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Chi l'avrebbe mai detto che l'ignoranza può essere perfino interessante

Marco Archetti

L’ignoranza è un fenomeno interessante e ricco di sfumature, non il nefando monolite cui ci si riferisce solitamente. È il banco di prova di ogni sapere, e il suo motore. L'ultimo saggio di Peter Burke

Via ranuncolo, via amento, fuori anche castagna. Parole in disuso. Da qualche anno la nuova edizione dell’Oxford Junior Dictionary le ha defenestrate. Per carità, niente da dire su amento (“correggia di cuoio fissata al giavellotto dei soldati romani” o “infiorescenza con asse allungato e fiori solo staminiferi o solo pistilliferi”), ma su castagna si poteva forse chiudere un occhio. Tra le parole aggiunte, invece: banda larga, chatroom, allegato, copiaincolla. Bisogna mettersi il cuore in pace, sono trapassi inevitabili. Forse, fino a una decina di anni fa, nei remoti dintorni di Stockbridge, qualche mohicano collezionava ancora corregge, dipingeva infiorescenze prive di stami e coglieva bracciate di ranuncoli, mentre oggi, per lo più, in tutto il resto del mondo si chatta, si chatta, e ancora si chatta (anche con residenti in remoti dintorni), ma proprio per questo fu eccessivo metterla giù dura come fecero Margaret Atwood e altri ventisette glossoluddisti, riuniti in allarmatissimo appello – gli appellanti, a un certo punto, usavano la parola “connessione” per dire “corrispondenza”, e si sa, un dettaglio può uccidere una poesia.

Di queste riflessioni e molte altre curiosità trabocca la lunga escursione storica di Ignoranza – una storia globale di Peter Burke (Raffello Cortina editore, pag. 388, euro 25), saggio piacevole che ci dice una cosa sgradevole: il mondo, volenti o no, va avanti. E anche le polemiche. A un tratto, quella tra gli appellanti e l’Oxford Junior Dictionary si fece perfino buffa, perché al rimbrotto circa la sparizione di molti termini legati alla campagna (e grazie tante: ma dove vivono certi appellanti?), gli Oxford ribattevano, sulla difensiva: ma abbiamo lasciato invertebrato, pitone, bruco!

Detto ciò – condivisibilissima tesi del libro – ogni cambiamento comporta una seria riflessione in merito all’approccio ottimistico circa lo sviluppo del progresso e della conoscenza, perché procedere significa non poter portare tutto con sé, e dover rinunciare, dover alleggerire e cambiare (sguardo, prospettiva, bagaglio). Prima o poi viene sempre il momento in cui ci si deve liberare delle zavorre, e le zavorre possono essere saperi ritenuti superati. Perché si è più colti e ricchi di conoscenza? Non è detto. “Ogni epoca” – ci dice l’autore, professore emerito a Cambridge – “è un’epoca di ignoranza”. Cambia solo ciò rispetto a cui lo si è: nuove le conoscenze, nuove le ignoranze, e chissà se chi verrà dopo sarà davvero meno ignorante di chi è venuto prima.

L’ignoranza è un fenomeno interessante e ricco di sfumature, non il nefando monolite cui ci si riferisce solitamente: come la stupidità, come la bruttezza, come l’assenza, non può essere percepita solo come vacatio (provvisoria o definitiva) rispetto a una sostanza che certifica sé stessa in quanto auspicabile e nobile, espressione di un “pieno” rispetto a un tragico, desertico vuoto, con tanto di tumbleweed che attraversa la scena riarsa – “tumbleweed” sarà stato risparmiato dalla falce dell’Oxford Junior Dictionary? L’ignoranza è il banco di prova di ogni sapere, e il suo motore. Socrate si divertiva molto a rendere il suo prossimo consapevole di quanto non sapesse e Thoreau voleva addirittura fondare una società per diffondere l’ignoranza, lodata anche da molti romanzieri come motore dell’immaginazione (e forse la letteratura è addirittura fondata su una forma di ignoranza fertile). Lacan considerava l’ignoranza una passione, e a guardar certe abominevoli gigantomachie su Instagram gli si darebbe ragione in blocco. Alcuni pittori l’hanno assimilata alla cecità o alla follia e Cesare Ripa la rappresentò come un ragazzo bendato che cavalca un asino.  Ma esistono tante ignoranze: quella che ha generato l’esotico o che ha oscurato lunghi tratti di storia, quella di guerra e quella strategica, quella degli autocrati e quella della democrazia, quella degli affari e quella riguardante il futuro, e perfino quella poetica – li chiamavano “i silenzi cartografici”, a proposito dei margini del mondo sconosciuti o solo ipotizzati.

Saggissimo Will Rogers: “L’ignoranza non sta nelle cose che non sapete, ma nelle cose che sapete e che non sono come credete che siano”.

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