Farida Khelfa (GettyImages) 

Inferno francese

La dura infanzia di Farida Khelfa, che poi arrivò in cima all'olimpo della moda

Marina Valensise

Un’autobiografia di riscatto e di integrazione possibile della ex top model musa di Jean Paul Gaultier 

Bella, sottile, svettante, capelli neri cortissimi, sguardo di velluto, zigomi regali,  rossetto scarlatto sulle labbra sensuali, sorriso da mille e una notte su un’arcata dentale bianco smagliante, Farida Khelfa è una delle donne più eleganti d’Europa. Nelle sue molte vite è stata la musa di stilisti di grido che negli anni Ottanta hanno rivoluzionato la moda, come Jean Paul Gaultier e Thierry Mugler; un mannequin da sogno quando a sfilare erano creature leggendarie; la direttrice delle collezione di un sarto geniale, arabo come lei, Azzedine Alaïa; e infine  l’ambasciatrice della casa di moda Schiaparelli, marchio storico acquistato da Diego Della Valle che per rilanciarlo si è fidato del fiuto di Inès de la Fressange. Farida Khelfa è stata anche attrice per una breve stagione e quindi autrice e produttrice di documentari sul suo mondo e sui suoi amici, come Jean Paul Gaultier e Christian Louboutin, l’inventore delle famose décolletés tacco 18 dalla suola rossa,  presto destinate al Museo della moda. Da trent’anni Farida Khelfa vive con l’industriale Henri Seydoux, esponente della Haute Société Protestante, l’élite liberale aperta al mondo ma ispirata al rigore della cultura, nonché figlio del fondatore di Pathé Cinéma, padre dell’attrice Léa Seydoux, e fondatore in proprio di un’impresa ad altissimo valore aggiunto, la Parrot, un’azienda di telecomunicazione all’avanguardia, che produce fra l’altro impianti senza fili e droni intelligentissimi di ultima generazione.


 Niente però destinava a tanto la figlia di un povero immigrato arabe analfabeta, alcolizzato e violento, approdato a metà degli anni Cinquanta con moglie e  figli a Lione, per sfuggire alla miseria dopo il rovinoso terremoto che aveva colpito il suo paese in Algeria, El Asnam. Ultimo fra gli ultimi, Abdelkader Khelfa vive con la famiglia ai margini del sistema, prima in un portierato sul lungo fiume di Lione, poi in un’ex conceria, trincando a dismisura, alzando le mani in casa, terrorizzando moglie e figli e persino abusandone. Lavora come guardiano di notte alla stazione ferroviaria di Lyon Perrache, godendo di assegni famigliari e case popolari, i miseri benefici con cui lo stato assistenziale  ripaga in Francia gli immigrati che contribuiscono con la loro forza lavoro al successo delle Trente Glorieuses. Oggi è la stessa Farida Khelfa a ricordarlo senza complessi, quando racconta in prima persona la sua favola bella in un libro (Une enfance française, Albin Michel) tanto impudico quanto sorprendente e però autentico e liberatorio, che di questi tempi, ora che les arabes in Francia ostentano il chador, e l’odio verso la République, sognando di tornare indietro ai loro paesi, avrà forse l’impatto di un possibile contro modello per un’assimilazione riuscita, quantunque unica ed eccezionale.  


In lei l’urgenza di parlare, raccontare, confessare le sue origini umilissime, mettersi a nudo senza ritegno, entrare dentro ogni più sordido anfratto della propria infanzia francese nasce dal lutto  per la scomparsa della madre, donna impossibile, assente, anaffettiva, affetta da turbe mentali e moglie vieppiù  infelice di un tipo manesco, convinta di aver sacrificato la propria vita come madre martire di undici figli, di cui nove sopravvissuti, mai voluti e perciò mai veramente amati. Due anni fa, quando la madre passa all’improvviso a miglior vita in un afoso giorno di agosto, la figlia ormai, per quanto afflitta da un senso di insicurezza congenito che la fa sentire sempre fuori luogo, borghese arricchita col suo ambiente d’origine, povera immigrata algerina con quello di approdo, appartiene a tutti gli effetti al bel mondo dorato parigino – testimone delle nozze di Carl Bruni e Sarkozy, a sua volta testimoni di quelle sue con Seydoux, con cui divide un lussuoso palazzetto cielo-terra nel XVIe arrondissement restaurato da Philippe Starck, soffitti a volta, cucina aperta su una veranda nel giardino, una strepitosa collezione d’arte contemporanea dove le opere dei grandi ritrattisti dell’Ottocento come François Gérard dialogano con le sculture avanguardiste di artisti africani contemporanei e quotatissimi. Farida è colta dalla notizia all’improvviso. Su due due piedi  lascia marito, figli, amici e dolce vita, interrompe le vacanze nella bella villa di Comporta, un’enclave sull’Atlantico dove ha per vicini Jacques Garcia  e Jean Nouvel, per rientrare a Parigi e precipitarsi all’obitorio di Saint Cloud, dove allestire il rito funebre, lavare con la sorella la salma materna secondo i precetti dell’islam, assistere alla Fatiha, la preghiera rituale pronunciata da un iman sconosciuto, prima di inumare la madre nel comparto musulmano di un cimitero parigino. Non una lacrima, non un’emozione, non un segno di cedimento. Ma il distacco e  l’apparente torpore da canicola agostana finisce per tradursi subito nella rabbia di dire, urlare, dare sfogo al vuoto lancinante che le resta da un legame cardinale e però invivibile come il rapporto con la madre. 
È così che inizia il suo corpo a corpo con la scrittura. In preda all’insonnia, Farida Khelfa si mette a scrivere di notte, si sveglia all’alba per continuare come se fosse in trance. Scrive probabilmente a mano, forse al computer, ma scrive alla come viene viene: frasi corte, spezzate, buttate via di getto, per registrare d’impulso come se volesse trascrivere una seduta psicanalitica le immagini e i ricordi che riaffiorano dal suo passato. E’ un fiume in piena che s’abbandona alla memoria e all’autocoscienza. Lasciando da parte il riserbo, la discrezione altoborghese, la leggerezza bon chic bon genre, si mette in testa di raccontare per filo e per segno la sua vita come se volesse espellere quel passato remoto indelebile di figlia infelice di una famiglia miserrima, dando sfogo a una sofferenza che forse serve solo a congelare il dramma originario, per tenerlo a bada come altro da sé e renderlo, finalmente, inoffensivo.


La poveretta d’altra parte ne ha ben donde. La famiglia in cui nasce in Francia nel 1962, finita la guerra di Algeria, pochi anni dopo lo sbarco dei genitori a Lione, è perfettamente disfunzionale, nonostante l’allegra brigata, le gioie della vita comunitaria, i riti arcaici che consolidano i legami famigliari, coi molti interdetti e  moltissimi tabù, a cominciare dal primo e fondamentale: “Il nostro corpo non ci appartiene,  è il bene comune”, ricorda oggi senza complessi Farida Khelfa parlando di sé  bambina e delle sue sorelle. E infatti in Algeria, come pure in Africa, non esiste frontiera tra figli e genitori. I figli sono sempre bint o ben, figli di, semplice propaggine dei genitori, mai persone a pieno titolo.  Altra peculiarità, i genitori formano nel suo caso una coppia asimmetrica, frutto disgraziato di un matrimonio imposto dalle regole claniche algerine e mai accettato. La madre Khedija, incarnazione dell’austerità, sa leggere e scrivere e controlla il borsellino. E’ la figlia di un cameriere di un ristorantino di El Asnam costretto ad arruolarsi a 17 anni in un reggimento di fucilieri per servire la France, poi ferito sulla Somme e menomato per sempre dai gas tossici della Grande guerra. Debilitato a vita, e decorato al valor militare, il padre fa studiare la figlia, ma quando questa compie 16 anni, la offre come merce di scambio a un meccanico analfabeta dalle mani d’oro, Abdelkader Khelfa, 25 anni, che però è un tipo sporco e puzzolente, e ben presto si rivela anche un alcolizzato manesco. 


Khedija cerca di svincolarsi, vuole tornare indietro, cerca di farsi riprendere dai suoi. Niente da fare. L’orgoglio lo vieta. Perciò continua a subire le vessazioni del marito che la insulta, la riempie di botte, la trascina per i capelli, abusa di lei (che a 32 anni ha già partorito undici figli, ognuno frutto, a dir suo, di uno stupro).  Non pago, il marito, figlio a sua volta di un padre truce e di una madre che l’ha abbandonato quando aveva 8 anni, incapace di controllare le sue pulsioni, la sera s’infila nel letto della figlia maggiore, Myriam, con la complicità della moglie  che non vuole vedere, non vuole  sapere, e addirittura butta fuori casa la figlia piccola che ha spiattellato tutto. Come se l’incesto non bastasse, c’è l’incapacità di parlare, di capire, di comunicare, e anzi la follia, l’alienazione, verme marcio dell’atavismo famigliare e forse anche disumano effetto del colonialismo, mai pienamente assunto né da chi l’ha inflitto né da chi l’ha subito, dopo esser stato denunciato da Frantz Fanon, autore che Farida venera e pone in un olimpo di maîtres à penser in cui troneggia il sartriano Claude Lanzmann, regista del film Shoah.


Arrivato in Francia, e subito raggirato da un cugino rapace, il padre di Farida trova lavoro come inserviente e poi come guardiano a Lyon Perrache. Con moglie e figli lascia il portierato di una sola stanza sul lungofiume di Lione per trasferirsi in periferia in un’ex conceria, senza acqua né luce. Piano piano, col tempo e gli assegni familiari arriva anche l’upgrade. I Khelfa coi loro nove figli sono i primi nella lista, e ottengono un alloggio popolare in una delle torri delle Minguettes, a Vénissieux, comune comunista a sud di Lione, e Zup, zona di urbanizzazione prioritaria, abitata da emigrazione multietnica. 
Lì Farida a 7 anni riceve il primo insulto razzista, “sale arabe”, sporca araba, dal maestro delle elementari.  La piccola non sa nemmeno cosa significhi, ma inizia allora a trasformare le ferite in forza. Va a scuola, studia di gusto,  passa i pomeriggi a casa dei compagni o a bighellonare con loro per strada, sognando la famiglia ideale, pur di evitare la sua. La guerra tra i genitori è permanente e fomentata dai figli troppo mansueti, persino un po’ ritardati, ma sempre inadeguati rispetto alle attese paraboliche del padre analfabeta e sempre ubriaco. Quando la madre parte d’estate coi figli più piccoli per l’Algeria, lei che ormai ha 10 anni resta a casa col padre e gli altri due fratelli e si occupa di tutto, lava i panni nel bagno, pulisce la casa, serve la cena al padre padrone, evitandone gli strali. Lui, sempre un po’ brillo, ne approfitta per portare i figli in giro sulla sua Peugeot 404 diesel azzurro, che incombe ancora come un incubo sui ricordi della figlia; guida  contromano in autostrada, pretendendo che la figlia gli legga i cartelloni, fra insulti e colpi di clacson dalle altre macchine. Finito il rodeo, rientra a casa, si ingurgita il cibo del gatto spalmando la scatoletta sulle tartine, e  finalmente si assopisce, mentre i figli scaricano la tensione mettendosi a ridere come pazzi.


Divisa tra l’educazione repubblicana e l’atavismo arabo, Farida sogna di emanciparsi ma non sa bene come, e intanto serve il padre, gli lava i piedi, gli fa da mangiare, come a un dio da venerare che sgozza il montone in casa nella vasca da bagno per le feste religiose, riverito da tutta la comunità di origine araba. A 15 anni, dopo due tentativi di suicidio, la figlia non ce la fa più. Capisce che è il momento di fuggire da una famiglia tossica, e con l’aiuto di una compagna scappa via di casa, sale su un treno senza biglietto, viaggiando tutta la notte nascondendosi al controllore nelle ritirate puzzolenti, per raggiungere Parigi dove vive la sorella, che però di lei non ne vuole sapere. E’ così che inizia la sua vita da bohémienne senza fissa dimora. Ogni sera dorme in una casa diversa, dividendo un branda, un divano di amici punk e spiantati come lei, per lo più dropout, omosessuali, drogati meravigliosi con cui assapora l’estasi dell’eroina, la cocaina e altre droghe, frequentando di notte il Palace, il night club più trasgressivo della città dove la crème de la crème si confonde alla feccia dei bassifondi parigina, e la libertà di osare tesse per alcuni la trama di un destino straordinario. 


Intercettata da Jean Paul Gaultier che vede in lei una pantera sensuale aureolata da una montagna di capelli scuri, Farida inizia a sfilare per gioco, senza disciplina, senza un’etica del lavoro. Non sa niente, ma ha carattere e molta voglia di arrivare. Un’altra sera, al Palace le si avvicina timidissimo  Jean Paul Goude. Lei gli dà un bacio e nonostante i vent’anni di differenza si lascia sedurre da quel genio della pub che innova i codici dell’epoca, imponendo la  maschera nera di Grace Jones, trasformando la regina della disco music nell’icône de la branchitude, e finendo per rivoluzionare il bicentenario della Rivoluzione francese con una sfilata multirazziale sugli Champs Elysées, che sarà la sua apoteosi. I due vivranno insieme 8 anni, che segnano per Farida l’apprendistato al gusto, l’autocoscienza, la cura di sé e la scoperta della moda, arte minore, leggera, irriverente ma liberatoria. È Goude che insiste perché lei si tagli i capelli. Ma il giorno in cui questo accade, al suo fianco non ci sarà più lui, ma Henri Seydoux, all’epoca giornalista di Actuel che bazzica il Palace, anche lui timidissimo, che la conquista coi suoi grandi occhi azzurri dietro le spesse lenti da miope. È il miglior amico del migliore amico di Farida, Christian Louboutin, e sarà il futuro cofondatore del marchio di scarpe extralusso.

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