“Rusalka” di Antonin Dvorak, per la regia di Emma Dante, sarà alla Scala di Milano dal 6 al 22 giugno (foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala) 

Leggende Moderne

Alla Scala di Milano riecco le sirene. Il mito perfetto per la fluidità di oggi

Fabiana Giacomotti

Andersen e Disney, Tomasi di Lampedusa e “Rusalka”, Rowling e Caesar. Emma Dante porta a teatro la convivenza millenaria con la rappresentazione dell’incertezza di cui non ci siamo mai resi conto fino in fondo

Prima di incontrare Emma Dante che dal 6 giugno firma il debutto di “Rusalka” di Antonin Dvorak al Teatro alla Scala – chi avrebbe detto che in centoventidue anni dalla sua prima esecuzione nessuno abbia mai pensato a quella parabola sulla volubilità della condizione femminile nella città che conta più associazioni a difesa delle donne – sono andata a cercare dati congiunturali sull’occupazione femminile nel 1993 negli Stati Uniti. Le due cose non sembrano conseguenti, per cui ecco la spiegazione. Il 1993 è l’anno di uscita della “Sirenetta” disneyana che a Dvorak deve molto, e di “Boxing Helena”, film d’esordio di Jennifer Lynch, figlia di David, uno di quei viaggi allucinati nella psiche umana in cui la famiglia si è specializzata e che in questo caso erano alla base di un sogno perverso di mutilazione che si ritrova abbastanza spesso nella letteratura e nella pornografia underground. Raccontava di una manager volitiva che, per amore, accettava di farsi mutilare un arto dopo l’altro dal fidanzato geloso e possessivo al punto di volerla far vivere in una scatola. “Casa di bambola” agli estremi, insomma. Dopo la fine delle riprese, Sherilyn Fenn, attrice feticcio di papà Lynch che ne aveva fatto la seduttrice dell’imperdibile serial di quegli anni, “Twin Peaks”, disse ai giornalisti che nonostante gli effetti speciali e tutte le rassicurazioni, starsene in una scatola fingendo di non avere più le gambe e le braccia era stato davvero disturbante. Il film era orribile, ormai non viene trasmesso neanche dalle reti di quarta categoria alle tre del mattino e a ragione, nessuno sano di mente lo rivedrebbe. 

Il punto è però un altro, ed è che nello stesso anno in cui l’occupazione femminile negli Stati Uniti, ma anche in Europa, faceva un balzo in avanti, riducendo il gap di genere di circa cinque punti, il cinema popolare riteneva corretto proporre due tipi di donna che rinunciavano a camminare e a dire la loro per amore di un uomo. Va anche detto che gli Stati Uniti hanno un rapporto con le sirene completamente diverso da quello europeo che le fa sempre oggetto di confronti simbolici e ritiene comunque di aver superato il tema con il Decadentismo, l’Italia in particolare con quell’ultimo, meraviglioso racconto sul rapporto fra il maschio e la seduzione dell’elemento femminile, lunare e acquatico che è “La sirena” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (il nome della sirena, Lighea, venne scelto dalla moglie, che era evidentemente l’alter ego e anche il baluardo affettivo per quel marito timido e incerto contro le delusioni che gli riservavano gli editori). 

Oltreoceano le sirene sono infatti un business da mezzo miliardo di dollari a cui è appena stato dedicato un documentario in cinque puntate, “Merpeople”. Netflix l’ha reso disponibile pochi giorni fa, lo produce la stessa Angela Almeida di “Queer eye”, racconta di un mondo parallelo in cui si mescolano problemi di identità, competizione e code sartoriali che possono costare fino a ventimila dollari e che si indossano tenendo un peso fra le gambe per evitare di tornare a galla. Il centro di tutte queste attività è una fonte d’acqua dolce della Florida, Wichee Wachee Springs, dove il business va avanti dagli anni Cinquanta di Esther Williams, benché da questa parte dell’Oceano Atlantico la cosa fosse bellamente ignorata fino all’altro ieri e quando la si cita provochi immancabilmente uno scoppio di risa sapute. In realtà, quel parco acquatico di risulta, con la “baia dei bucanieri” e tutto l’armamentario kitsch che ci si aspetta, racconta del valore delle sirene nel mondo moderno più di quanto facciamo noi che in genere crediamo che Rusalka sia il nome della protagonista dell’opera, e non di una specie mitologica. In inglese, per dire, già il lessico è più ricco: ci sono le “siren” della classicità, alate, orribili, ma dal canto dolcissimo e incantatore, e le “mermaid” con la coda di pesce che vivono nelle acque, e come loro possono essere cristalline o torbide, buone o cattive. E poi, business a parte che comunque è un dato significativo, risulta evidente leggendo qua e là e seguendo il serial, che la sirena di gomma e squame di plastica dipinta della cultura americana di oggi condivida più di un punto con quella delle mitologie di un tempo – Europa, Asia o Africa in realtà attorno a questa figura si confondono e si replicano – e cioè che la sirena rappresenti un modello di confronto e un supporto psicologico-terapeutico a questioni altre e di cui quelle identitarie sono appunto e in assoluto le più importanti. La verità è che conviviamo da millenni con la rappresentazione della fluidità e dell’incertezza sulla nostra persona e non ce ne siamo mai resi conto fino in fondo, diciamo che abbiamo spostato il problema trasferendolo in un feticcio. “Ti desidero come fossi una splendida fanciulla della Calabria… i miei sentimenti sono quelli di una donna”, scriveva Hans Christian Andersen a Edvard Collin, l’amico di cui era innamorato e che, sposandosi, gli spezzò il cuore. Nasce da lì la sua sirenetta, una rusalka presa direttamente dalla tradizione della mitologia slava insieme con la babayaga, la mostruosa vecchietta delle iniziazioni femminili con cui la ragazza-pesce stringe il patto per conquistare il principe e che le offre gambe umane in cambio della voce. Non ci vuole un grande psicologo per capire il senso del mutismo che lo scrittore inflisse a lei come l’aveva inflitto a se stesso in un’epoca potentemente ostile all’omosessualità, e dopotutto non è un caso che tutte le tradizioni culturali del mondo, da occidente a oriente, includano il mito della donna-pesce, liquida e cangiante, attribuendole di volta in volta caratteristiche, qualità o difetti diversi, ma tutti attinenti al rapporto dell’uomo con se stesso. 

Qualche settimana fa, per le edizioni NPE è uscito un libro illustrato per adulti che esamina l’infinita genealogia delle sirene, identificandone fra l’altro un numero poderoso fra Napoli (Partenope, dopotutto) Capri e Reggio Calabria (forse anche il parallelismo di Andersen si basava su un confronto e una cultura diretta). Scrivono le autrici, Fabiana Bocchi e Serena Quarello, che la “sirena sia attratta dalla terra almeno quanto gli umani dal mare e per quella ‘canoscenza’ che Dante Alighieri attribuisce come virtù umana e che forse solo Ulisse poté sfiorare senza appropriarsene davvero”. La “canoscenza” profonda delle cose del mondo, ci viene detto da sempre, è estremamente pericolosa, tende ad essere violentemente sanzionata, di solito con la morte o con una qualche tortura eterna e orribile. Che Dante abbia voluto fare della sua rusalka una medusa è, in un certo senso, un’estremizzazione del concetto: “Sono animali marini estremamente affascinanti, forse i più belli. Belli, mutevoli nella loro trasparenza, pronti a confonderti, e in buona parte velenosi, pericolosi. Rusalka possiede questa bellezza assoluta, purissima, unita però al senso di pericolo, al senso di smarrimento che provoca la sua capacità metamorfica. Possiede la capacità di nascondersi, di essere acqua quando deve essere acqua e terra quando deve essere terra”. 

Mentre aspettavo nella platea del Piermarini che Dante finisse con le prove e intanto osservavo Rusalka aggirarsi per la scena con la fatica e il passo incerto di una che si è ritrovata all’improvviso un paio di piedi dopo che le hanno strappato tutti i tentacoli in scena e anche se si tratta di rotoli di stoffa rosa imbottita risulta lo stesso un po’ cruenta (la regista dice di essersi ispirata al dipinto di un pittore che ammira, Ray Caesar, sono andata a cercarlo e in effetti la replica è perfetta, slitta compresa che nella messinscena è stata trasformata nella carrozzina di un disabile), mi sono domandata chi fossero le rusalka di oggi. “Esistono ancora le donne disposte a tutto per amore, che rinunciano a se stesse non necessariamente per un uomo, ma per l’amore stesso”, per la carica e l’eccitazione di un sentimento. “Gli amori sono sempre difficili, e Rusalka non si abbatte, non si ferma, non si scoraggia. Decide che vuole andare incontro a questo amore, è volitiva e sicura, e per questo trovo che sia un personaggio positivo, da emulare. Io credo molto nell’amore, nella sua forza di cambiare la realtà e il mondo”. Per arrivarci, e tutte le storie del mondo sulle sirene sono lì a testimoniarlo, bisogna dire che il passaggio iniziatico risulta un po’ lungo, faticoso e, nuovamente, cruento, ma d’altronde è solo la nostra epoca e la nostra cultura che ha abolito i riti di iniziazione e li ha trasformati in giochi di ruolo da praticare da soli nel chiuso della stanzetta o a rischio della vita come in quella catena di prove morte che per qualche anno è passata sugli smartphone dei ragazzini sotto il nome di Blue Whale. 

Gli esseri, ma in particolare gli esseri di sesso femminile che Dante porta in scena con Dvorak, conoscono il gioco della vita al punto di mostrare se stesse dall’interno. Le viscere, i muscoli, il cuore affiorano sulle superfici di corsetti e bustini, in una forma di abbigliamento rigida, di costrizione e contenzione, che la regista e la sua costumista di riferimento, Vanessa Sannino, aveva già esplorato nei “Dialoghi delle carmelitane” di Francis Poulenc all’Opera di Roma lo scorso dicembre. Vedendo quelle candide cerve trafitte avevo pensato a Leonor Fini, a Petrarca e a Borges. Dante dice invece di aver guardato ancora a Caesar, che è poi comunque post-Surrealismo. La candida cerva è un topos che ci portiamo dietro da un tempo lungo almeno quanto quello delle sirene, perfino la Rowling l’ha trasformata nell’alter ego mitologico della mamma di Harry Potter uccisa da Voldemort. “Sono animali feriti, già squartati, come nell’opera di Caesar con la sua estetica fiabesca ma disturbante. Le nostre cerve hanno corna fasciate, le interiora esposte, sono già state predate dai cacciatori”, ferite dal confronto con la crudeltà della realtà come è “ferita Rusalka negli arti”. 

Non esiste, oggi, un equivalente della sirena, dice, però è singolare che continui ad affascinarci. E’ uno iato, una sospensione della realtà, un richiamo, talvolta uno specchio (chi-sono-io), lungo il percorso, il viaggio dell’esistenza: “la sirena è un personaggio irreale che ci affascina, perché sappiamo che nel nostro viaggio non dobbiamo mai fermarci, chi si ferma è morto, e che questo viaggio comporta delle rinunce”. Rusalka rinuncia alla propria voce, accetta una trasformazione brutale pur di seguire il proprio sogno, e questo sogno ha un costo altissimo, esiziale. I costumi disegnati da Sannino e realizzati dal laboratorio interno del teatro, dove ha studiato e che, dice, per lei rappresentano sempre un momento prezioso di crescita, esemplificano questo percorso e lo rendono intellegibile anche alla quasi totalità del pubblico che non comprende la lingua ceca. La Jezibaba è vestita con i colori e le forme della Regina di Cuori dell’Alice disneyana, le cerve sono un elemento che, anche ad aver frequentato male il liceo, chiunque da questa parte dell’Atlantico conosce, il guardiacaccia con gli artigli non ha bisogno di spiegazioni. E ‘ una messinscena che gli americani definirebbero “politically charged”, densa di significati politici o, almeno, sociali. Eppure le forme, i colori, gli stili scelti, anche per quel coro che, e questa è la cosa meno riuscita e suona un po’ grottesca, ricorda da vicino i Teletubby, possiedono una funzione testuale e narrativa importante, e guidano lo spettatore lungo un percorso che, non volendo perdere l’azione e il rapimento procurato dalla musica passando il tempo a leggere la traduzione, non può che affidarsi alla simbologia dei costumi.

Di più su questi argomenti: