Craveri e Croce nella foto di copertina di “Elena Croce e Lo Spettatore Italiano: una vocazione per la civiltà” di Emanuela Bufacchi  

Lei, lui e la libertà

L'avventura dello “Spettatore italiano”, alla ricerca del terzismo

Annamaria Guadagni

La rivista che Elena Croce diresse con il marito Raimondo Craveri. Storia di una passione liberale condivisa in un piccolo e altolocato mensile. Due vite e altrettante anime

Alla fine della guerra la meglio gioventù trovò un’Italia assai diversa da quella vagheggiata nel bagno di purificazione della Resistenza. Il paese reale era nella nera tetraggine delle città distrutte e, accanto alle macerie materiali, c’erano quelle culturali e morali. Traballavano perfino i significati e pareva indispensabile restituire un senso condiviso a parole chiave come libertà e democrazia. La disillusione fu cocente e non toccò solo chi avrebbe voluto la rivoluzione socialista. “L’eroismo dell’opposizione si era rapidamente dissolto al contatto con la realtà disarmante e antieroica del secondo dopoguerra nella quale non c’era più giustificazione all’uso della parola fratello, e il nome libertà suonava quasi ridicolo, e parlare di creatività o di poesia non era nemmeno retrogrado, era sconveniente”. Così scrive Emanuela Bufacchi nel saggio introduttivo al suo libro, “Elena Croce e Lo Spettatore Italiano: una vocazione per la civiltà”, pubblicato da Rubbettino. Quella dello Spettatore Italiano fu la storia di una passione liberale vissuta in una piccola e altolocata rivista  – di cui qui si forniscono i preziosi indici, una selezione di scritti e scambi epistolari con amici e collaboratori tra i quali Italo Calvino, Franco Fortini, Cesare Cases, Pietro Citati, Leo Spitzer, Elémire Zolla. Lo Spettatore uscì per otto anni, tra il 1948 e il 1956, con il sostegno finanziario della Comit, la Banca commerciale italiana di Raffaele Mattioli, discepolo di Benedetto Croce e gran mecenate del tempo;  ed ebbe una sua sorprendente parabola politica e culturale.

 

Era un fascicolo stampato su carta color crema e disegnato con severità settecentesca. Oggi lo si può guardare come un album di famiglia allargata e prima ancora come un progetto di coppia condiviso con un gruppo di amici. Si dette il compito ambiziosissimo di ricostruire un lessico civile e  formare una nuova classe dirigente e, a dirci che davvero nacque da un sodalizio coniugale, adesso è una lettera scritta da Raimondo Craveri a sua moglie Elena Croce nel 1947: “… Bisogna che tu ed io facciamo una rivista mensile tipo Economist che vada dall’economia alle lettere, non firmata e che si occupi di tutto ciò che interessa la vita italiana, sotto un profilo pratico e ‘managerial’ e non filosofico e in generale ideologico (…) Col lavoro che faccio adesso in banca, ho occasione di vedere da vicinissimo la macchina statale italiana e soltanto sotto quel profilo c’è da scrivere per anni (…) Io non vorrei tirare più di 800 al massimo 1000 copie, e fare una cosa assolutamente ‘indipendente’, individualissima e di temperamenti”.

 

Raimondo Craveri era all’Ufficio studi della Comit e immaginava una rivista di editoriali e recensioni non firmate, i primi collaboratori che gli vennero in mente furono “Mattioli, Malagodi, Gerbi, gente così”. Chiaro che siamo in una casa terzista, appoggiati su uno dei molti rami di quell’albero genealogico e dunque, in tempi di nuovi furori azionisti e baruffe renzotte, siamo più curiosi di illuminare gli interni per guardare dentro. Nel 1947 Craveri aveva solo trentacinque anni. Lo si vede nell’immagine di copertina con i pantaloni alla zuava, seduto accanto alla moglie in una bella foto d’epoca, forse scattata sul lago d’Orta. Era stato tra i fondatori del Partito d’Azione e –  come ricorda suo figlio, lo storico Piero Craveri, nella prefazione a questo volume – nella Resistenza era stato responsabile dei collegamenti con gli alleati e dei lanci aerei di armi e munizioni alla brigate partigiane combattenti. Era un ragazzo brillante e spericolato, di agiata famiglia piemontese. Elena Croce invece era figlia del grande filosofo e ne portava l’onere con naturalezza, senza complessi. I testimoni dell’epoca la descrivono non bella, ma elegantissima e molto attraente. Con la sorella Alda aveva pubblicato Aretusa, la prima rivista culturale dell’Italia liberata, che era stata la sua palestra d’indipendenza dall’autorità  paterna. Elena aveva cominciato adolescente a girare il mondo con suo padre e traduceva da cinque diverse lingue.

 

Ecco dunque la giovane coppia immaginare un mensile, un foglio che sarebbe costato circa seicentomila lire l’anno. Lo Spettatore ebbe due vite e altrettante anime, che in fondo corrispondevano proprio a loro due,  Elena Croce  e Raimondo Craveri. Quanto alla politica, lui cominciò pubblicando articoli sullo sviluppo dell’economia moderna, il superamento del corporativismo e del classismo, sulla Guerra fredda e il piano Marshall, sulla critica dell’anticomunismo. Perché sì, nella sua prima vita, ispirata da Raffaele Mattioli, la rivista pensava a un’Europa atlantista che non chiudesse, in termini politici e commerciali, i suoi rapporti con l’Est;  mentre, in politica interna, esplorava un’alternativa riformista senza escludere il Pci che, dopo le elezioni del 1948, con la Dc trionfante e i partiti laici attratti nella sua orbita, era rimasto fuori da qualunque gioco di governo. Sul finire del ‘49, a collaboratori già legati al mondo delle riviste crociane e all’Istituto di studi storici – come Gabriele Baldini, Vittorio Gabrieli, Giuliano Procacci, Rosario Romeo – si aggiunse un gruppo di comunisti cattolici: entrarono in redazione Franco Rodano, che lavorava con Craveri  all’Ufficio studi della Comit, lo storico Gabriele De Rosa, Vittorio Tranquilli e Antonio Tatò, che in un futuro ancora lontano sarebbe diventato il collaboratore più stretto di Enrico Berlinguer. La rivista si fece attenta all’evoluzione del Partito comunista, invitandolo a rompere le rigidità ideologiche e ad aprirsi al confronto culturale e politico con altre forze. E per comprendere l’audacia delle posizioni basterà fare attenzione alle date e dire che queste discussioni precedono l’Ostpolitik di vent’anni e il compromesso storico di un quarto di secolo. 

 

L’esperimento non resse. In una sua ricostruzione Gabriele De Rosa, poi rientrato nella Dc, ha scritto di un’esperienza di “liberalismo rivoluzionario”. A distanza di anni, in una memoria autobiografica, Elena Croce l’ha invece sintetizzata come una delle tappe del suo progressivo distacco da Craveri: “Mio marito nel frattempo si faceva sempre più affascinare dai comunisti, e in particolare dai comunisti cattolici, attraverso Franco Rodano, e le nostre opinioni quindi andavano sempre più divergendo”. Ora, nella sua prefazione a questo libro, Piero Craveri ripensa quel momento nei termini “di un connubio davvero improprio”: difficile – scrive –  comprendere, almeno a quell’epoca, la simultanea collaborazione sulle stesse pagine di Benedetto Croce e dei comunisti cattolici. Fatto sta che nel 1954 quella stagione e la prima vita dello Spettatore finirono con la redazione che si congedava dai lettori. Emanuela Bufacchi osserva che la rottura avvenne più o meno in corrispondenza cronologica con il tentativo di defenestrare Mattioli dal vertice della Comit, “causato dalle insofferenze governative per le inclinazioni filocomuniste del banchiere”.

 

Lo Spettatore chiuse quella prima stagione  e ricominciò con la direzione di Elena Croce, ma non divenne una rivista prettamente letteraria come generalmente si crede. Rinacque – scrive Bufacchi –  “con un’altra linea d’indirizzo, in cui assunse un ruolo prioritario il sodalizio con Leo Valiani”. Per chiarire dove siamo, è utile citare qui il carteggio con  Valiani che, nel 1955, scriveva in polemica con Togliatti: “Lo Spettatore non ha mai avuto paura di contatti con i comunisti, e neppure di accordi per fini ben determinati, quali furono in passato la lotta di Liberazione dal dominio nazista e per l’abbattimento della dittatura fascista (…); e quali potrebbero essere oggi (…) misure legali contro la rinascita del fascismo; o anche per la nazionalizzazione delle fonti d’energia o per l’effettiva attuazione della giustizia fiscale. Ma Lo Spettatore respinge alleanze con i comunisti per fini generali, quali la difesa della pace o la lotta per una democrazia progressiva, perché ritiene che a questi termini i comunisti diano un significato diverso da quello che essi hanno nell’uso schiettamente liberale”.

 

Al tempo dell’osservanza ideologica, l’avventura dello Spettatore fu una libera esplorazione dentro un orizzonte rigorosamente europeo. E il tratto più originale, che porta l’impronta di Elena Croce, fu certamente quello culturale. Ne uscirono articoli sulla crisi della cultura, sulla borghesia travolta dalla società di massa, sugli intellettuali impegnati: il mondo della rinascita tratteggiato con penna graffiante, talvolta intinta nel curaro, illuminandone come un’antropologa usi e costumi. Finita la guerra era arrivato il momento di “sentirsi liberi dalle limitazioni antifasciste”, era ora di smettere l’abito mentale dei lunghi anni di lotta clandestina per guardarsi (e non solo guardare gli altri) in modo critico.  Magari per accorgersi del “troppo gonfio discutere” elevando “la propria mediocrità a fatto cosmico”. O  per scoprire l’adattamento e la rassegnazione a vivere in una società senza élite “e quindi in fin dei conti senza aspirazioni e senza ideale”. Forse tutte le generazioni hanno pensato, almeno una volta, di vivere tra nani che occupano indegnamente le case dove un tempo abitavano i giganti. Era così anche allora. Elena Croce vedeva “una folla alquanto indistinta” gesticolare dove ieri agivano i Churchill e i Roosevelt ,“circondati da un alone quasi leggendario”. Però sapeva anche che la botola del luogo comune è sempre aperta, e  subito annotava come la leggenda fosse cresciuta intorno ai grandi per ciò che essi rappresentavano: “escogitazioni benefiche” contrapposte a quelle malefiche dei dittatori. Così le indiscrezione giornalistiche sulla loro vita privata, sulle loro abitudini e le loro manie non li avevano ridimensionati, riducendoli a ominicchi, ed erano rimasti simboli, “incarnazioni del misticismo democratico”.

 

A sfogliare la rivista, ce n’è per tutti. Per la borghesia italiana con la sua rilassatezza morale e di costumi, priva di senso civico e umanitario e di energia creativa, sostituite “da uno spirito d’avventura spinto all’assoluto cinismo nell’esercizio degli interessi antinazionali”. Senza trascurare la classe media che avanza imponendo al paese “una facciata di interesse fittizio e offensivo, e invade con un lusso ostentato e sgargiante i centri cittadini e le stazioni climatiche”. Presto, prevedeva, la qualità degli spettacoli e dei libri pubblicati si adeguerà a loro, ai nuovi ricchi e ai ceti medi. Impagabili le osservazioni sull’autobiografismo e sull’assenza di coraggio nel romanzo italiano: “E’ ben raro che qualcuno naufraghi in un tentativo ambizioso: ci si compiace della propria modestia, la si accarezza, si cercano mete sempre minori; è del resto il tipico procedimento che trasforma i complessi di inferiorità in complessi di superiorità”. E poi le note sulle terze pagine e sulla chiacchiera culturale, in cui “tutti rimasticano i soliti postumi di psicoanalisi, il solito pro e antimarxismo, il solito esistenzialismo, le solite accademie di ‘poetica’, tutti commemorano Valery e Virginia Woolf, pubblicano inediti di Kafka e rifanno la storia dell’influsso determinante di Joyce sulla letteratura contemporanea. (…) In ogni lingua, sulle riviste d’avanguardia, o simili, si scrivono press’a poco le stesse cose, ma l’incomunicabilità e il disinteresse reciproco diventano ogni giorno più grandi”.

 

Quanto alla “logora questione dell’engagement”, che Elena Croce vedeva come “l’estrema cristallizzazione dell’astratto moralismo antifascista”, eccola trafiggere la metamorfosi  del poeta ermetico in “poeta del popolo, o in propagandista dei valori della civiltà occidentale”. Lo Spettatore è una miniera di sferzante ironia, di arguzia aforistica, di vitalità e voglia di ripartire dopo gli anni bui del fascismo e quelli eroici della Resistenza. Ma, soprattutto, è la testimonianza di un gran lavoro per riformulare un canone letterario e per avviare la “riforma culturale”  sentita come necessaria: arrivano e si discutono, tradotti su quelle pagine, i primi scritti di György Lukács, le riflessioni critiche di Walter Benjamin e Theodor Adorno; si forma una generazione di collaboratori importanti, tra i quali Renato Solmi, Cesare Cases, Giorgio Bassani, Piero Citati, Elémire Zolla. In quegli stessi anni febbrili, Elena Croce mise nelle mani di Giorgio Bassani, allora editor di Feltrinelli, il manoscritto del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, che Elio Vittorini aveva rifiutato e che fu pubblicato nel 1958. Quando la rivista chiuse, nel 1956, si era aperta un’altra pagina di attivismo pionieristico. Elena Croce aveva da poco fondato, con un gruppo di amici, l’associazione ambientalista Italia Nostra. Rubbettino ha appena pubblicato, sempre nella collana della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, la ricostruzione di alcune importanti battaglie: “Storie di resistenza ambientale. La tutela di Napoli e della Costa Campana negli anni Settanta”, di Alessandra Caputi. Ma questa è un’altra avventura.