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L'immigrata geniale

Finalmente tradotto l'esordio di Inès Cagnati, figlia di espatriati

Cristina Marconi

"Les Pipistrelles", un dramma di miseria infantile in una condizione di estraneità rispetto al mondo. La via di fuga è in sella a una bici

La solitudine dello straniero non è cosa che si risolva con un passaporto. Quando i genitori di Inès Cagnati, immigrati veneti andati a coltivare una sassosa fetta dell’Aquitania nel primo dopoguerra, decisero di farla naturalizzare francese, per lei fu “una tragedia”, una brutale sottrazione di entrambe le identità. “Non ero più niente”, spiegherà più avanti a un intervistatore alle prese con il disperato tentativo di tirarle fuori un sorriso o almeno un po’ di vanità in una trasmissione televisiva nel 1989, anno del suo ultimo libro, una raccolta di racconti intitolata Les Pipistrelles in cui torna a quelle terre decisamente ingrate e a quell’infanzia che già di per sé è una condizione di estraneità rispetto al mondo. “Mio padre dice che i francesi sono degli stranieri che vivono a casa loro, mentre gli altri sono stranieri venuti da altrove, da molto lontano, e quando parlano li si capisce ancora meno”, scrive e spiega quando ormai ha avuto molti riconoscimenti – grandi premi, grandissimi editori – per le sue opere in francese. Ma niente, l’identità è refrattaria alla burocrazia, “sono naturalizzata francese, è molto diverso”, risponde, e quegli anni di esclusione e disprezzo restano a pesare, senza risentimento, ma con la forza incontrovertibile di quello che è accaduto, e ha lasciato una traccia. “Eravamo sporchi e mal vestiti, non parlavamo francese”. Una diversità che non passava inosservata, anzi: “A scuola maestri e allievi mi picchiavano perché ero diversa. Soffrivo e mi vergognavo. Colpevole di essere povera. Colpevole di essere altro”. 

Figlia di un sottoproletariato agricolo incapace di capire anche gli aspetti più elementari dell’insegnamento – i problemi di matematica vengono presi alla lettera, per passare un esame si pensa bene di regalare un’indisciplinata tacchinella viva, ci vuole un’altra bambina straniera per decodificare il mondo della scuola agli occhi della narratrice – la capacità di osservazione di Cagnati si forma soprattutto nella consuetudine con la natura e gli animali. “I miei unici momenti di tregua li passavo con le vacche a cui facevo da guardiana. Seduta sotto gli alberi, davo un nome a ogni filo d’erba. Volevo che tutti avessero il diritto di esistere, questo diritto che le anime ben nate mi sottraevano ogni giorno”. Un idillio agreste che fa da elemento di contrasto nella poetica della scrittrice, troppo complessa perché la rabbia e il senso di esclusione si trasformino in uno scontato desiderio di riscatto o di redenzione: l’infelicità dell’infanzia è qualcosa da cui non si guarisce e che si può guardare in faccia solo articolandola, restituendola attraverso delle immagini, tra cui quella centrale della madre. Ma di chi è figlia, una straniera? Cagnati è nata il 21 febbraio del 1937 a Monclar d’Agénais, nel dipartimento del Lot-e-Garonna, da Roger, originario di Refrontolo, Treviso, e Teresina da Vicenza, venuti a rimpolpare insieme ad altri le campagne francesi svuotate dalla guerra nell’ennesima ondata migratoria che fa urlare all’invasione e che porta il numero di “ritals” a 800 mila, suscitando tutta la xenofobia e la violenza del caso. Il libro più noto di Cagnati, Génie la matta, è dedicato a “Térésina Stédile, ma mère”, con uno struggente utilizzo degli accenti per accomodare il suo nome semplice in un’identità francese che non l’ha mai accolta. “Non si scrive che di sé stessi”, diceva, ed effettivamente l’opera della scrittrice potrebbe essere letta come un esempio aurorale di autofiction, visto il ricorrere di temi personali e la descrizione di un mondo di cui senza di lei sapremmo molto meno. “Con la mia testimonianza volevo rendere meno assurde certe vite fatte solo di miseria”, ha detto con una frase perfetta e molto citata. 

Ma come racconta sé stessa, la straniera Cagnati? Cosa sono i testi relativamente brevi che la storia della letteratura ha rischiato di farsi scappare, non fosse per la New York Review of Books, che ha tradotto Jours de congé come Free day nel 2019, e di Adelphi? Romanzi? Novelle? Nessuna delle due etichette è sbagliata, ma non si può trascurare l’influenza della tragedia classica, materia che una professoressa di liceo sicuramente conosceva bene, per capire Giorno di vacanza, vicenda compatta, universale, estrema. Galla ha 14 anni e una vecchia bicicletta che le permette, ogni due settimane, di percorrere 35 chilometri per tornare nella casa decrepita della sua famiglia. Una casa che, ci accorgiamo presto, la attrae e la respinge in un andirivieni febbrile che solo la reattività dei pedali riesce ad assecondare. D’altra parte quella bicicletta è la cosa più preziosa che ha e che mai avrà, “anche se un giorno dovessi essere molto ricca”. Le prime pagine sembrerebbero quasi voler raccontare un’edificante storia di riscatto adolescenziale sullo sfondo di una Francia rurale misera e ostile. A ogni frase, il récit d’enfance si fa però più cupo e con sapienza l’autrice inizia a togliere l’ossigeno al lettore disseminando il racconto di elementi inquietanti. Il risultato è un testo scarno, di eccezionale densità, anche grazie alla bella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala per Adelphi, che dopo il successo di Génie la matta, pubblicato nel 2022, ha scelto di riscoprire questo esordio del 1973. Al centro della vicenda emana la sua luce livida una figura materna struggente e inadeguata: “Le metto le braccia intorno al collo e le dico quanto le voglio bene per sempre, per sempre. Ed è vero. Così come è vero che avrei voluto che non fosse mia madre. Avrei potuto frequentare tranquillamente il liceo senza abbandonare nessuno e poi andarmene di casa senza neppure voltarmi indietro”, registra. La scarnificante pietà che i bambini provano per gli adulti infelici, stranieri al loro mondo è uno dei temi centrali dell’opera di Cagnati, che se in Génie la matta mette in scena una madre che non vuole essere raggiunta, eternamente inseguita, perduta e assente, in Giorno di vacanza partorisce la sua prima madre letteraria facendone una creatura lacrimosa che non accetta invece di essere lasciata indietro e che trascura la figlia sola nel mondo delle colpe e degli incidenti terribili in cui nessuna voce riuscirà davvero a dirti che non c’entravi niente. 
L’equilibrio perfetto è immaginato, non senza una certa ironia, nel romanzo Mosé, quando il protagonista spiega che “deve essere bello vedere la vita così”, come un canguro, “al calduccio dentro delle madri che non dimenticano”. Lei stessa, al povero intervistatore le chiede cosa sia la famiglia, la prima patria, “l’unico posto che abbiamo nel mondo”, dice che per lei è suo figlio, “forse perché sono io che l’ho fatto”. E’ eccessivo? “Se non glielo faccio pesare no”. E a Galla la madre lo fa pesare senz’altro, sebbene ci siano quattro altre bambine – sorelle che nella vita reale si chiamano Elsa, Gilda, Annie e Anabel e a cui il libro è dedicato – sul cui destino non ci soffermeremo per rispetto di chi ancora non ha letto e che non sembrano riuscire a compensare agli occhi della madre la partenza della narratrice, che, come una falena, continua a girare sulla sua bici intorno alla casa paterna, alla figura materna. Perché dalle famiglie non si sfugge, e non importa che siano all’altezza o meno, non ci sono professoresse abbastanza incoraggianti da strapparti via da un rione ferrantiano o da una campagna dove, oltre ai sassi, hai conosciuto la consolazione della natura, il piacere sensuale delle stagioni e l’amicizia con un mondo animale che Cagnati descrive in maniera confidenziale: mucche, maiali, papere e pure lucertole sono parte di un andamento naturale delle cose che può essere spietato ma anche fonte di un calore, una solarità che ha qualcosa del divino proprio per chi della natura conosce le regole e le compensazioni, le stagioni e i tempi. E così come la cagna Daisy è la migliore delle madri, non solo verso i suoi cuccioli, il mondo animale è in grado di entrare nella ricca e luminosa sfera interiore di una narratrice digiuna di amore ma sempre innamorata, di una sorellina o di una compagna di scuola o di una madre, sebbene confrontata alla durezza assoluta del mondo esterno fatto di esclusione e morte – pulcini decapitati, cani impiccati – in cui l’unica libertà è quella di pedalare fino a farsi male, fino a fare male. Galla vorrebbe vivere in un paese del sole, in cui “tutto splende, esulta e muore”, ma non può sognarlo, perché il posto in cui vive, in cui è diventata straniera, è tutto il contrario: “Siamo in un paese di paludi, piovischio e foschia. Non posso farci niente, nemmeno se mi mettessi a provarci con forza. Nemmeno se mi mettessi a sognare con tutte le mie forze”. 

Onore a un establishment letterario che ha saputo fare spazio, salvo poi assecondare l’inclinazione di lei per la discrezione e l’oblio, a una scrittrice diversa ma non esotica, impermeabile a ogni posa e a ogni retorica della gratitudine. Pubblicati nella collana folio di Denoël, parte di Gallimard, tutti i libri dell’autrice, compreso Mosé ou le Lézard qui pleurait del 1979 con il prix spécial des bibliothèques, ottennero riconoscimenti importanti: il Prix Roger-Nimier nel 1973 per l’esordio, per Génie, notata sia al Goncourt che al Femina, quello dei Deux Magots nel 1977 e per Les pipistrelles, uscito nel 1989 per Julliard, il Prix de la nouvelle de l’Académie Française del 1990. Nel 1976, la breve prefazione alla prima edizione di Génie evoca descrizioni “di una potenza emotiva forse senza pari nella letteratura” ed è proprio quel “forse” a garantire l’assoluta sincerità del redattore anonimo chiamato a scrivere una pagina stringata e deciso a comunicarci che ci saranno pure altre cose così forti, ma non a lui non viene in mente niente, e quindi ci presenta Inès Cagnati, inarrivabile. 

Per non parlare delle recensioni, numerose ed elogiative, in cui spesso la si definisce una delle più grandi scrittrici in lingua francese. Tra questi giudizi spicca quella di un peso massimo dell’epoca come Michel Tournier, che sul Monde del 3 novembre del 1976, in un articolo intitolato “A chi pensano i Goncourt?”, spiega di Génie che “questo secondo romanzo conferma il talento abbagliante dell’autrice”. Il noto autore, autore di una fortunata riscrittura di Robinson Crusoe, sostiene che “con dei mezzi notevolmente sobri, una precisione impietosa nel dettaglio concreto, un tono sempre contenuto, Inès Cagnati sa spalancare degli abissi di tristezza ed evocare una pena infinita”. Per Tournier quello della scrittrice è, senza mezzi termini, “du très grand art”. Perché a un certo punto la vita della scrittrice prende una piega meno ruvida, inizia ad andare bene, lei va avanti negli studi grazie agli incoraggiamenti di una maestra, passa l’esame di abilitazione all’insegnamento che le permette di diventare professoressa prima in Martinica e poi a Parigi. Passi avanti che le hanno dato nuovi strumenti per raccontare quel peso dell’anima, l’infanzia “del tutto infelice” di una bambina straniera a tutto. Un giorno in una libreria della catena Gibert, Inès incontra Yves Angioletti, ingegnere italo-francese con cui si sposa e con cui ha Bruno, il grande amore della sua vita. Si trasferiscono per un periodo a Brasilia, Paris Match cerca di raccontarne la lieta quotidianità famigliare in un articolo corredato da foto in cui madre e figlio giocano con la stessa aria assorta, impermeabili ai sorrisi, intensi e uniti. Lei ha i capelli corti e un po’ gonfi di chi è arrivata agli anni Settanta già adulta, le sopracciglia sono sottili, le labbra serrate: più che una bocca sembra una diga, l’argine di un eccesso di pensieri e sentimenti che hanno trovato sbocco solo nella scrittura. Yves muore nel 1990 e lei dopo non scrive più. Traduce qualcosa dallo spagnolo, è nella giuria di un premio letterario locale, passa gli ultimi anni della sua vita a Orsay. Nei necrologi del 9 ottobre del 2007 compare come Inès Angioletti, nome straniero e meno terrigno del suo. 

Ma la solarità immaginata è sempre più intensa di quella vissuta. Nei libri di Cagnati i cambiamenti sociali delle Trente Glorieuses e lo schiudersi di un mondo pieno di promesse si sentono, in Génie un personaggio parla del Brasile e dei “paesi in cui a pranzo e a cena si mangia carne a cuor leggero e ce n’è tanta che non si sa che farne”, una sorta di paradiso in cui le regole millenarie della vita contadina vengono scardinate. La casa di Giorno di vacanza è immersa in una miseria atavica, “un cimitero senza tombe” e irradia tutt’altro, l’energia cupa di ciò che è unheimlich, perturbante, disegnata com’è con tratti addirittura più neri di quelli abituali di Agota Kristof o Shirley Jackson. Cagnati è particolarmente abile con le immagini – il ciliegio dei frutti rossi e dei rami con cui il padre picchia duro, il collegio dove si calpestano i corpi delle monache morte, per citarne solo alcune – e con la messa a fuoco dei due estremi opposti del bene e del male, inconciliabili come solo nella mente infantile possono essere. Lavora sulle ripetizioni, sui Leitmotiv per riportare il lettore a ciò che è importante mentre racconta storie raggelanti in cui la morte è un complemento costante e in cui il mondo contadino è tutt’altro che privo di nevrosi: tutto è espresso in una maniera più rude, dura, con una bestialità da cui non ci si emancipa (e non quella nobile della cagna Daisy). Nei racconti di Les pipistrelles c’è una visuale più intima di quei tinelli rurali dove la modernità irrompe lentamente dopo secoli di ripetizione e lo fa anche attraverso la conoscenza dell’altro, la lettura di storie, di libri, l’apertura a beni materiali sempre meno miseri. Le storie di Cagnati sono materia da ossessione e i suoi giri di frase sono come i giri di bici di Galla, capaci di unire realtà distanti: “Quando penso a me, mi odio molto di più di quanto non facciano gli altri” e “allora provo compassione per me perché nessuno mi vuole, nemmeno io”. Una ciclicità che sottrae e restituisce, come le stagioni, e che ad ogni giro porta più vicino alla fuga, al ritorno a sé o alla palude.

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