’aiuto di una stampella che però gli provoca dolori all’ascella e al braccio. Non andrà meglio con l’arto artificiale da lui appositamente commissionato e presto abbandonato per via di un’infiammazione al moncone. Il ragazzo “dalle suole di vento” è condannato all’immobilità permanente. Sconsolato, il 23 maggio decide di proseguire la convalescenza a Roche, nella casa di famiglia, dove ritroverà Isabelle, la sorella che non ha mai davvero conosciuto. I sei anni che li separano e le continue fughe da casa di Arthur non hanno consentito l’approfondimento del loro rapporto. A casa c’è solo lei: la sorella Vitalie, che porta il nome della madre, è morta da diversi anni e il fratello maggiore, Frédéric (figura che meriterebbe un racconto a sé…), bandito dal cuore della famiglia a causa delle sue scelte esistenziali (imperdonabile la decisione di sposare la figlia di una domestica), si è da tempo arruolato nell’esercito. Isabelle è dunque cresciuta sotto il controllo di una madre severa che le ha inculcato disciplina e precetti cattolici, e alla quale è legatissima. Non conosce l’opera letteraria del fratello, la scoprirà soltanto dopo la morte di quest’ultimo e ne farà la ragione della sua vita; di lui conserva le lettere inviate dall’Africa e ne fantastica le imprese da avventuriero, lei che da Charleville (che Arthur considerava “la città superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia”) non si è mai mossa. Ora che lo ritrova debole e sconfitto, si dedicherà anima e corpo alla sua assistenza, cercando in ogni modo di recuperare il tempo perduto: “Ho sostenuto il suo corpo vacillante stringendolo fra le mie braccia, l’ho guidato sorvegliando ogni passo, l’ho condotto e accompagnato ovunque egli volesse, l’ho aiutato a muoversi, a salire, a scendere, scansando ogni ostacolo. Ho preparato il suo letto, il suo desco, l’ho imboccato, dissetato… Ho speso giornate intere a cercare di distrarlo dai suoi pensieri, dalle sue pene. Ho passato intere notti al suo capezzale. Quando mi chiedeva, in piena notte, di andare a raccogliere i papaveri soporiferi, lo facevo, anche se avevo paura, da sola, senza di lui, e quando finalmente si addormentava gli restavo accanto a guardarlo, amarlo, a piangere e pregare”, scriverà Isabelle in un memoriale commovente. “Nessun’altra mano l’ha curato, toccato, vestito, aiutato a soffrire, nessuna madre avrebbe potuto essere altrettanto sollecita con un figlio malato” e ancora: “Io l’ho aiutato a morire, e lui, prima di lasciarmi, ha voluto insegnarmi la vera gioia della vita. E così, morendo, mi ha insegnato a vivere”.

 

La dedizione per il fratello Arthur troverà il suo culmine nell’ospedale di Marsiglia, dove Arthur sarà costretto a fare ritorno a causa del peggioramento delle sue condizioni, il male ha colpito anche gli altri arti, un braccio si è gonfiato a dismisura e l’altro è semiparalizzato. Non sarà la madre ad accompagnarlo ma la giovane Isabelle, che gli resterà accanto fino all’ultimo giorno. Un soggiorno di tre mesi dolentissimi la cui testimonianza verrà riportata nel libro Rimbaud mourant, pubblicato postumo nel 1921, e che diverrà l’oggetto, come vedremo, di accese polemiche. Nelle lettere indirizzate alla madre, Isabelle racconta il viaggio di suo fratello verso la fine e insieme il suo personale percorso di conoscenza di un’anima che definisce “eletta e sublime”. E’ una pena infinita la cronaca di quei giorni che non concedono un solo momento di tregua. Si prova compassione per il povero Arthur, nel comune immaginario sempre giovane, folle e vitale, e insieme umana vicinanza a Isabelle, sorella devota e innamorata, la cui abnegazione, messa a dura prova dall’impotenza di salvarlo, fu ammirevole. Il resoconto del viaggio in treno che li riporta a Marsiglia è denso di dettagli che dimostrano una notevole sensibilità letteraria: “Città e villaggi, vigneti e raccolti si susseguono. Ovunque, la tregua della domenica: nelle stazioni, sulle strade, nei campi, si vedono gruppi di persone gioiose, vive e festanti. Un mondo vestito a festa scintilla, per così dire, sotto il cielo di agosto”. La vita, là fuori, oltre i finestrini, in contrasto col dolore all’interno della carrozza in cui viaggiano: “Mentre lui, Arthur, il viaggiatore instancabile e curioso, insensibile a tutto, tanta è la sofferenza, se ne sta immobile nel cantuccio soffocante del vagone”. 

 

Durante tutta la degenza in ospedale Isabelle diventerà per Arthur il solo conforto. Deluso dai medici che non hanno saputo curarlo, sfiancato dalla lotta incessante contro il dolore fisico, impaurito, supplica la sorella di non abbandonarlo: “Minaccia di suicidarsi in qualsiasi modo se mai dovessi lasciarlo”, scrive Isabelle alla madre. Ma Isabelle non ha nessuna intenzione di andarsene e si prodiga in ogni sorta di assistenza, sostituendosi, col consenso dei medici, alle infermiere: sarà lei a frizionarlo con unguenti e balsami lenitivi, a lavarlo, nutrirlo, a rifargli il letto, ad applicare sul suo corpo un innovativo quanto inutile apparecchio elettrico che dovrebbe alleviare il dolore. Redige un meticoloso diario in cui appunta la progressiva degenerazione della malattia e i conseguenti stati d’animo del fratello: “Domenica 4 ottobre 1891: Febbre alta. Respirazione corta. Breve riposo. Quando si è svegliato mi ha raccontato dei fatti inverosimili che immagina siano accaduti durante la notte. Accusa le suore di cose abominevoli e quando gli dico che si trattava senza dubbio di un sogno mi tratta da ingenua imbecille”. Quando Isabelle si allontana, il più delle volte per andare a messa, lo ritrova “affolé”, in preda al panico. Arthur non vuole essere toccato da nessun altro, di notte trattiene i bisogni per non dover ricorrere all’infermiere, si fa rasare i capelli a zero dalla sorella per “evitare ogni sorta di approccio altrui”. Si dispera e chiede continuamente di essere dimesso, vuole tornare in Africa, vuole morire lì. Ogni tanto guarda fuori dalla finestra e quando vede il sole brillare in un cielo senza nuvole scoppia in lacrime, rimpiangendo di non poter uscire: “Io finirò sotto terra”, dice a Isabelle, “e tu, tu camminerai nel sole!”. La morfina gli provoca allucinazioni, le sussurra con voce dolce cose “bizarres” e quando una suora, ascoltandolo, domanda se stia delirando, lui interroga la sorella: “Mi credono pazzo, lo pensi anche tu…?”.

 

E lei, nel suo diario commenta: “No, non lo credo affatto. E’ un essere immateriale, quasi, e il suo pensiero a volte gli sfugge. Talvolta chiede ai medici se anch’essi vedono le cose straordinarie che appaiono davanti ai suoi occhi, quegli occhi mai stati tanto belli e intelligenti come adesso… Loro non rispondono, non comprendono…”. Lei sì, invece, lei comprende e lo segue nei suoi viaggi immaginari: “Siamo ad Harar, dobbiamo raggiungere Aden, bisogna trovare dei cammelli, organizzare la carovana…”, scrive alla madre che accoglie con sarcasmo i racconti delle “visioni” di Arthur che invece Isabelle interpreta come mistiche. Arthur ai suoi occhi è diventato un martire: “A volte è veggente, profeta, il suo udito si acutizza, ha visioni meravigliose: vede colonne di ametista, angeli in marmo, paesaggi di una bellezza sconosciuta che descrive con espressioni affascinanti…”. All’epoca Isabelle non conosceva l’opera del fratello, tantomeno le lettere da lui scritte e meno che mai quella, celeberrima, che Rimbaud sedicenne inviò al suo professore Izambard (e che tuttora e sempre mette i brividi): “Lavoro a rendermi veggente, lei non ci capirà niente e io non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi…”. In Rimbaud cattolico, quarto capitolo del suo libro, Isabelle affronta il tema della fede, (anche se il titolo originario, più calzante e meno discutibile, era Rimbaud mistico). La tesi sostenuta da Isabelle circa una pretesa conversione del poeta sul letto di morte fu accolta da Paul Claudel (nella prefazione alla prima raccolta delle opere rimbaudiane lo definirà “un mistico selvaggio”), e ferocemente osteggiata da buona parte degli esegeti di Rimbaud, surrealisti anticlericali in testa, secondo i quali l’opera, nonché la vita stessa del poeta ne contraddicevano l’assunto. Difficile credere che la stessa persona che da ragazzo aveva scritto su un muro: “Morte a Dio Cristo, eterno ladro di energie” potesse aver abbracciato la fede, ma chi può saperlo? Il Rimbaud morente non era forse più “quella” persona tanto quanto il Rimbaud mercante in Africa non era più il poeta sovversivo. In quella triste stanza di ospedale la sola testimone fu Isabelle. 

 

Di Rimbaud, l’uomo che non voleva appartenere a nulla e a nessuno, si sono appropriati in molti, facendo della sua poetica il manifesto delle proprie idee o ideologie, e nella moltitudine di orfani Isabelle ha voluto rivendicare il suo ruolo, peccando nel commovente tentativo di riabilitarne la discussa moralità attraverso una canonizzazione della sua figura, cosa che non le fu mai perdonata. Un fatto è però inconfutabile: la sua fedeltà. Quindici giorni dopo la morte di Arthur scrive una lettera feroce alla madre: “Non contare sui suoi soldi. I suoi averi saranno destinati altrove, sono assolutamente decisa a rispettare le sue volontà e comunque sono la sola a poterlo fare. I suoi soldi andranno dove meglio credeva. Non vi è mai stata cupidigia in quel che ho fatto per lui, era mio fratello, abbandonato dall’universo intero, non volevo farlo morire solo, senza conforto. Gli sarò fedele dopo la sua morte quanto lo sono stata prima, e farò esattamente ciò che mi ha chiesto di fare per quanto possa farmi soffrire. Che Dio mi assista e assista anche te”. Isabelle Rimbaud morirà a cinquantasette anni per un cancro alle ossa, esattamente come il fratello adorato.

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