Domenico Morelli, “Gli iconoclasti”, 1855, (olio su tela, cm 262 x 213) 

Alle Scuderie del Quirinale

Napoli Ottocento, la mostra che riscatta i suoi pittori dal limbo dove tanti studiosi li avevano relegati

Francesco Palmieri

Il percorso guida i visitatori “dal sublime alla materia” secondo l’intento del curatore Sylvain Bellenger, normanno ma napoletano d’adozione. “Fu l’unica metropoli italiana in cui confluirono artisti, studiosi e scienziati da ogni parte del mondo”

Pacioso ma diffidente, quando ’O Rré Ferdinando II di Borbone si trovò al cospetto dell’imponente quadro di Domenico Morelli intitolato Gli iconoclasti, scrutò con attenzione la figura del monaco Lazzaro, condannato al taglio della mano destra perché gli sgherri bizantini lo avevano sorpreso a dipingere. Fiutando (e non a torto) qualche allusione liberale, il sovrano delle Due Sicilie rivolse una minaccia sorridente al giovane artista: “Nun fa’ ‘a pittura cu cierte penziere arinto!”. Quella mostra s’inaugurò il 31 maggio 1855 e quel quadro, poi esposto al Museo di Capodimonte, rieccolo adesso alla mostra Napoli Ottocento, aperta a Roma il 27 marzo scorso nelle Scuderie del Quirinale dove resterà fino al 16 giugno con una selezione di 250 capolavori.

 

“Gli iconoclasti” di Domenico Morelli è un pezzo di Risorgimento come il “Va, pensiero” o il “Viva Verdi” sui muri del Lombardo-Veneto

    
Gli iconoclasti è un pezzo di Risorgimento come il coro del Va, pensiero o il “Viva Verdi” verniciato sui muri del Lombardo-Veneto. Non a caso Morelli avrebbe realizzato un celebre ritratto del musicista e gli sarebbe diventato amico. Quella tela alta due metri e mezzo fu dipinta in appena tre mesi alla metà del secolo, ossia nel giro di pagina tra la Napoli capitale borbonica, che malgrado la restaurazione non aveva dimenticato l’epoca dei Grand Tour, e la Napoli post-unitaria declassata a capoluogo meridionale, che innescherà per reazione la fioritura culturale della Belle époque. Guardando, e viaggiando, più a Parigi che a Roma. 

  
Come un re Ferdinando, chi visita Napoli Ottocento s’avvede che “ce sta ‘nu penziero” dietro l’esibizione storica di insigni artisti o di felici petits maîtres, ospitati tra le videoinstallazioni di Stefano Gargiulo stimolatrici di emozioni sensoriali (l’eruzione del Vesuvio, una casa pompeiana, l’animazione marina). Ed è, questo pensiero, la riconciliazione con “il secolo più presente nelle case degli italiani” ma anche “il più osteggiato dagli storici d’arte”, come scrive Stefano Causa nel catalogo di questa mostra che cinquant’anni fa, riflette, neanche si sarebbe potuta immaginare. Allora, tutt’al più, “bisognava arrossire di un secolo rimbalzante dalle suppellettili domestiche ai monumenti post-unitari nelle piazze”. Napoli Ottocento riscatta la città italiana con la più fertile produzione artistica del XIX secolo dagli studiosi iconoclasti che ai suoi pittori non mozzarono le mani, ma li relegarono nel limbo della storia dell’arte.

 
Il percorso espositivo guida i visitatori “dal sublime alla materia” secondo l’intento del curatore Sylvain Bellenger, normanno ma napoletano d’adozione che ha diretto per otto anni il Museo e Real Bosco di Capodimonte. Senza l’ossequio scolastico a una successione di date, è tuttavia evidente il cammino che comincia dal termine del Settecento e s’allunga fino alle avanzate propaggini novecentesche di un secolo davvero “lungo” per le influenze che ha assorbito e restituito, prima e dopo la sua convenzionale scansione cronologica. Un secolo che a Napoli è stato anche “largo” per il naturale cosmopolitismo di una capitale portuale, di cui sono testimoni nella mostra i numerosi artisti stranieri che si fermarono in Campania più o meno stabilmente, catturati dalla violenta seduzione del Vesuvio, dal ritorno alla luce delle rovine romane di Ercolano e Pompei, dalle bellezze naturali del Golfo, dando vita alla Scuola di Posillipo poi a quella di Resìna, alla pittura en plein air, a filiazioni artistiche visibili nei lavori di Giacinto Gigante e di Consalvo Carelli esibiti accanto alle opere di Anton Sminck van Pitloo e a un onirico Castel dell’Ovo dipinto da William Turner, o a una notte fiammeggiata dalla lava vulcanica raffigurata da Jakob Philipp Hackert. Emoziona pensare che quest’opera, risalente al 1774, sarebbe un giorno appartenuta a Goethe, il quale nel suo Viaggio in Italia destò ricambiata la simpatia di Hackert: “Mi tiene ogni giorno in maggiore conto e vorrebbe che io potessi vedere tutto quanto vi ha di raro e di bello a Napoli”. 

 
E’ impossibile censire tutti i letterati e gli artisti che dal principio alla fine dell’Ottocento seguitarono a raccontare, musicare e dipingere quei paesaggi, a visitare la costiera sorrentina e amalfitana o le isole. Quando i viaggiatori tedeschi scoprono o forse inventano il mito di Capri, ne traducono acqua e luce con una tavolozza di azzurri più nordici che mediterranei, e nel frattempo Hans Christian Andersen, danese, si gode un giro in barca nella Grotta Azzurra e appunta sul diario le impressioni da cui dopo il ritorno a casa scaturirà La Sirenetta.

  

Una vulgata corretta: non solo ecloghe piscatorie, ma anche la scienza della Stazione zoologica, dell’Orto botanico, dell’Osservatorio vesuviano

   
Padrona di forti tratti emblematici, Napoli spesso ne diventa succube rischiando la rappresentazione folkloristica, per cui l’allestimento della mostra corregge la vulgata: il mare non è solo materia di egloghe piscatorie ma è studiato nella Stazione Zoologica di Antonio Dohrn, che assurge a fama internazionale e diviene il primo centro di studi oceanografici in Italia, abbellito dalle decorazioni neoelleniche di Hans von Marées e Adolf von Hildebrand. Sorge a Napoli il primo museo di mineralogia europeo nel 1801, l’Orto Botanico è del 1807, l’Osservatorio Vesuviano del 1841 e l’accademia annovera eccellenti matematici, medici e giuristi. Sono i figli dell’illuminismo spento ma non estinto con la Repubblica del ‘99 che convivono con la città devota e irrazionale, scaramantica e viscerale. “La sfida della mostra”, secondo Bellenger, “nasce da questa lettura trasversale”. E ricorda che “Napoli nell’Ottocento è l’unica metropoli italiana in cui confluiscono artisti, studiosi e scienziati da ogni parte del mondo”. Forse è da questa commistione d’anime sparse che un peculiare verismo germinerà nella seconda parte del secolo, fertilizzato dall’afflato sociale ma anche dalle memorie del realismo barocco figlie più dello “Spagnoletto” Ribera che del geniale Caravaggio. “Il verismo napoletano non punta al concetto di realtà, ma a quello di verità quale valore morale, filosofico e sociale”, osserva Bellenger. E’ un filone che dalla seconda metà dell’Ottocento s’affaccerà ai primi del Novecento. Si esprime nelle lettere con il prolifico e sottovalutato romanziere Francesco Mastriani, con la celebrata scrittrice e giornalista Matilde Serao, con il poeta e cronista Ferdinando Russo, il quale tratterà il mondo degli “scugnizzi” (suo il conio del vocabolo) e della malavita in presa diretta e guiderà Émile Zola nella visita alla Napoli dei fondaci e dei vicoli. E’ il verismo un capitolo non secondario della mostra: dal modelletto scultoreo di Proximus tuus di Achille d’Orsi all’olio su tela di Michele Cammarano intitolato Ozio e lavoro, che rappresenta il contrasto tra i mietitori chini a faticare e un trasandato borghese, cilindro in testa, che passeggia con insolente indifferenza verso chi guarda il quadro. Piacque al re Vittorio Emanuele II, che se lo comprò per la raccolta di Capodimonte.


La ricerca del “vero” secondo una visione ravvicinata, con inquadrature parziali del paesaggio e la meticolosa riproduzione degli animali – che ricordano quelli dei presepi – contraddistingue le opere di Filippo Palizzi. Abruzzese trapiantato a Napoli come i fratelli, fu anche influente accademico ed è testimoniato nell’esposizione da diverse opere, tra cui la maestosa Dopo il Diluvio, quasi un repertorio di perizia pittorica delle specie sortite dall’Arca di Noè. Uccelli, zebre, giraffe, tigri, cavalli. Lontano dalla Scuola di Posillipo, Palizzi fu nemico delle “ubbie stilistiche”: “La sua obiettività era tale che, fosse stato fornito d’un temperamento o romantico o poetico, avrebbe cercato d’abolirlo per una resa di verità”. Così scriveva il critico Michele Biancale nel 1938 per il catalogo della Mostra della pittura napoletana dei tre secoli, che cercava di chiudere il cerchio storicizzando l’Ottocento assieme a Sei e Settecento. Si trattava, come sembra suggerire l’esposizione alle Scuderie del Quirinale, di un’ambizione prematura, perché nel ‘38 quel secolo protendeva ancora troppo la sua ombra, che ha consentito fin quasi al presente certe riproposizioni manieristiche. L’effetto è stato l’allontanamento del mercato collezionistico dagli autentici valori, per cui certi quadretti di Attilio Pratella, pittore ancora en plein air nella prima metà del Novecento, o del talentuoso pastellista Giuseppe Casciaro, sono stati battuti nelle aste a prezzi superiori a quelli di un Morelli. L’autore degli Iconoclasti è stato valutato meno del piacevole colorista Vincenzo Irolli o dei soggetti d’ambiente di Vincenzo Migliaro prima maniera (presente alle Scuderie solo quale soggetto di un ritratto).


La pittura dell’Ottocento napoletano ha rischiato di diventare ostaggio di se stessa ed è anche a questo torto che ripara la mostra, però senza cadere nella pedanteria scientifica: “La storia dell’arte”, dice Bellenger, “è pur sempre una letteratura”. E’ perciò riuscito spontaneo l’incastro con le Scuderie del Quirinale, dove è direttore generale (peraltro a titolo gratuito) il veterano Mario De Simoni, cultore di Proust come il normanno. Preparava questa mostra sin dalla fine della pandemia e anche lui è convinto che “tra i compiti di una istituzione come la nostra ci debba essere quello di favorire le emozioni, perché avvicinano all’arte più di un mero repertorio inventariale di nomi messi in fila”.

  

Il rapporto con Parigi si concretò per numerosi artisti in un andirivieni dettato da ricerche stilistiche o esigenze mercantili. Ampio spazio per Degas

  
Una mostra è un racconto diverso per ogni visitatore soprattutto quando prova a condensare l’incondensabile, ossia la Napoli ottocentesca su cui s’appuntavano gli sguardi del mondo e donde per riflesso scaturivano quelli della città sul mondo. C’è una sezione dedicata all’orientalismo, con seduzioni esotiche tra il plausibile e l’immaginario, e c’è il rapporto con Parigi che si concretò per numerosi artisti in un andirivieni dettato da ricerche stilistiche o esigenze mercantili. Fu così per gli amici Vincenzo Gemito e Antonio Mancini, per Giuseppe De Nittis e Francesco Paolo Michetti. Una rotta che non ebbe senso unico ma doppio. Non soltanto in pittura. La famiglia francese Cottrau, emigrata a Napoli, repertò le canzoni popolari, le stampò e le portò nei salotti; Mario Costa scrisse testo e musica di ’A Frangesa; Eduardo Scarpetta riadattò le pochade teatrali all’ambientazione napoletana. Ed ecco che nelle Scuderie del Quirinale uno spazio consistente è stato offerto a Edgar Degas, che trascorse tutta l’infanzia a Napoli e sarebbe tornato spesso per i legami e gli interessi della famiglia paterna. A Parigi, testimoniò Paul Valéry, Degas continuava a parlare napoletano quando se ne presentava l’occasione, e a canticchiare brani d’opera buffa di Pergolesi e Cimarosa o motivetti sentiti per strada.


Fu a Parigi che Mancini, di cui l’esposizione del ‘38 già recepiva la grandezza ma non la collocava ancora nella Storia, dipinse l’olio del Saltimbanco, esibito alle Scuderie assieme a capolavori come Dopo il duello e Il prevetariello, e a opere più tarde in cui il pittore usa una “griglia” per definire gli spazi della tela e moltiplica le sperimentazioni materiche. Prelude ai Cretti neri di Alberto Burri e ai Concetti spaziali di Lucio Fontana fino a Salvatore Emblema, artista vesuviano scomparso nel 2006: un suo ritratto in pietre di lapillo costituisce il punto terminale dell’esposizione, segno che quel secolo napoletano è stato davvero assai più esteso della convenzionale datazione per imprimere una estetica arrivata all’altroieri. Nota Bellenger nel catalogo che “le immagini prodotte dall’Ottocento napoletano hanno pervaso l’arte e l’architettura europee e americane come poche altre culture hanno saputo fare. Tuttavia, se gli artisti napoletani sono stati molto presenti sulla scena internazionale per tutto il XIX secolo, la loro produzione artistica è oggi tutta da riscoprire”. Sarà sempre l’emozione a far girare la chiave.

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