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apocalisse bye bye

Prima di "Matrix" era "Neuromante". Intervista a Tommaso Pincio sull'IA e la fine del mondo

Nicola Contarini

Lo scrittore ha tradotto il romanzo di William Gibson che inaugurò il genere cyberpunk. "La Matrice? una 'allucinazione consensuale'. Se pensiamo a quanto spesso siamo chiamati a dare il nostro consenso navigando in rete, capiamo l'attualità di questo libro"

Pillola rossa o pillola blu? Era questa l’alternativa che si offriva a Neo, il protagonista del film Matrix all’inizio del nuovo millennio: blu significava dimenticarsi del turbinio di eventi che lo avevano condotto sull’orlo della follia e tornare a vivere la sua grigia vita di impiegato; rossa significava “entrare nella tana del Bianconiglio”, ovvero scoprire la verità sul mondo così come appare: una gigantesca illusione generata al computer e proiettata nelle menti degli esseri umani, tenuti in schiavitù dalle macchine. Forse non sembra, ma ne è passato di tempo da quando quel film era un esempio di come raccontiamo il nostro rapporto con la tecnologia. In un’intervista recente Keanu Reeves, l’attore protagonista di Matrix, ha riferito di una conversazione avuta con degli adolescenti che non avevano mai visto il film. Lui gli ha spiegato la trama, e di come il suo personaggio si battesse per liberare il reale dal virtuale. I ragazzi hanno risposto: “Perché?”. “Come perché? A te non importerebbe sapere se il mondo è reale?”. La risposta: un no secco. “E’ un segno di come certe questioni appartengano ormai al passato e lo si può capire”, dice Tommaso Pincio, scrittore e traduttore di fantascienza. “Nella vita odierna, virtuale e reale sono talmente compenetrati che non ha più senso scinderli e vederli come dimensioni contrapposte. Il virtuale è un prolungamento, un’estensione di ciò che chiamiamo reale, anzi di ciò che siamo diventati”.

Potrebbe essere una catastrofe per la creatività fantascientifica, che per un bel pezzo del secolo scorso si è appoggiata su un giudizio vecchio quanto la filosofia occidentale e pure orientale: la realtà non è ciò che appare. Quel genere non sembra godere di ottima salute, e quanto tempo sia passato da Matrix lo misuriamo con la reazione principale all’uscita di ChatGPT: “Ci ruba il lavoro” (ma come, non erano gli immigrati?). Compare una tecnologia che sembra poter pensare al posto nostro, ed è tutta qui la nostra preoccupazione? Possibile che la realtà si sia fatta così invadente nei confronti dell’immaginazione, al punto da rendere impossibile la paranoia suprema, quella di vivere in un gigantesco inganno, che da Platone a Cartesio a Philip K. Dick aveva stimolato le più profonde riflessioni sulla natura dell’uomo e del pensiero?

La conversazione dell’attore Keanu Reeves con degli adolescenti: “A te non importerebbe sapere se il mondo è reale o virtuale?”. “No”

Matrix non si era inventato il concetto di “Matrice”, l’input che si proietta nelle menti degli uomini e genera l’illusione del mondo esterno. Questo “oggetto” era comparso in un libro del 1984 scritto da William Gibson, diventato la chiave di volta del genere cosiddetto cyberpunk: il romanzo si intitolava Neuromante e Mondadori lo ripubblica oggi nella traduzione di Tommaso Pincio. “Nel romanzo di Gibson si va anche nello spazio, come succedeva nella fantascienza classica”, dice Pincio, “ma il luogo in cui avvengono le cose è interno e immateriale, la Matrice, la rete informatica globale che lo scrittore definisce una ‘allucinazione consensuale’. Se pensiamo a quante volte al giorno siamo chiamati oggi a dare il nostro consenso navigando in rete abbiamo una dimostrazione immediata di quanto questo libro seguiti a parlarci. Sottolineo la dimensione interiore e immateriale della Matrice perché un altro elemento di novità consiste proprio nel fatto che la questione della realtà quale semplice apparenza viene superata e sublimata con il consenso. La realtà non è più un dilemma di ordine filosofico. Non si tratta più di stabilire se viviamo in un mondo vero o in un grande inganno. La Matrice di Gibson è più avanti di Matrix, malgrado il romanzo preceda il film di parecchi anni”.

Un libro profetico. “Ma pensare che l’importanza di certi libri risieda nelle loro qualità profetiche è un’idea banale, è evidente che se un testo persiste nei decenni è perché non si limita a predire il futuro. Case, il protagonista del romanzo, è un cowboy del cyberspazio ovvero quello che oggi chiunque chiamerebbe un hacker. All’epoca però quel termine circolava tra gli studenti del Massachusetts Institute of Technology e le persone molto informate dei fatti, ma non era certamente di uso comune. William Gibson sapeva quel che bolliva nelle cucine in cui si preparava il futuro, ma nell’immaginare un universo narrativo di quel mondo a venire è ricorso a modelli del passato. All’inizio del romanzo, Case ci viene descritto come un giovane spiantato che ha pestato i piedi alle persone sbagliate e per questo si ritrova a vivere con un cervello ridotto in poltiglia in un albergo bara in Giappone. Lo vediamo aggirarsi in locali fumosi, in un sottobosco popolato di loschi figuri e gente che si arrabatta. Sembra un mondo buio, sporco e cadente, in bilico tra il Pasto nudo di Burroughs e gli hard-boiled degli anni 40. Questo futuro consunto, entropico, diventato rovina prima ancora di manifestarsi, non è un’invenzione di Gibson. Era stato già immaginato da Philip K. Dick e aveva trovato la sua traduzione visiva in Blade Runner. La novità di Neuromante consiste nell’avere dato una dimensione interiore a questo futuro consunto”.

“La Matrice in ‘Neuromante’ è definita da William Gibson una ‘allucinazione consensuale’. Ecco perché il libro ci parla ancora oggi”

Ecco, se la paranoia di vivere un’illusione generata al computer non sembra agitarci più di tanto, il futuro invece ci preoccupa parecchio. Al punto di soffrire di “ecoansia”. Questo è un altro aspetto per il quale la realtà ha finito per colonizzare l’immaginazione: l’apocalisse non è più un evento metafisico, al limite del possibile, ma diventa quasi “probabile”. Ne abbiamo avuto un assaggio con la pandemia e ora siamo bombardati quotidianamente dalle notizie sul cambiamento climatico. E come si fa ad immaginare qualcosa che di fatto è già diventata cronaca? Al limite si può lavorare sul “dopo”, di qui il genere post-apocalittico che spopola in tv e anche in libreria. Esiste almeno un paio di casi di personaggi italiani dello spettacolo che, al loro esordio nella narrativa, si sono dati al romanzo post-apocalittico. Ora, il punto non è criticare le mode (che pure ha un senso), quanto piuttosto verificare che l’immaginazione fantascientifica, invece che provare a fornire alternative e aprire spiragli di possibilità, si sta limitando a registrare il dato di fatto e produrre variazioni sul tema. A volte con risultati estetici spettacolari, certo, da Mad Max: Fury Road al proliferare di prodotti a tema zombie di buona fattura. Ciò che manca è l’elemento speculativo necessariamente legato a un “fantasticare” libero dalle pastoie della cronaca. O no? “Per molti versi l’apocalisse fantascientificamente intesa è un fantasma del passato”, dice Pincio, “un’espressione terminale del modernismo chiusosi in maniera forse definitiva con l’esperienza traumatica della pandemia. Questo non vuol dire che l’apocalisse non rientri più tra gli eventi possibili, ma che il suo eventuale arrivo si prefigura ormai come una mutazione progressiva e non più come un disastro improvviso e immane. Il mondo sta già finendo in realtà, poco a poco, in maniera diffusa e pulviscolare”. Eppure, per Pincio, la narrazione che viene portata avanti allontana l’apocalisse invece che avvicinarcela: “E’ una fine che percepiamo in termini più che altro astratti e razionali. Manca il grande evento che determini l’annientamento dell’umanità. Quel che voglio dire è che viviamo un tempo di finta apocalisse o, se vogliamo, di nuova apocalisse. L’apocalisse di un tempo prevedeva infatti che la fine fosse repentina mentre oggi assistiamo e partecipiamo a un lento deterioramento che porterà probabilmente non alla fine del mondo e nemmeno alla scomparsa dell’uomo ma a una mutazione o meglio a un peggioramento sostanziale della qualità della vita e soprattutto a una crescita esponenziale delle diseguaglianze”.

“L’apocalisse fantascientificamente intesa è un fantasma del passato. Il mondo sta già finendo poco a poco, in maniera pulviscolare”

A proposito di disuguaglianze, c’è un altro ostacolo che la fine del mondo pone al vecchio modo di raccontare il futuro. Il dilemma della percezione della realtà si presentava innanzitutto alla coscienza del singolo. Con ampi risvolti collettivi, ma al centro di tutto c’era l’io. Così i romanzi di Dick si configurano come la prosecuzione del mito della caverna con altri mezzi, laddove gli “altri mezzi” sono lo sviluppo tecnologico e scientifico del Novecento. Ma la fine del mondo riguarda tutti nello stesso modo al punto da ridurre l’io a comparsa. Un terreno immensamente più difficile per coltivarci un romanzo. “L’apocalisse di un tempo era un’eventualità che piombava dall’alto. Si riteneva che i destini dell’umanità erano nelle mani dell’ignoto o al più di chi era nella posizione di premere il pulsante sbagliato, quello della bomba. Il singolo individuo era inerme. Poteva al più protestare, chiedere ai potenti di non fare follie, ma di fatto era deresponsabilizzato. Oggi questo schema non regge più: tutti noi, con le nostre azioni e abitudini, contribuiamo alla distruzione degli equilibri ambientali. L’ansia nasce da questo: siamo tutti responsabili e la soluzione del problema comporterebbe rinunce che non siamo disposti a fare. Scenari come quelli della serie The Last of Us mi sembrano francamente ormai fuori dal tempo, pura evasione che non tocca il cuore del problema e ne favorisce anzi la rimozione. Abbiamo trovato negli zombie il sostituto ideale della bomba, ma il futuro che dobbiamo davvero temere lo abbiamo già vissuto durante la pandemia, ed è un futuro grigio, fatto di restrizioni e confinamenti che verranno forse imposti con la forza anonima dell’economia anziché con leggi degli stati, ma comunque imposti. Se abbiamo rimosso con tanta velocità quel periodo è anche perché sappiamo che in quei mesi abbiamo vissuto un’anteprima di futuro e non ci è piaciuto”.

“Non è un caso che ‘Neuromante’ uscì nel 1984, l’anno della distopia di Orwell e del lancio sul mercato del primo computer di Steve Jobs”

E allora se la narrativa intorno a noi non ci aiuta a scardinare il presente e immaginare il futuro, non restano che massicce iniezioni di passato, per quanto lontano possa apparire il 1984 in cui esce Neuromante“Non è forse un caso che abbia visto le stampe proprio nell’anno in cui George Orwell ha ambientato la sua visione distopica”, conclude Pincio, “è un romanzo seminale la cui importanza ed effetti sono paragonabili a Millenovecentottantaquattro. Sempre nel 1984, per l’esattezza il 24 gennaio di quell’anno, Steve Jobs lanciò sul mercato il primo computer con interfaccia grafica, icone, finestre e menù a tendina. Lo fece con uno slogan fatalmente ispirato al romanzo di Orwell e uno spot di 60 secondi girato da Ridley Scott, che solo due anni prima aveva portato nelle sale Blade Runner. Non sono semplici coincidenze ma il segno che qualcosa stava cambiando. La rivoluzione copernicana in cui oggi viviamo – perché questo è l’irruzione della rete nelle nostre esistenze, una rivoluzione di portata copernicana – è cominciata allora. Jobs era un visionario convinto di poter cambiare il mondo e di fatto lo ha cambiato. Ma anche William Gibson è stato un visionario. Ha percepito che era in corso una mutazione e ha preconizzato ciò che ci attendeva e che, in una certa misura, ancora ci attende”.