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in sicilia

Nero come la pece. Storia di un materiale che ha plasmato un'intera società

Valentina Bruschi

C’è stato un momento nella storia in cui Ragusa riforniva di asfalto il mondo. Oggi un festival artistico rivitalizza l’ex fabbrica di bitume

Cosa estraggono in Sicilia? – Hanno avuto una concessione su alcuni terreni al Sud, dalle parti di Ragusa, ci sono cave dove gli operai bucano la terra calcarea e spaccano pietre per cercare quelle intrise di bitume, una volta estratte le fanno a pezzi, le caricano sui carri e da lì arrivano alla costa dove con una serie di barche da trasporto vengono portate al largo fino ai nostri piroscafi che le portano in Inghilterra. – E poi in Inghilterra che ci fanno con quelle pietre? – Dicono che questo è il futuro, Robart, io non me ne intendo, ma so che da quelle pietre scaldate ci ricavano l’asfalto, una specie di gomma nera con la quale vogliono pavimentare le strade di mezzo mondo. – E perché? – Sai, amico mio, i signori hanno voglia di viaggiare morbidi sulle loro carrozze, i ricchi hanno i culi delicati. Il bitume impregna le pietre del fondo sassoso delle strade e poi diventa duro come la roccia, ma quando è caldo è morbido e riescono a spalmarlo come burro su una fetta di pane, rende la strada impermeabile e fa scorrere le ruote che scivolano lisce e non sobbalzano più”. Questo dialogo, che descrive il momento di passaggio dalle strade polverose all’èra della città moderna con le vie asfaltate, fa parte del racconto dal titolo Cuore di pece dello scrittore Marco Steiner, conosciuto per la sua collaborazione con Hugo Pratt nelle avventure di Corto Maltese, contenuto nel volume di quasi quattrocento pagine dal titolo Bitume, a cura della Fondazione Federico II di Palermo e di Vincenzo Cascone.  


In Sicilia la pietra asfaltica impregnata di bitume si chiama pece e i cospicui depositi minerari contenenti questa roccia brunastra e oleosa, che si trovano a sud dell’abitato di Ragusa sull’altopiano ibleo, erano conosciuti già nell’antichità. L’importanza del suo utilizzo come pietra ornamentale risale al 1693, quando un disastroso terremoto colpì gravemente la Sicilia sud-orientale e da quella sciagura nacque un’opportunità: la ricostruzione aprì la grande stagione del tardo barocco che caratterizza oggi questa zona divenuta patrimonio Unesco e la pietra pece fu utilizzata per la decorazione di diversi elementi scultorei, capitelli, pavimenti e facciate, tra cui quella bicroma del Duomo di Ibla, l’antico centro storico di Ragusa, sorto dalle rovine della città. Il libro pubblicato da pochi mesi, come risultato di tre anni di lavoro con la dedica “al sacrificio di tutti i picialuori”, racconta le molteplici narrazioni nate da un recente progetto di arte pubblica e legate alla storia di un sito di archeologia industriale: l’ex-fabbrica Antonino Ancione specializzata nell’estrazione di materiale bituminoso, che si trova in contrada Tabuna. Questo è un luogo di notevole interesse sia geo-paleontologico che mineralogico, per via degli importanti giacimenti asfaltiferi ampiamente sfruttati a partire dalla fine del 1800, quando compagnie nazionali e internazionali esportavano l’asfalto ragusano in tutto il mondo via mare. Prima Parigi, poi Londra, Amsterdam e Berlino, le capitali europee e, successivamente anche quelle americane, vengono pavimentate con asfalto ragusano, diffuso fino alla Seconda guerra mondiale, quando iniziano anni critici e termina la linea produttiva perché non abbastanza remunerativa. La pubblicazione, ricca di documenti testuali e fotografici, mette in dialogo archeologia industriale, creatività e arte urbana, storia civica e memoria di un luogo, sperimentazione estetica e auspicabili progetti di tutela. Inoltre, è uno strumento di valorizzazione di un luogo oggi abbandonato ma denso di echi della storia e fondamentale per la memoria collettiva, non solo locale ma anche globale, perché racconta l’ingegno dell’essere umano, la sua ricerca nell’avanzamento tecnologico, la vita difficile e rischiosa dei minatori, “i picialuori”, appunto, e la loro voglia di emancipazione dalla crisi agricola di fine Ottocento. 


Il libro non racconta soltanto il passato ma anche la condizione attuale della fabbrica, un sito di dimensioni monumentali (centocinquantamila metri quadrati) fulcro di un progetto di arte contemporanea che ha coinvolto trentuno artisti provenienti da diversi continenti, con l’obiettivo di aprire il dibattito sulle possibili prospettive future di un posto straordinario che, raccontato attraverso le sue stratificazioni di memorie diverse, antiche e nuove, diventa luogo emozionale. Oggi la fabbrica è in vendita ma, come nel caso delle zolfare di Caltanissetta, delle saline di Marsala o delle cave di Custonaci, va considerata “risorsa comune, non già solo economica, bensì socio-culturale”, come scrive Patrizia Monterosso, direttore generale della Fondazione Federico II. Nel 2020, nonostante le difficoltà logistiche causate dalla pandemia, nasce il progetto Bitume Platform of Arts, un progetto site-specific realizzato all’interno dell’ex fabbrica, che vede protagonisti alcuni fra gli esponenti più rappresentativi del muralismo contemporaneo, i quali hanno realizzato le loro opere ambientali dentro un luogo cristallizzato nel tempo, dove il passato si apre alla creazione lungo le traiettorie suggerite da capannoni, facciate scrostate, carcasse di macchinari e contai ner dismessi. Bitume è nato nel solco di FestiWall, un festival internazionale di arte pubblica che per cinque edizioni, dal 2015 al 2019, ha interessato diverse aree della città di Ragusa attraverso incontri, workshop e opere murali divenute “una mappa alternativa del centro abitato”, secondo il curatore Vincenzo Cascone, “che, negli anni, ha permesso alla collettività di interrogarsi sul bene comune, sulla bulimia di cemento, sull’immaginario collettivo e sulla sua permeabilità nei confronti di sguardi ‘altri’, street artist o muralisti che, da ogni parte del mondo, hanno raggiunto Ragusa”. 


Durante le diverse edizioni di FestiWall (le prime quattro curate anche da Antonio Sortino) alcuni artisti hanno accettato l’invito “clandestino” a dipingere nell’ex fabbrica Ancione, lasciando la propria cifra stilistica impressa sulle superfici ossidate e arrugginite dei silos, con l’intento di rileggere il luogo e le vecchie attrezzature legate al ciclo produttivo in un contesto storico oggi completamente mutato. L’unica richiesta fatta agli artisti era quella di mantenere riserbo sul loro intervento e di non pubblicare le immagini dei lavori sui social in modo, anche concettuale, di far sedimentare il segno tracciato, come il bitume sottoterra. Così l’opera poteva intrecciarsi con il residuo industriale e diventare una metafora di nuove “memorie” fra altre orme del passato. Per gli artisti invitati da FestiWall, l’opportunità di potersi confrontare con uno spazio come quello dell’ex fabbrica è stato come invitare dei bambini in un parco giochi. Gli autori che non avevano tempo tornavano apposta, anche dopo anni, altri cercavano di sbrigarsi a realizzare l’intervento “ufficiale” negli spazi pubblici di Ragusa per non perdere l’opportunità di fare un’opera in un luogo che racchiude storie che attraversano due secoli, dalla rivoluzione industriale al Fascismo che vedeva nella fabbrica il serbatoio per il combustibile “da far muovere tutta l’Italia, compresi treni e carrarmati”, fino alle lotte di classe degli anni Sessanta. Gli interventi realizzati dagli artisti abituati a confrontarsi con lo spazio pubblico fanno emergere ciò che è stato rimosso e creano un dialogo fra arte e memoria, pieno e vuoto, evidente e nascosto. Un’arte mai intesa come mero decoro o abbellimento, ma strumento per far affiorare le tracce latenti della città e dei suoi centri nevralgici e produttivi, per riflettere e scoprire le criticità di un luogo, una rigenerazione non urbanistica ma dell’immaginario. 

Oltre alle fotografie in bianco e nero di Marco D’Anna, che seguono la narrazione fantastica del racconto di Steiner, il libro è corredato di tante immagini, sia foto d’archivio che di alcuni oggetti rinvenuti nella fabbrica, dai libri contabili ai manuali tecnici e quotidiani d’epoca. Inoltre un reportage illustra le nuove opere nel loro contesto di realizzazione e documenta i diversi linguaggi usati dagli artisti invitati, riuniti sotto la definizione di “muralisti”, ma che spaziano attraverso molteplici tecniche, dallo stencil alla pittura, dal collage al calligrafismo, dal graphic design al “photograffitism”, dalla figurazione all’astrazione. Dopo anni di interventi artistici nascosti, una delle prime opere di grandi dimensioni, visibile da fuori, perché posta volontariamente davanti al centro commerciale adiacente la fabbrica, è CheckPoint del polacco Mariusz Waras, in arte M-City, la cui poetica è influenzata dall’architettura dei cantieri navali di Danzica, sua città natale. L’opera maestosa che occupa otto prospetti, sviluppati attraverso un’unica narrazione caratterizzata da una forte tridimensionalità illusoria, data dal sapiente uso del chiaroscuro, fa parte di una serie di lavori dedicati al mondo dei titani, protagonisti semiumani di un mondo in declino. Il soggetto principale è un signore che viaggia su una carrozza trainata da schiavi incatenati. Accanto, degli altri servi riparano alcune gabbie e sembrano ignorare che il loro lavoro possa cambiare il mondo. L’artista vuole dire ai fruitori dell’opera che l’uomo non riesce ad essere consapevole dell’ingordigia onnivora delle multinazionali, prigioniero della società dei consumi. Una critica anche ai grandi poli commerciali che hanno svuotato il centro di Ragusa e portato ad una rivoluzione del tessuto sociale e cittadino come, del resto, in tanti altri luoghi d’Italia. 


Altri interventi sono hanno una poetica più “spirituale” come quello del venezuelano Gomez che, con la sua pittura dagli echi caravaggeschi, realizza sul silos della calce, il più importante del sito, Corpus Homini, parte del corpo di Cristo in croce dove da un taglio nel costato sembra uscire della materia scura, sangue nero, il bitume. Gomez ha anche realizzato una scultura in uno dei capannoni, nel reparto emulsioni: una sacerdotessa laica che sembra uscire dalle vasche di raffreddamento e dare al contesto architettonico l’aura di una navata di chiesa. Il tedesco SatOne ha realizzato un intervento che mette in relazione arte e scienza, promosso dall’Ecomuseo Carat (acronimo di Cultura, Architettura rurale, Ambiente e Territorio) in collaborazione con la facoltà di Geologia dell’Università di Catania: un murale astratto che fonde le macchine industriali dismesse con la vegetazione risorgente, raffigura l’amplificazione di immagini al microscopio dei cristalli colorati che formano la roccia vulcanica. 

Uno degli interventi che è riuscito a rivelare la storia più vibrante del territorio è quello di Said Dokins, che lavora a Città del Messico e ha studiato i registri di fabbrica della fine dell’Ottocento quando i proprietari erano inglesi. Attraverso la sua peculiare tecnica di “calligraffitismo”, l’artista “ha tracciato in nero i nomi e i cognomi di quella moltitudine di lavoratori che hanno cavato la roccia asfaltica dalle miniere, dando forma alla loro memoria sulle pareti di un capannone della Antonino Ancione Spa. Nomi e cognomi di famiglie che sono l’attuale società ragusana e a cui la città deve gran parte del suo sviluppo”. Attraverso la capacità propria dell’arte contemporanea di sintonizzarsi con il luogo, il progetto Bitume Platform of Arts racconta la storia locale di un materiale che ha plasmato lo sviluppo di un’intera società, un tassello di storia legata a un luogo specifico che diventa metafora del Novecento, un racconto allo stesso tempo individuale e collettivo, scritto dai tanti lavoratori che hanno estratto e trasformato la roccia asfaltica degli Iblei.

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