il ritratto

Il cestino rosso di Narges Mohammadi, Nobel per la Pace 2023

Cecilia Sala

La voce che gli ayatollah non riescono a zittire. Oggi Mohammadi è riuscita a far trapelare un suo messaggio: “Non smetterò mai di lottare, il premio mi renderà ancora più determinata e spero che renda gli iraniani che protestano ancora più forti e organizzati”

Il coraggio e il puntiglio di Narges Mohammadi, per la Repubblica islamica dell’Iran, valgono trentuno anni di carcere e centocinquantaquattro frustate sulla schiena;   per il comitato di Oslo, valgono il premio Nobel per la Pace 2023. 
Narges Mohammadi lo ha scoperto con un po’ di ritardo, il tempo che ci mettono le notizie importanti, passando di bocca in bocca, ad arrivare nella sua cella stretta che ha una piccola finestra da cui si vedono le montagne.

Mohammadi ha cinquantuno anni, è un’ingegnera e una scrittrice, ha inventato alcuni dei motti della protesta che abbiamo sentito risuonare nelle strade e nelle scuole di Teheran nell’ultimo anno. Dal 2021, quando è stata arrestata un’altra volta per “propaganda contro lo stato”, ogni mattina si sveglia nel nord della capitale dentro il carcere di Evin, che è pieno di dissidenti come lei. Il Comitato del premio Nobel ha detto di averla scelta “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran” e quindi “per la libertà di tutti”. I giornalisti hanno chiesto come farà Mohammadi a ricevere la medaglia d’oro con inciso sopra il profilo di Alfred Nobel e poi l’assegno da novecentomila euro a dicembre, quando è prevista la consegna dei premi. La presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen ha risposto che basterebbe che il governo iraniano “facesse la cosa giusta”, cioè rilasciasse Mohammadi assieme a tutti gli altri prigionieri politici. 

Soltanto nell’ultimo anno di proteste cominciate dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia religiosa, secondo i dati delle Nazioni Unite sono stati arrestati ventimila manifestanti. Poi Reiss-Andersen ha spiegato che il riconoscimento è “per un intero movimento”, per una lotta più grande di quella che può portare avanti una donna sola, ma che è stato naturale assegnarlo “alla leader indiscussa” di questa resistenza civile iraniana. Alla fine la presidente si è rivolta agli ayatollah di Teheran e ha detto: “Ascoltate il vostro popolo” e, in  farsi, “jin, jiyan, azadi” (donn, vita, libertà).    

La forza – e anche la furbizia che serve a sopravvivere – di Narges Mohammadi sono una frustrazione per il regime che, ormai da decenni, non riesce ad azzittirla neanche chiudendola in una cella. Anche ieri, Mohammadi è riuscita a far trapelare un suo messaggio dal carcere: “Non smetterò mai di lottare per la democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Il premio mi renderà ancora più determinata, fiduciosa ed entusiasta in questo percorso. Al fianco delle madri dell’Iran, continuerò a battermi contro la discriminazione di genere sistematica fino alla liberazione delle donne. Spero anche che questo riconoscimento renda gli iraniani che protestano ancora più forti e ancora più organizzati”.

Non è la prima volta che Mohammadi riesce a mettersi in contatto con l’esterno e, in particolare, con Farnaz Fassihi del New York Times. A giugno aveva spiegato al quotidiano americano che portare avanti una lotta instancabile e vivere in pochi metri quadrati, con poca luce, è tutto sommato semplice: se sei già stata disposta a rinunciare alla tua carriera, alla tua salute e alla tua famiglia. Quel giorno era passato più di un anno dall’ultima volta che Mohammadi aveva potuto sentire la voce dei suoi due gemelli sedicenni, che vivono in esilio a Parigi  con il padre Taghi Rahmani.

Quando aveva nove anni, la madre pregò Narges di non occuparsi mai di politica. Ma Narges la guardava riempire sempre un cestino rosso di plastica con la frutta da portare ai parenti dissidenti in carcere, e poi la guardava mentre si posizionava ogni sera alla stessa ora davanti al televisore per scoprire quali fossero i nomi dei “giustiziati del giorno” tra i prigionieri politici, per sapere se ci fosse qualche amico oppure un cugino o uno zio. Narges, guardando la madre, si era riempita di rabbia, non di paura, e aveva deciso che avrebbe fatto l’opposto di ciò che lei le aveva consigliato, anzi implorato, di fare. Narges Mohammadi ha sposato un dissidente come lei, anche Rahmani ha passato quattordici anni della sua vita in un carcere iraniano. Poi un giorno la coppia ha deciso di dividersi i compiti: lui al sicuro a crescere i figli; lei senza protezioni in Iran per provare a cambiare tutto, guardando le montagne oltre le sbarre e studiando le prossime mosse.
 

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