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Il gioco degli antiquari con il tempo secondo Mario Praz

Alfonso Berardinelli

Due testi del critico italiano raccontano il mestiere di chi "rende nuovo il vecchio e vecchio il nuovo". Una mentalità che non sopporta l'oblio del tempo e non accetta che gli oggetti che popolano il nostro presente abbiano valore solo nel presente

Ogni volta che mi arriva una pubblicazione, per quanto minore e secondaria, di Mario Praz o su di lui, avverto sempre una precisa e immediata allegria. Avevo seguito un po’ le sue lezioni di letteratura inglese quando ero studente alla Sapienza, ma poi abbandonai per frequentare il corso di letteratura tedesca. Allora ero piuttosto germanocentrico, pur avendo appena cominciato a studiare la lingua. Ma poi negli anni Settanta, grazie a un’attrazione crescente per Auden, Orwell e Edmund Wilson, mi allontanai dal clima intellettuale tedesco e cominciai a pensare che la filosofia tedesca, con le sue astrazioni e con il suo gergalismo, aveva fatto alla cultura italiana più male che bene. Mi venne in mente di fare visita a Praz, ma a forza di rimandare per timidezza o pigrizia, nel 1982 seppi che era morto. Ma sempre, da allora, dopo Giacomo Debenedetti, da cui avevo avuto la tesi di laurea, Praz è diventato il critico italiano che leggo più volentieri. Molto meglio il suo appassionato “dilettantismo” e i suoi vagabondaggi saggistici negli spazi e nelle epoche della cultura, che non il professionismo altezzoso di Gianfranco Contini, critico per universitari.

L’editore Nino Aragno ha appena pubblicato un piccolo libro che sembra messo insieme come un invitante hors-d’oeuvre all’opera di Praz e alla sua biografia: “Omelette soufflée à l’antiquaire. Elogio degli antiquari” (74 pp., 15 euro). Il libretto contiene due testi di Praz sul tema, e in appendice un ritratto dovuto a Giovanni Balducci, che di Praz segnala “l’irriducibile libertà” e la “pasta geniale” di cui è fatta la sua scrittura saggistica. Seguono due interviste, una più ampia di Fausto Gianfranceschi e una più breve di Franco Simongini, uscite sul quotidiano Il Tempo nel 1976 e nel 1979.

Le due cose che secondo Praz fanno gli antiquari sono “rendere nuovo il vecchio” e “rendere vecchio il nuovo”. E’ un gioco speculativo, in tutti e due i sensi, con il tempo, gioco che trasfigura, elude o viola la linearità che di solito si attribuisce alla storia. La mente e mentalità antiquaria non sopportano che il tempo passi e induca all’oblio, né riescono ad accettare che gli oggetti che popolano il nostro presente abbiano valore solo nel presente: e per questo li immaginano e li mettono in scena come appartenenti fin da ora a quel passato che prima o poi li farà, nello stesso tempo, sia sparire che essere conservati.

 

Mi chiedo perché mi trovo bene in compagnia di Praz ogni volta che leggo la sua prosa mai perfetta, ma scritta come si scriveva “una volta”. Non capisco gli antiquari, non li ammiro e non li frequento come lui li frequentava. Ma è proprio il loro vivere in un altro mondo e in una pluralità di mondi distanti la cosa che trovo attraente. E’ il loro vivere in un colorato, prezioso, favoloso altrove grazie agli oggetti che tornando dal passato arricchiscono o semplicemente cambiano un po’ il nostro presente. Il “commercio delle cose d’arte”, con il loro alone poetico e avventuroso, eccita l’immaginazione e ci fa sognare l’esistenza di tesori nascosti che per decenni o secoli hanno aspettato che arrivassimo noi a scoprirli e metterli in salvo.

 

Libri come “La casa della vita” (1958) e “La filosofia dell’arredamento” (1945) sono veri e propri mondi in cui il lettore si perde, si ritrova e si perde di nuovo. Strano che nelle interviste Praz, che sembra essere vissuto non una volta ma molte volte, dica di non avere molta memoria. Sarà vero? Come è possibile un erudito, un antiquario, un filologo con poca memoria? Deve trattarsi di una memoria altalenante, che perde e ritrova. Non può esserci avventura e scoperta se non in chi cerca, non di trovare, ma di ritrovare. La memoria di Praz passa dal crepuscolo all’aurora: “Qualcuno pensa che io abbia una grande memoria, ma non è vero. A memoria so poco più che i primi versi della ‘Divina Commedia’”. E poi: “Tutto nasce da un curioso lampeggiamento: e qui si manifesta la mia qualità di scrittore più che di critico scientifico”. Per questo Praz non ha mai sopportato di essere chiamato “professore”, “una noiosa qualifica”.

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