Combattimento di gladiatori di Giorgio De Chirico (Foto Ansa)

il libro

La gloria e l'infamia dei gladiatori nell'antica Roma. Un saggio

Maurizio Stefanini

Applauditi dalle masse, ammirati, famosi. I gladiatori erano adulati dalla gente ma al tempo stesso non godevano di buona reputazione perché si prestavano a uccidere gli altri e se stessi. E spesso erano anche schiavi. Claudio Togna racconta la loro condizione di minoranza giuridica

“Gladiatrice di Southwork” fu chiamata la ventenne i cui resti carbonizzati furono trovati nel 1996 nei pressi di quello che era l'Anfiteatro dell'antica Londinium, in un contesto che potrebbe sembrare sconcertante. Da una parte, infatti, tutto rimandava a un complesso ed elaborato rito funebre, che trasudava senso di potere e ricchezza. Però, stava fuori dal cimitero, in un'area destinata a chi per qualche motivo era stato ritenuto indegno di essere sepolto assieme alla gente normale. Ma insomma, era una persona onorata o disprezzata? Tutte e due allo stesso tempo: era una gladiatrice.

La sua storia è posta al termine di “Gli aspetti giuridici della gladiatura”: un breve saggio che verrà posto in un volume destinato ad accompagnare quell’evento espositivo multimediale “Gladiatori nell’Arena” che ha già aperto al pubblico il 21 luglio, e che presso il Parco archeologico del Colosseo andrà avanti fino al 7 gennaio. Autore è Claudio Togna: un notaio che da anni si interessa di beni culturali, e che questi e altri particolari aspetti del diritto romano li ha studiati in profondità. Come indica appunto la sepoltura di quella gladiatrice, ci spiega, nella posizione dei gladiatori c'era “un sintagma: gloria e infamia”.

Da un certo punto di vista, infatti, i gladiatori erano gli omologhi dei campioni sportivi di oggi. Applauditi dalle masse, ammirati, famosi, potevano anche guadagnare parecchi soldi. Naturalmente, c'era in più il particolare che a una mentalità di oggi sembra inconcepibile: che si prestavano a uccidere e a essere uccisi. Ma nell'antica Roma c'erano anche altri divi dello spettacolo la cui posizione sarebbe in teoria assimilabile a quella dei loro omologhi di oggi: i corridori sulle bighe, gli attori, i musicisti. E in Grecia, in effetti, era così. Ma a Roma coloro che traevano guadagno dall'esibizione del loro corpo erano considerati “infames”. Una condizione di cattiva reputazione riservata a persone che al tempo stesso avevano successo, un po' come succede oggi con le pornostar. Non c'era però solo un problema di immagine, ma ne veniva fuori una vera e propria minorazione giuridica. Tan'è che Cicerone per difendere un attore spiegò che lo faceva gratis.

“Quello Romano fu l’impero che ebbe la più grande codificazione dell'economia della schiavitù di tutta l’antichità”, ci ricorda Togna. “La schiavitù non era un fenomeno solo romano, ma l'unico popolo che riuscì a dare alla schiavitù una regolamentazione economica di dettaglio fu quella romana. Essendo pragmatici, i romani avvertivano questa tensione. Quando si trattava di trarne un guadagno, il diritto ammetteva anche un certo tipo di contrattazione tra la persona assoggettata all’altrui autorità e il lanista o il committente. Ma i Romani non vollero mai fare l’ulteriore passaggio che avrebbe portato al superamento della schiavitù, trasformando lo schiavo in lavoratore libero salariato”.

Non tutti i gladiatori erano schiavi. “C'erano uomini liberi che potevano combattere attraverso la locatio operarum. Ma era però propria di gladiatori che erano usciti dal circuito gladiatorio e si esibivano dunque solo in cambio di somme ingentissime”. Se no, i liberi potevano combattere dopo un giuramento, “auctoramentum”, che Togna definisce “terribile”: “Giuro di sopportare di essere bruciato, legato, frustato con le verghe e ucciso con la spada, e qualsiasi altra cosa ordinerai, anche contro la mia volontà”.

Così, appunto, gli auctorati diventavano “infames”. Per pagarli, fu inventata una anticipazione del leasing. Ma non facevano tale scelta solo gli aspiranti alla gloria nell'arena. Come ci ricorda Togna, “l’adulterio e il tradimento delle donne patrizie era punito in maniera severissima, addirittura con la confisca dei beni non solo dei genitori ma di tutta la gens, tranne che la donna non fosse infame. E come diventava infame? Diventava infame se portava in Senato una meretrice tenutaria di bordello la quale giurava che la donna si prostituisse nei bordelli”.

Insomma, siccome lo status comportava doveri, si arrivava al paradosso che alcuni ci rinunciavano per essere più liberi. Tant'è che a un certo punto il Senato intervenne per vietarlo. “Disse in pratica: ragazzi, mo’ basta, che qui i patrizi diventano tutti infami!”.

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