(foto di Moises Gonzalez su Unsplash)

(1932-2023)

Con Alain Besançon se ne va un grande lettore delle nostre tragedie

Marina Valensise

L'Europa perde uno degli interpreti più lucidi del comunismo: nessuno come lui sapeva spiegare il despotismo russo iscrivendo l’aberrazione di Vladimir Putin nel solco sanguinario della storia del paese. La chiusura del cerchio da storico della Chiesa post conciliare

Se ne va anche Alain Besançon e l’Europa perde uno degli interpreti più lucidi del comunismo, della Russia e del totalitarismo nelle sue forme più subdole. Profondo studioso delle origini intellettuali del leninismo, del comunismo sovietico e delle tracce indelebili della tradizione autocratica zarista, nessuno meglio di lui sapeva spiegare il despotismo russo iscrivendo l’aberrazione di Vladimir Putin nel solco sanguinario della storia russa, quando i principi della Moscovia pur di non rinunciare alla ferocia a regnare col terrore erano capaci di eliminare i propri eredi anche se erano i loro stessi figli. 

Nato da una famiglia della ricca borghesia meridionale, padre dentista dotato di florida impresa farmaceutica, Alain Besançon era stato comunista dal 1951 fino al 1956, quando decise di uscire dal Pcf, come François Furet, Annie Kriegel, Emmanuel Le Roy Ladurie,  all’indomani della repressione sovietica della rivolta operaia di Budapest in Ungheria. Da allora, quasi per espiare la colpa giovanile, si era dedicato animo e corpo alla storia del comunismo e della Russia sovietica. Nel 1977 aveva pubblicato un saggio che ancora si legge come un classico della storiografia del Novecento, “Le origini intellettuali del leninismo”,  per spiegare la natura religiosa dell’ideologia comunista, una religione secolare che aveva sedotto le coscienze  europee, in nome di un’aspirazione universale da realizzare in terra, a qualsiasi costo, e che proprio per questo era da considerare l’ultima eresia manichea del cristianesimo, che spezzava il mondo in due fronti contrapposti, quello del Bene incarnato dal proletariato con il clero rivoluzionario degli intellettuali alla guida del Partito, e il fronte del Male, rappresentato dalla borghesia, dal capitalismo, dall’idra del liberalismo. “Spero che tutto il tempo che ho passato a studiare e analizzare la storia russa e il comunismo sovietico, mi sarà abbonato come penitenza”, dichiarava Besançon sgranando i suoi occhi azzurri con bonaria ironia, e sorvolando sulle delusioni e i molti smacchi subiti dopo aver voltato le spalle alla sinistra progressista per finire anche lui, come Raymond Aron prima di lui, in quel  territorio dell’ubiquità, alla destra della sinistra e a sinistra della destra, che solo permette a chi lo pratica di esercitare in pieno la libertà delle idee. 

 

E così senza badare a spese, e senza cercare sconti, alla fine degli anni Novanta, s’era potuto lanciare sulla strada del comparatismo tra totalitarismi, che ancora oggi e non parliamo di trent’anni fa, viene considerato un tabù. E s’era divertito a sfidare con maestria  pregiudizi e luoghi comuni, non solo per dimostrare l’equipollenza di quei due fenomeni politici, già illustrata da Hannah Arendt, ma per spiegare la superiore perversione del comunismo rispetto al nazismo, nell’invocare lo spirito di bontà e di giustizia onde  suffragare il male e realizzarlo in forza di un ideale superiore. “Ogni esperienza comunista ricomincia nell’innocenza”.  E si capisce allora come mai un essere dotato di una mente tanto libera e curiosa, e animato da una sorta di umanesimo cristiano sorgivo, espressione in lui di una fede religiosa profonda ma anche dello spirito anticonformista  da minoranza culturale, tipico dei cattolici praticanti in un paese decristianizzato dalla Rivoluzione come la Francia, e votato alla laicità, abbia investito la seconda parte della sua  vita  intellettuale a studiare la tradizione dell’iconoclastia, in un saggio magistrale dove la conoscenza teologica permette di capire la storia dell’arte moderna attraverso la nascita del costruttivismo e dell’astrattismo, e quindi a  interessarsi sempre di più alla storia della Chiesa di Roma e alla sua attualità politica. Come se avesse voluto chiudere un cerchio, e tornare all’origine, lo storico del leninismo si è scoperto studioso della Chiesa post conciliare, frequentatore degli incontri di Papa Wojtyla a Castel Gandolfo,  interprete appassionato della rivoluzione teologica di Joseph Ratzinger e infine critico della deriva moralistica di Papa Bergoglio e del suo “pontificato sociale”.

 

Un altro indice della perfetta libertà di pensiero e della profondità di interessi nello storico contemporaneo, e  il segno manifesto della vitalità instancabile dell’uomo, l’uomo affabile, curioso, aperto all’altro, pronto all’ascolto, alla discussione, al confronto; l’uomo capace di sorridere e ridere di sé, quando raccontava l’amore magnetico per la sua Marie, la moglie pittrice nata ebrea russa  e convertita al cristianesimo, che gli dato sei figli, e poi l’amico sornione, fedele, sempre attento a discernere e valutare, a considerare e premiare. Un altro grande che se ne va e fino all’ultimo, senza sconti o scorciatoie, ma con estrema umiltà, ci ha aiutato a capire le ragioni della storia, leggendo le tragedie del presente nella loro quintessenziale verità.

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