Mostra di Anslem Kiefer - foto Ansa

Arte

Sentirsi un po' Dante mentre ci si avventura nell'atelier di Anslem Kiefer

Gaia Manzini

L'autore unisce il contemporaneo con l'arcaico creando opere ciclopiche e umane che esplorano la melanconia e il tempo, come quella monumentale installazione site-specific a palazzo Ducale a Venezia iniziata nel 2022

Il protagonista della “Tana”, racconto che Franz Kafka scrisse nell’inverno del 1923, è un roditore; o forse no, forse si tratta di un uomo, o per essere precisi di un architetto, tutto impegnato a costruire la sua casa sotterranea. Una casa che deve proteggerlo dal mondo esterno. Gallerie silenziose e deserte, cunicoli che si allargano in piccole piazze dove riposare, dove nascondersi; ma la paura di essere raggiunto dal nemico è inarginabile, e allora bisogna scavare diramazioni che portino a vicoli ciechi e ancora percorsi ritorti su loro stessi. E’ così che la tana si fa labirinto, abisso dentro l’abisso, ossessione – lo spazio mentale diventa spazio fisico. Quella di Kafka è la suggestione che il critico Vincenzo Trione associa al suo peregrinare nel sottosuolo di Barjac, museo-laboratorio-città costruito da Anselm Kiefer, uno tra i massimi artisti contemporanei. Perché non si può parlare della sua arte senza rifarsi al mito e alla letteratura. Attraverso le oltre trecento pagine di “Prologo celeste, nell’atelier di Anselm Kiefer” (Einaudi), Trione ci accompagna in un viaggio avventuroso quanto un romanzo di Jules Verne.

Kiefer è arrivato a Barjac negli anni Novanta. In Germania aveva tre atelier, ma il ministro della Cultura francese, Jack Lang, voleva che l’artista eleggesse la Francia a sua dimora creativa, e così gli presentò una lista di circa novanta proprietà da prendere in considerazione. Kiefer ne scartò molte e poi si decise per un vecchio setificio nel mezzo di una terra selvaggia. Un setificio. Ci immaginiamo fili preziosi, sottili e tenaci, che richiamano l’idea di una continua affabulazione, una narrazione consustanziale al lavoro artistico. Una volta arrivato a Barjac l’artista ha tracciato percorsi, piantato alberi, ha allestito padiglioni alti tra i cinque e i venti metri, poi ha iniziato a scavare come il protagonista della “Tana”. Ha scavato per chilometri in modo da creare spazi ipogei tutti collegati tra di loro. Sembra di essere in un sito archeologico. Si sale e si scende di continuo: come nella “Commedia” dantesca. Camminando per Barjac, si trovano le torri kieferiane, sghembe e monumentali, resti di aerei, edifici strappati alla terra con la gru telescopica, blocchi di cemento che diventano sculture, armature di ferro piegate, personaggi femminili con abiti di gesso… tutte icone di un’archeologia interiore. I luoghi interiori che si fanno esteriori, con uno slittamento verso l’alto: Kiefer mette in scena l’inconscio, ma il suo non è un approccio soggettivo. Aleggiano a Barjac i fantasmi di altre età - relitti, pezzi di passato, macerie di un regno dopo un ignoto bombardamento. In diverse interviste Anselm Kiefer ha raccontato di aver vissuto tra i tre e i cinque anni in una città ferita dalle bombe. Giocava tra le rovine, non aveva altro se non mattoni. Usava i detriti per costruire piccoli edifici e dighe. Le rovine per lui sono la cosa più bella che ci sia: meravigliose perché non dicono della fine, ma di un momento incipiente in cui ancora tutto è possibile. E’ così che l’esperienza personale si fa universale. La guerra, la distruzione e la rinascita. Ed ecco perché l’artista brutalizza spesso le sue opere: usa il fuoco, le espone alle intemperie, ne lacera delle parti. Perché in ogni gesto distruttivo c’è la guerra e poi un futuro possibile da inventare. Tutto questo è Barjac, opus magnum di cui Kiefer è il formatore ribelle, è il Prometeo: “Una costruzione totale, distante da ogni ripiegamento minimalista, capace di affrontare la sfida prometeica dell’illimitato” scrive Trione. “Un’opera sovranamente ambiziosa che ci fa ancora piegare le ginocchia. In segno di ammirazione. Di stupore. Di timore”. 

Durante una conferenza tenuta nel 2015 per il riallestimento dei “Sette Palazzi Celesti” all’Hangar Bicocca, Kiefer ha raccontato un sogno ricorrente: la distruzione programmata di una delle torri, fino a ridurla un cumulo di rovine. Come nella scena finale di “ZabrinskiePoint” di Antonioni. Per loro natura le torri sono fragili e precarie, nonostante le dimensioni; sono colossi sul punto di sfaldarsi, come rimaste in piedi dopo una catastrofe. Da qualche anno a Brjac Kiefer ha realizzato il suo sogno: attacca un cavo e fa crollare le torri. È il sublime negativo. La torre vacilla e poi cade: l’istante più meraviglioso. Ma quell’atto non rappresenta un epilogo: le torri si possono smontare continuamente e ricomporre di nuovo, rinascere da loro stesse.

Al numero 46 di rue Hippolyte-Maindron c’era il leggendario studio dello scultore Alberto Giacometti. Una specie di antro. Graffiti a matita e carboncino sulle pareti, sgabelli, sedie, oggetti ammonticchiati per terra, e poi ovunque personaggi filiformi, sofferenti, consumati e mai definitivi. Quando si arriva a Croissy, l’altro studio francese di Kiefer (36.000 metri quadrati di strade, piazze, incroci), racconta Trione, torna in mente lo studio di Giacometti. Quando si entra si ha la sensazione di aggirarsi nelle sinapsi dell’artista, nel luogo in cui si dispiega il cervello di Kiefer. “Camminando tra questi spazi, ritroverete i ricordi che si sono depositati in me, registrati dalla mie cellule”. Nello sfrenato disordine che ricorda lo studio-discarica di Francis Bacon, Croissy è come una sconfinata soffitta che conserva tutto. Motori di aerei, vascelli, una vasca da bagno, i letti delle donne della Rivoluzione francese, i capelli di Berenice, le voci letterarie di Joyce, Hugo, Celan, Chlebnikov, Bachmann... E poi centinaia di camicie per neonati o per bambole cucite da una sarta algerina: per Kiefer gli abiti dei non-nati, simbolo della pura possibilità di chi attende di essere creato. Come nelle stratificazioni di ère precedenti ricostruite a Barjac, anche qui si mette in scena il tempo, che è sempre tempo interiore fatto di memorie, di oggetti e cortocircuiti che raccontano storie. I reperti fanno luce su qualche evento del passato, sulle ferite impresse nell’anima, sulle cicatrici non rimarginate; non contano in sé ma per la loro qualità estetica, affabulatoria. Anselm Kiefer è stato uno scrittore mancato: da ragazzino aveva vinto un premio letterario, ma poi la sua vita ha preso un altro corso. Eppure il legame con la letteratura non si scioglie mai. Al mattino si sveglia, si dirige alla sua libreria ed estrae un libro a caso. E’ un rituale. Il libro orienterà la sua giornata creativa come una bussola. È il modo per andare poi in studio con un’idea precisa di lavoro; un’idea che magari poi può rivelarsi sbagliata, ma è dalla parola che si parte e poi si ritorna. Se resta impantanato si siede alla scrivania e scrive qualcosa.

Kiefer assomiglia a Qfwfq, il protagonista delle “Cosmicomiche” di Calvino: lo stesso stupore dinnanzi ai misteri del cosmo, davanti allo scoppio forsennato dell’universo. È così che nasce la serie Costellazioni. Al cospetto di tale immensità è preda di un incantesimo. Continuo mutamento, infinita arbitrarietà che si pretende di esplorare: ecco, il cielo. Anselm Kiefer si occupa dell’immenso – immenso abissale quando scava dentro di sé come a Croissy, immenso universale quando valica i limiti della dismisura come a Barjac. È ciclopico ma anche umano; le sue opere non ci schiacciano ma sono pervase da melanconia. La melanconia è anche la materia del contemporaneo che è far riemergere l’arcaico nell’attuale, l’estraneo nel famigliare. “Sono un sedimento”, dice Kiefer. “Ho circa duemila anni”. La melanconia fa parte di Venezia, città in bilico tra la permanenza e l’apocalisse. Ed è proprio a Venezia che Kiefer ha dato origine nel 2022 alla monumentale installazione site-specific a palazzo Ducale: “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce”. Operazione da profanatore. Ha assorbito Bellini, Tintoretto, Tiziano, Carpaccio, Veronese, Jacopo Palma. Ha poi nascosto le opere di Tintoretto e Jacopo Palma il Giovane con i suoi dipinti, ma se n’è fatto influenzare. Le ha rilette. Il passato si riversa nel presente, il presente prende forma perché influenzato dal passato. E’ l’alchimia di chi impasta il tempo per trovare un senso. Come diceva Philip Roth, d’altronde, vivere è ricordare. “Se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”.

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