A Hollywood gli sceneggiatori vincono, gli attori lottano e l'IA perde (per ora)

Mariarosa Mancuso

Gli sceneggiatori in sciopero da 146 giorni avranno quasi tutto quel che chiedevano. I talk ricominciano, ma tutto il resto è ancora fermo

Alla fine dello sciopero manca un passo, parlando di sceneggiatori. Sono 11 mila, i meno fortunati hanno tirato avanti dando fondo ai risparmi. Ricordate la writer’s room di Tina Fey in “30 Rock”? A parte il nero con maglioni a rombi ballantyne non avevano l’aria di passarsela benissimo, e volentieri saccheggiavano le merendine fornite dalla Nbc. C’è un “tentative deal”, un nuovo contratto da votare. Potrebbe far ripartire subito qualche programma: per esempio i late show, che non hanno bisogno di attori per andare in onda.
   

Gli attori restano in sciopero. Gli iscritti al sindacato sono 150 mila (qualcuno, si dice, povero al punto da dormire in macchina). Oltre alle richieste degli sceneggiatori, chiedono il 2 per cento sul fatturato dei programmi in streaming. Richiesta respinta dai produttori cinematografici e televisivi: la considerano una follia tale da impedire l’inizio del negoziato.
     

Una volta firmato l’accordo, gli sceneggiatori in sciopero da 146 giorni avranno quasi tutto quel che chiedevano: compensi aumentati per i copioni destinati allo streaming (e quindi, a differenza di quanto accadeva con i film, circolano fin da subito in molti paesi, visti da moltissimi spettatori). Gli studi hanno inoltre concesso e garantito un numero minimo di sceneggiatori per le writer’s room degli show televisivi – negli Stati Uniti più interessati e brillanti dei nostri, perché hanno fior di scrittori addetti ai copioni. 
     

Quanto alla temutissima intelligenza artificiale, gli sceneggiatori hanno ottenuto le garanzie che volevano: le nuove tecnologie non devono interferire con i crediti  (nel senso del copyright) e con i conseguenti onorari. La clausola è stata inserita all’ultimo, con una certa fatica, per impedire che i produttori prendano i vecchi copioni in loro possesso e diano una rinfrescatina “informatica”.
     

“Possiamo dire con orgoglio che l’accordo raggiunto porterà significativi vantaggi economici e garanzie per il lavoro di tutti gli associati”, scrivono i negoziatori della Writers Guild in una mail mandata ai membri del sindacato. I produttori, tv e film, sono meno entusiasti. Ma prima o poi, la rivoluzione dello streaming, accelerata dalla pandemia richiedeva aggiustamenti. Un conto è girare un film, distribuirlo nei cinema americani e poi venderlo nei vari paesi. Un conto è venderlo in blocco a una piattaforma, che oltre a distribuire produce anche in proprio.
     

Restano gli attori. In sciopero dal 14 luglio scorso, senza neppure un giorno già fissato per riprendere i negoziati (quel 2 per cento sui ricavi è un macigno). Merito di Fran Drescher, combattiva negoziatrice. Gli spettatori degli anni 90 la ricordano nella serie “La tata” (ebrea polacca dell’originale, per gli italiani diventò Francesca Cacace da Frosinone, entrambe dotate di famiglie chiassose).
     

La posta in gioco era – e rimane, senza attori vanno in onda solo talk-show) – notevole, per gli studi sono scesi in campo i pezzi grossi: da Bob Iger della Disney a Ted Sarandos di Netflix, dal capo della Warner Bros a quello della NbcUniversal. A spingere per l’accordo, alcuni sceneggiatori di prima categoria (parliamo anche di retribuzione): Ryan Murphy e Noah Hawley di “Fargo”. Il primo aveva cercato di aiutare i lavoratori dei suoi programmi, cominciando con 500 mila dollari – dopo qualche giorno aveva richieste per 10 milioni, e si calcola che 45 milioni siano stati ritirati dai fondi pensione. Anche i grossi studi hanno le loro perdite, le stagioni quest’anno sono state ridotte e complessivamente sono andati perduti oltre un miliardo e seicentomila biglietti. Tra cui anche i nostri, tristi spettatori ridotti a vedere film italiani con lo sconto.