sulla letteratura

Il mestiere di scrivere nel riflesso del già detto e di romanzi tutti uguali

Sandra Petrignani

Nei romanzi che si scrivono oggi ci si ripiega sempre di più sul privato e, spesso, su un privato tragico al limite del tollerabile, quasi che si volesse sostituire la mancanza di un coinvolgimento oggettivo agli eventi esteriori con il dramma circoscritto di un fatto personale. La raccolta di saggi di Daniele Del Giudice

Leggendo la raccolta di saggi sparsi – alcuni inediti – di Daniele Del Giudice, raccolti adesso da Einaudi nel libro Del narrare, a cura di Enzo Rammairone, viene da pensare a quanto una volta si rifletteva sul mestiere di scrivere e quanto poco lo si faccia oggi. La generazione di Daniele, nato nel 1949, si era imposta in letteratura dopo varie dichiarazioni di morte dell’arte e dopo gli esperimenti suicidi della neoavanguardia al limite dell’illeggibilità. Per ritentare la via del romanzo, come hanno fatto, e con successo, i giovani narratori che hanno rioccupato la scena negli anni 80, bisognava cercarsi uno spazio in un clima di “tutto è stato già detto”, dove punti di riferimento riuscivano ancora a essere Italo Calvino, Luigi Malerba, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Giorgio Manganelli… ma dall’alto della loro finale unicità.

Del Giudice insiste in questi saggi sull’aspetto “finale” degli ultimi grandi scrittori di riferimento che la nostra generazione ha avuto l’opportunità di conoscere, e da cui ha cercato di imparare nell’assoluta consapevolezza, però, che non si poteva ricevere il testimone per iscriversi in una qualche continuità, ma che si veniva da una specie di terra bruciata e bisognava reinventarsi qualcosa, ognuno in una sua “zona” letteraria tutta da elaborare. Bisognava assolutamente trovare nuovi punti di riferimento, e nelle cose più che nelle persone, le nuove cose che apparivano nel mondo, modificando esteriorità e interiorità. Scrive Daniele che da “Pasolini, Fortini, Parise, Calvino, Sciascia” (altrove aggiungerà il nome di un’unica donna, Ingeborg Bachmann) “non potevi prendere nulla, non i temi, non le forme, ma avvertivi la radice di un’idea del fare che in loro era molto forte, e che non voleva dire semplicemente fare libri, come accade oggi”. Dopo di che aggiunge: “E’ così comica quest’ultima incarnazione dello scrittore a fine secolo a casetta a fare un libro dietro l’altro!” senza più “nessun sentimento di precarietà e di rischio nella propria impresa narrativa”.

Sono passati quasi 30 anni da queste parole e l’immagine di scrittori occupati solo a sfornare titoli uno via l’altro nella beata assenza di un dubbio, di un interrogarsi sul senso del proprio narrare, è tragicamente il pane quotidiano, e sempre più insipido. Forse, mi dico, fa parte della disperazione attuale in tutti i campi per il profondo nonsenso che avvertiamo e non solo nei confronti dell’arte, ma in generale nei confronti del cosiddetto vivere civile. Abbiamo dato per scontate la pace e la democrazia, per dire, e ci troviamo instabili e minacciati. Già nell’ormai lontanissimo 1992, in un altro saggio di questa raccolta (Gli oggetti, la letteratura, la memoria), Del Giudice riflette su come, per l’invasività dell’epoca dell’immagine, “l’essere spettatore sia una condizione emotiva senza movimento”. Partecipiamo cioè, attraverso le immagini dei media, a un numero incredibile di eventi, ma “nulla di ciò che vedi ti appartiene: se non, appunto, il vederlo, il semplice gesto del vedere. Dunque, che si tratti di una guerra o di una conversazione da salotto, quella ‘partecipazione’ non ti modifica in nulla, non è esperienza”.

Sarà per questo che nei romanzi che si scrivono oggi ci si ripiega sempre di più sul privato e, spesso, su un privato tragico al limite del tollerabile, quasi che si volesse sostituire la mancanza di un coinvolgimento oggettivo agli eventi esteriori con il dramma circoscritto di un fatto personale, l’unico che davvero ci tocca? “Uno dei grandi problemi della democrazia” riflette Daniele Del Giudice “è che questa forma di governo più di ogni altra esige da ciascuno di noi la massima qualità”. E vivendo in tempi di quantità, dobbiamo forse rassegnarci all’“impossibile qualità della quantità”?

Sono davvero tanti gli spunti di riflessione che si possono trovare in questi saggi. Ne pesco ancora uno, quando l’autore dice: “Un romanzo più è cinematografico, più fallisce come romanzo”. A me sembra ovvio, eppure siamo circondati da romanzi ‘cinematografici’ che “possono essere letti per capoversi come si fa nelle letture trasversali”. Qui mi viene un sorriso amaro. Come giurata di alcuni premi, sommersa dalla quantità assurda dei libri in gara, so bene che senza lettura trasversale non mi salverei, dovrei impiegare anni di vita per leggere ogni frase che vi è contenuta, e fallirei non dico la mia vita ma anche solo la data in cui la giuria è chiamata a decidere. Del resto non provo sensi di colpa, visto che in troppi di questi testi manca la pur minima ragion d’essere. Sono, a parte le eccezioni, libri che dicono tutti le stesse cose, senza sorpresa, senza pensiero, senza motivazione profonda, semplicemente con una certa abilità di scrittura e qualche ideuzza per apparire originali. Ma il punto è: “Io penso che la letteratura sia una forma di conoscenza, che dice le cose che altre forme di conoscenza non riescono a dire, come probabilmente ci sono delle cose che le altre riescono a dire e la letteratura no”.

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